Tra vento, roccia e sale, il Carso tempra lo spirito degli uomini e dei vini. Ma, se gestito, l’incontro tra forze opposte conduce sempre all’equilibrio. Con tecnica e carattere Edi Kante ne ha fatto la chiave dell’eleganza

La scrittrice francese Muriel Barbery, nel suo romanzo L’Élégance du hérisson del 2006, utiliz zava il riccio, piccolo mammifero (purtroppo a rischio di estinzione) dal dorso coperto di aculei, come metafora di eleganza minima lista e cultura non ostentata per descrivere l’apparentemente rude portiera Renée. Ecco, anche Edi Kante è così. Se lo prendi per il verso sbagliato, le spine, è capace di conge darti in pochi minuti e senza troppi conve nevoli; viceversa, ti accoglierà con semplice generosità, facendoti entrare nella sua vita come fossi “uno di casa”. Per capire la per sona basta assaggiare i vini che fa, frutto del suo lato migliore ma, esattamente come lui, temprati dalla durezza della terra dove nascono: affilati, spigolosi, indomiti, eppure, al contempo, incredibilmente intensi, materici, persino equilibrati. In una parola: eleganti. Un compromesso tra angoli acuti e volumi, eccedenza e concentrazione,cheèsintesidi questa terra di confine, il Carso, bellissima madifficile,magra ma ricca, dove per riuscire a impiantare le viti c’è prima bisogno di creare la terra. Usando le macinasassi, macchinari (Edi ne ha uno) che attraverso apposite punte di widia (metallo duro come diamante) graffiano la roccia e la frantumano, creando un ghiaino fine e ricco di minerali cui aggiungere, al bisogno, sostanza organica.

Edificare non è più semplice, ma la casacantina di Edi (la stanza da letto dei coniugi Kante è attigua agli uffici), costruita a parti re dall’88, vanta comunque delle dimensioni più che ragguardevoli per un’azienda del Carso dove, ricordiamolo, per scavare c’è bisogno della dinamite. Nonostante ciò, è stata fatta con un criterio attento alla salvaguardia del territorio, sfruttando al massimo tutti i benefici che la roccia naturale concede in termini di areazione e climatizzazione e ricorrendo laddove proprio necessario all’impiego del cemento, comunque di sola pozzo lana per un minor impatto ambientale. Per il resto, vige la totale semplicità e funzionalità degli spazi, con il solo vezzo qua e dei quadri astratti di Edi, «quelle robe», le chiama lui, in cui si diletta da una ventina d’anni e che utilizza per fare le etichette dei suoi vini Selezione, «non perché mi senta un artista – spiega – ma per risparmiare sul grafico!». Fedele scudiero e tutore di questo regno è da vent’anni il placido Boris, dote indi spensabile per lavorare accanto al mai sopito vulcano Kante, agronomo ormai “segre gato” in cantina, che gestisce con paterno accudimento. Non meno paziente è la bella moglie Elena, ospite sempre pronta ad accogliere con gentilezza gli avventori che si presentano senza sosta, per un bicchiere in compagnia o per acquistare un vino, alle porte della sua casacantina. Da qualche mese in organico è entrata anche la giovane Teresa, destinata a occuparsi dell’aspetto commerciale e di rappresentanza giacché, fa Edi, «io sono stufo di andare in giro per il mondo». Un acquisto sul quale il vigneron punta molto, lasciando trapelare quanto è forte in lui il bisogno di trasmettere ciò che ha appreso finora.

Perché questo è Edi Kante: esuberante e un po’ folle, seppur molto meno di quanto si autoritragga, ruvido e burbero a tratti, ma estremamente generoso di idee, di consigli, di racconti. Se sai stare ad ascoltarlo, muovendoti cauto tra tutte le sue spine, è in grado di aprirti nuovi orizzonti, non solo enologici.

Del resto, lui è quello che ha fatto la storia del vino del Carso, vedendo un potenziale enologico inespresso tra le aride e inospitali rocce di questo territorio. È stato il primo a fare le macerazioni, i famosi orange wine, quando nessuno ci pensava, e anche il primo ad abbandonarle, perché secondo lui toglie vano eleganza ai bianchi, nel 1996, quan do i big di oggi ancora dovevano iniziarle. E adesso che il mercato va tutto in quella direzione Edi guarda altrove, cercando di ottenere ben di più da questa terra.

La sua mira oggi è superare i grandi bianchi di Borgogna, i Montrachet, e assaggiare alcune vecchie annate dei suoi Chardonnay ci ha rivelato che l’idea non è poi così strampalata. Nessuna “folle” improvvisazione, Edi Kante sa esattamente cosa fa, perché è uno dei pochi nel Carso ad aver sperimentato l’evoluzione dei suoi vini nel tempo, andando a costruire, un pezzetto alla volta, una cantina che glielo permettesse. «L’idea di invecchiare i bianchi è stato un investimento premeditato oltre venti anni fa. Negli anni ’80 avevo appena iniziato a imbottigliare – racconta – giovane e appassionato, ma pur sempre un tecnico (ho studiato agraria e fatto il vivaista), avevo iniziato a confrontarmi con i produttori del Collio e mi ero reso conto che i loro vini erano morbidi, caldi e funzionavano in annata, mentre i miei no: non erano pronti, erano magri, scontrosi e non li capivano. Finché non mi accorgo che, però, i miei vini durano. Allora mi metto a temporeggiare, a farli uscire un anno dopo, e nel frattempo, nel 1993, inizio a costruire la nuova cantina. Non un capannone, ma una struttura interrata che rientrasse nel “gioco di natura” del territorio, facendo tesoro di quanto appreso dai naturalisti con cui avevo lavorato prima, come Soldera e Valentini. Perché non sono io ad esser bravo, ma è la zona in cui sto ad essere grande!».

Così si mette a fare ricerca per usare al me glio le capacità proprie e le potenzialità del territorio,adattando la tecnica, riscoprendo il Guyot, abbassando le rese e,soprattutto, inventando il concetto delle Selezioni, che gli permettono di tenere il vino in cantina per anni, mettendolo a punto il più possibile e facendolo uscire pronto “su richiesta”, senza perdere così i numeri di vendita.

«I miei vini sono un mondo in cui devi entrare, per capire lo stile e il lavoro che sto portando avanti. Non sono maniacale sulla tecnica, perché se cado sulla tecnica trove rei altri più bravi di me, ma lo sono sull’eleganza. Quindi cerco sempre di sfumare, di trovare un punto di incontro tra le due. Queste terre ti fanno fare vini antipatici, squilibrati, mai uguali e imprevedibili. Devi saperli proiettare e io negli anni ho imparato a capire se un vino andrà o non andrà lontano. Mi piace vederlo crescere, evolvere, maturare nelle sfumature… vederlo ti rar fuori il carattere, insomma!».

Un allenamento all’attesa che va avanti da anni, quindi, e con cui Edi ha fatto ulteriore pratica in una recente esperienza in Brasile, dove ha avviato e subito venduto un’azien da capace proprio di fare grandi bianchi invecchiati, mentre sta mettendo a dimora nuovi appezzamenti in Slovenia che «potrebbero essere – annuncia – la realizzazio ne del sogno».

Nel frattempo ,però, siccome dopo aver imparato a fare pure il Metodo Classico grazie alle dritte del produttore modenese Christian Bellei, da qualche anno Edi si è dato a una nuova sperimentazione: i vini senza solfiti.

Nessuna puzza, nessun inganno e appena 15 mg/l di solfiti, quindi essenzialmente quelli già presenti sull’uva, per una pura prova di tecnicismo e sapienza enologica ovvero «quarant’anni di storia in natura, vino e conoscenza, il Metodo Kante senza solfiti aggiunti» come si legge in etichetta. «Questi non sono né naturali, né biologici, né bio dinamici, questi sono oltre – fa Edi – non ci sono additivi chimici, solo uve perfette, e quando li bevi ti si apre un mondo sconosciuto: la verginità del vino». Assaggiarli è effettivamente un’esperienza: i profumi sono decisi, pieni, coesi come quelli di un concentrato di frutta, in una intensità che esula dai canoni aromatici ai quali siamo stati abituati. Chiusi con bidule e tappo a corona, con un residuo di CO2 lasciato «per allungargli la vita», vanno bevuti giovani, anche se Edi è pronto ad accettare la sfida di vederli durare a lungo. Vini che sovesciano il concetto di naturale e che proiettano ancora una volta – piaccia oppure no – quel visionario di Edi Kante avanti di al meno 10 anni rispetto a come beviamo oggi.