Con una storia lunga 2800 anni Orvieto è una città e un territorio tra i più antichi del mondo del vino, simbolo da sempre dell’enologia umbra e per molti decenni del vino italiano fuori dai confini dello Stivale

«Chissà quante volte sarete passati sotto la rupe di Orvieto […] rimasta quasi in tatta nei secoli. Poi il fatto che è circondata, quasi immersa nei vigneti, che iniziano all’improvviso ad Allerona, subito dopo i calanchi argillosi dei dintorni di Fabro, e finiscono appena dopo Baschi, coprendo una trentina di chilometri di campagna». Così il nostro Direttore Daniele Cernilli introduceva il territorio nel volume Orvieto DOC, voluto dal Consorzio Tutela Vini Or vieto alla fine degli anni Duemila proprio per presentare al mondo questo antico e noto territorio del vino.

La tradizione vitivinicola di Orvieto ha radici remote e profonde, risalenti al tempo degli Etruschi, che nel X sec. a.C. fondarono proprio su questa rocca tufacea la città di Velzna. La particolare struttura geologica permise di scavare gallerie e vani su più piani, creando un ambiente favorevole alla vinificazione e all’affinamento dei vini, nonché delle vere e proprie cantine a gravità, ingegneria di assoluta eccellenza e rara all’epoca. I Romani, che per vari motivi odiavano gli Etruschi e, aggiungiamo noi, erano anche invidiosi della loro perizia architettonica, appena videro l’opportunità di piegare questo modello di bellezza ed efficienza vitivinicola non si fecero scappare l’occasione. Il casus belli, invero, venne proprio dagli Etruschi di Velzna, per essere precisi dalla “molle” e paurosa aristocrazia etrusca che, per sedare nel 270 a.C. l’ennesima rivolta degli schiavi, invocò l’aiuto di Roma. Nel 265, precisamente durante la primavera, un copioso esercito condotto dal console Quinto Fabio Massimo, risalì il Tevere e mise in scacco l’esercito dei rivoltosi. La morte del console durante gli scontri provocò una ulteriore e ancor più decisa azione di Roma che, dopo l’invio di ulteriori truppe, assediò per mesi la città per poi vincerla nel 264. Roma, tuttavia, non perdona: in seguito alla presa le truppe dell’Urbe si diedero a saccheggi, ruberie, incendi diffusi e devastazioni, oltre alla deportazione di tutti i sopravvissuti, aristocratici etruschi inclusi, in quella che sarà ribattezzata la Nuova Velzna, ossia l’antica Bolsena. I campi del circondario furono dati alle fiamme, così come le fattorie, i mulini e le cantine, tutte distrutte ivi comprese quelle verticali della rocca, da cui venne trafugato ogni tipo di bene, dal vino a oltre duemila statue di bronzo che, presumibilmente, presero la via di Roma. La città, così come oggi la conosciamo, compreso il contado, rinacque solo nel Me dioevo, un periodo d’oro anche per le vigne e per la produzione enologica che tornò ai fasti preromani. Tanto per rendere l’idea, nel Duecento, i consoli, al tempo borgo mastri della città, introdussero nella Carta del Popolo, statuto del Comune medievale di Orvieto, uno specifico capitolo riguardante le sanzioni per chi venisse scoperto a danneggiare i vigneti. Nel 1295, al fine di controllare l’ottemperanza di tali decreti, i consoli nominarono una sorta di magistra tura ad hoc denominata Custodi delle vigne, il cui compito consisteva nel vigilare sulle piantagioni, controllare la produzione di vino e l’andamento dei commerci, giacché il vino era moneta sonante e, come vedremo a breve, spesso andava addirittura a sostituirsi a questa.

Durante tale epoca, così come nel Rinascimento, la città e l’area furono luoghi di soggiorno per Papi e cardinali, aspetto che contribuì non poco alla fama dei vini, tra i più apprezzati alla corte pontificia, con estimatori quali i papi Paolo III Farnese e Gregorio XVI. Grande estimatore fu anche il Pinturicchio, tra il 1492 e il 1496, quan do si trattenne nella cittadina per dipingere gli affreschi del duomo. Ugualmente il vino fu molto apprezzato dal Perugino, artista che, addirittura, lo pretese in parziale pagamento per la sua opera. Il vino rientrò, infatti, spesso come compenso per le mae stranze che costruirono il duomo; curiose, a tal proposito, sono le clausole inserite nel contratto stipulato nel 1500 tra l’Opera del Duomo e Luca Signorelli, artista e pittore vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e la prima del Cinquecento, per l’affresco della Cappella Nova, nominata successivamente Cappella di San Brizio: «item che la fabrica sia obligata a darli, per lo tempo che lui lavora continuo, dui quartenghe di grano al mese e dodice some (circa 1.000 litri, N.d.R.) di mosto per ciascun anno alla vendebia incomensando alla vendebia proxima che verrà». Quasi esclusivamente destinato al consumo locale, tra il Settecento e l’Ottocento, il vino di Orvieto conosce la sua vetrina internazionale di tutto rispetto, presenziando sulle tavole di molte corti europee oltre che su quelle della nobiltà romana e dei papi dell’epoca.

Nei secoli successivi viticoltura e vinificazione subirono un deciso arretramento, evidenziato anche dal Bollettino Ampelografico del1876. Il vino continuò a essere famoso e conosciuto e la sua storia è ricca di aneddoti. Garibaldi lo usò, prima di lasciare il porto di Talamone, per brindare all’avventurasici liana, come narra Giuseppe Bandi, segretario particolare del Generale. D’Annunziolo definì, con la solita e melensa retorica, «sole d’Italia in bottiglia». Tra gli estimatori d’eccezione, oltre all’esploratore inglese George Dennis che, come già raccontato da chi scrive all’interno di un ampio servizio sull’Orvieto apparso qualche anno fa su un’altra testata di settore, nel 1848 descrive mirabilmente la città umbra e il suo vino nella pubblicazione Cities and cemeteries of Etruria, non possiamo non citare Sigmund Freud, il quale, durante la visita alla città nel 1897, in una cartolina per la moglie Martha scris se della bellezza del Duomo e della bontà del vino, simile al Porto a suo dire, aspetto che induce a ritenerli dei dolci o abboccati nettari. La graduale variazione da dolce abboccato a secco del vino di Orvieto, essenzialmente bianco già dai primi dell’Ottocen to, può essere ricondotta al produttore locale Giuseppe Simoncini che, nella seconda metà del Diciannovesimo secolo, insieme a alla cantina Petrangeli Urbani lavorò a una gra duale stabilizzazione chimicofisica dei vini riscuotendo grandi successi in Italia e all’e stero. Petrangeli Urbani poi, oltre a produrre un Orvieto secco, definito da pesce, oltre al tradizionale in fiasco, dette in quegli anni vita allo “Champagne” di Orvieto, vino a seconda fermentazione che scimmiottava la celebre coppa di Reims. Nei primi anni del Novecento l’Orvieto, da secoli indiscusso simbolo del vino della Regione, è principalmente frutto del vitigno Procanico (nome locale con il quale si identifica il Trebbiano), con piccole aggiunte di Grechinicchio, Nocchiello e Dru peggio (Canaiolo bianco) e un mercato che non si esaurisce all’interno dell’Umbria, varcando i confini nazionali e continentali.

Nel secondo dopoguerra le condizioni della vitivinicoltura divennero critiche, a causa del crescente spopolamento delle campagne, dell’inurbamento del territorio rurale e del crescere di norme che imponevano una sempre maggiore specializzazione delle aziende agricole. Solo negli anni Sessanta e Settanta si concretizzò una decisa ripresa del settore vitivinicolo, grazie alla sostituzione dei vigneti “maritati”, che non consentivano produzioni qualitativamente elevate, con sistemi di allevamento come il cordone speronato o la spalliera, in grado di far decollare la qualità delle produzioni; allo stesso tempo apparvero sulla scena alcuni produttori ispirati e motivati, la cui azione segnò la storia vinicola contemporanea della Regione.

Areale, suoli e denominazione

Nel 1931 il professor Giorgio Garavini, ispettore generale del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, delimitò la zona di produzione del vino tipico di Orvieto e sottolineò che la tipologia abboccato era in quegli anni l’Orvieto più apprezzato e diffuso. Nel 1971 il vino ebbe il riconoscimento della DOC. Il Disciplinare subì negli anni numerose modifiche al fine di migliorare la qualità del prodotto e gli aggiornamenti furono incentrati prevalente mente sulla composizione ampelografica. L’ultima modifica è avvenuta nel 2010, con l’inserimento della tipologia Muffa Nobile e la variazione della proporzione dei vitigni principali (Grechetto e Trebbiano toscano 60% minimo, singolarmente o in uvaggio). Le uve destinate alla produzione del vino Orvieto devono essere prodotte nella zona che comprende, in tutto o in parte, i territori amministrativi dei comuni di Orvieto, Allerona, Alviano, Baschi, Castel Giorgio, Castel Viscardo, Ficulle, Guardea, Montecchio, Fabro, Montegabbione, Monteleone d’Orvieto, Porano in provincia di Terni e Castiglione in Teverina, Civitella D’A gliano, Graffignano, Lubriano, Bagnoregio in provincia di Viterbo. Per la menzione Classico le uve devono essere prodotte nel la zona di origine più antica, rappresentata dai terreni attorno alla Rupe.

All’interno della stessa area viticola nasce nel 1998 la DOC Rosso Orvietano o Orvietano Rosso per diversificare le produzioni e creare una sinergia in grado di affrontare al meglio i mercati. A questa produzione sono ammessi i vitigni Aleatico, Cabernet franc, Cabernet sauvignon, Canaiolo rosso, Ciliegiolo, Merlot, Monte pulciano, Pinot nero e Sangiovese, per un minimo del 70% a cui aggiungere eventualmente un saldo di vitigni a bacca nera idonei alla coltivazione nella regione Umbria. Le versioni monovarietali sono a base Aleatico, Cabernet franc, Cabernet sauvignon, Canaiolo, Ciliegiolo, Merlot, Pinot nero e Sangiovese in cui la presenza di questi vitigni deve essere dell’85% minimo.

La coltivazione della vite è tutta collinare e la fascia altimetrica interessata è compresa tra i 100 e i 500 metri s.l.m. La zona geografica è situata a sudovest dell’Umbria, fino all’alto Lazio, dove la denominazione sconfina, e la situazione pedologica dell’area di coltivazione si fa piuttosto varia, annoverando argille e argille sabbiose, formazioni vulcaniche, dovute all’attività pleistocenica del Lago di Bolsena, con colate laviche di varia natura (latiti, trachibasalti, trachiti, monoliti, nefriti e leucititi) e coni di scorie riferibili alle manifestazioni eruttive finali, tufi stratificati, costituiti da alternanze di lapilli, tufi terrosi, pomici, ceneri e tufiti con intercalazioni di travertini, concrezioni travertinose e diatomiti (pleistocene). I depositi alluvionali, prevalentemente sabbiosi e ciottolosi, sono diffusi perlopiù nelle zone di pianura, ai bordi del fiume Tevere e di altri corsi d’acqua locali (Paglia, Romealla ecc.) dove insistono sabbie argillose, sabbie gialle e arenarie grossolane. Il clima è generalmente di tipo mediterraneo subcontinentale, a eccezione di una zona attorno al lago di Corbara (bacino artificiale origina to dallo sbarramento del Tevere) che presenta un profilo unico, caratterizzato dalla presenza di nebbie mattutine autunnali che favoriscono lo sviluppo della muffa nobile (Botrytis cinerea), presente, invero, anche in altri fondi della zona, non solo in prossimità del corso del Tevere. I mesi più freddi sono dicembre e gennaio, mentre i picchi massimi di caldo si hanno nei mesi di luglio e agosto. Le precipitazioni si aggirano sui 7001.000 mm, con un’incidenza maggiore in autunno, mentre le estati sono piuttosto asciutte e possono originare problemi di carenzaidrica. Il disciplinare stabilisce che per i nuovi impianti e i reimpianti realizzati dopo l’entrata in vigore dello stesso sia prevista una densità minima di 3.000 ceppi a ettaro. Lo stesso disciplinare fissa la produzione massima per il vino Orvieto a 11 t/ha e per il vino Orvieto Superiore a 8 t/ ha. Altri limiti sono previsti per la tipologia Vendemmia Tardiva (con uve parzialmente appassite) che non devono superare le 7 t/ ha e per la tipologia Muffa Nobile, mai ol tre le 5 tonnellate. I vini Orvieto devono avere un titolo alcolometrico volumico minimo del 10%, che diventa 11% nell’Orvieto Superiore, 13% nella Vendemmia Tardiva e 16% nei vini Muffa Nobile.

Vitigni, varietà e tecniche produttive

«Nel 1893 – scrive il Professor Attilio Scienza nel già citato libro Orvieto DOC – nell’Annuario Generale per la viticoltura ed enologia, sono elencati 57 vitigni, alcuni vernacolari a dimostrazione che probabilmente lo stesso vitigno era indicato con nomi diversi anche in località vicine. Nel 1931 – prosegue – l’Orvieto, assieme a pochi altri vini italiani tra i quali il Valpolicella e il Chianti, poté fregiarsi del riconoscimento di “vino tipico” […] I vitigni bianchi allora maggiormente presenti in Umbria erano a Todi, Perugia ed Orvieto il Grechetto, il Lupeccio, la Malvasia toscana, il Verdetto (o Verdicchio), il Verdello ed il Procanico».

Oggi la piattaforma ampelografica pre vista per tutti i vini è Trebbiano toscano (localmente detto Procanico) e Grechetto, da soli o congiuntamente, per un minimo del 60%; possono poi concorrere altri vitigni a bacca bianca ammessi nell’Umbria e nella provincia di Viterbo fino a un massimo del 40%. Tra questi possono essere utilizzati Canaiolo bianco (Druppeggio), Chardonnay, Malvasia bianca di Candia, Malvasia bianca lunga, Pinot bianco, Riesling italico, Sauvignon e Verdello.

Il Grechetto, vero protagonista nelle di verse varietà dell’Orvieto, dagli spumanti ai muffati, viene identificato in due varietà diverse: Grechetto di Todi o gentile o Pignoletto e Grechetto di Orvieto o Spoletino. Quest’ultimo è quello che prevale nella composizione dell’Orvieto, anche se nel disciplinare il vitigno è indicato in modo generico. Tale varietà ha una maturazione tardiva, è produttivo e resistente all’oidio, con acini maggiormente tondeggianti ri spetto al fratello di Todi, caratterizzato da bacche più allungate. «A causa del grappo lo spargolo – sostiene Scienza – nelle vendemmie tardive e negli ambienti adatti, è facilmente colpito dal marciume nobile». Dal Grechetto di Orvieto si ottengono vini dal colore giallo paglierino con riflessi verdognoli, dai profumi intensi (pesca bianca, fiori di campo) con sentori vegetali e note “minerali”; di buona struttura in bocca, morbidi, sapidi e dal finale ammandorlato. Venendo infine alle tecniche di produzione, le operazioni di vinificazione, affinamento, appassimento delle uve e imbottigliamento devono essere compiute nell’ambito dei comuni della zona di produzione, salvo autorizzazioni concesse prima dell’entrata in vigore del disciplinare. Le tipologie dell’Orvieto e della sottozona Orvieto Classico sono (secco, abboccato, amabile e dolce) Superiore, Vendemmia Tardiva e Muffa Nobile. La tipologia Vendemmia Tardiva può essere rivendicata esclusivamente per i vini Orvieto Superiore e Orvieto Classico Superiore. La resa massima dell’uva in vino, nella versione in secco, non deve superare il 70%, in quella Vendemmia Tardiva il 65% e nella Muffa Nobile il 60%, mentre le rese di produzione sono pari a 77 hl/ha per la tipologia di entrata (a prescindere dal residuo zuccherino), 56 hl/ha per la Superiore, 45,5 hl/ha per la Vendemmia Tardiva e 30 hl/ha per i vini Muffa Nobile. A grandi linee, ma tutto questo sarà più chiaro nelle nostre degustazioni, nel calice i vini Orvieto presentano alla vista un colore giallo paglierino con riflessi verdolini in gioventù, che diventa oro per le tipologie Vendemmia Tardiva e ambra, con l’invecchiamento, per i Muffa Nobile. Gli aromi per le versioni in secco ricordano sentori floreali di biancospino e gelsomino, fruttati di pesca gialla e bianca, pompelmo, mandorla, susina ma anche salvia, bosso, tarassaco e, nel caso di affinamento in legno, vaniglia e spezie. Nelle tipologie Vendemmia Tardiva e Muffa Nobile le note predominanti sono quelle di pesca disidratata, zafferano, frutta secca e candita, miele di agrumi e nuance fumé. In bocca i vini, anche se abboccati, amabili o dolci, mostrano sempre buona freschezza e sapidità. Per le tipologie Vendemmia Tardiva e Muffa No bile la dolcezza può essere abbastanza spiccata, sorretta, tuttavia dalla già citata sinergia acidosapida. L’importanza non solo economica e produttiva ma, verrebbe da dire, culturale e identitaria della tipologia Muffa Nobile dell’Orvieto è ben evidente sin dai primi anni del Novecento, così come ottimamente evidenziato nell’ultima versione del disciplinare della denominazione quando si legge che «con riferimento all’introduzione del vino Orvieto DOC nella ti pologia “Muffa Nobile” si evidenzia che già nel 1933 il Prof. Garavini nella descrizione del vino d’Orvieto così detto “abboccato”fa riferimento agli scrittori italiani di enologia e riporta che alcuni ritenevano più gustoso l’Orvieto dei Sauternes mancando in essi quel sapore di zolfo, che invece si riscontra quasi sempre in questi ultimi».

Il Consorzio

 

Il Consorzio Vini di Orvieto nasce nel 1958con lo scopo di tutelare la qualità e l’immagine del Vino Orvieto, assumendo l’attuale nome nel 1971, anno di riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata Orvieto. Nel 1998 prende in carico anche la promozione anche della DOC Rosso Orvietano, costituita nello stesso anno. L’Associazione, oggi presieduta da Vincenzo Cecci e dai vicepresidenti Enzo Barbi e Fabio Vittorio Carone, conta 496 soci, che operano su 2.100 ettari vitati (ripartiti in Trebbiano 40%, Grechetto30%,Verdello10%,Chardonnay 5% e AA.VV. 15%), per una produzione totale di 12 milioni di bottiglie, esportato per il 50%.