La montagna, il Chiavennasca e il tempo al centro di un’azienda familiare che ha saputo cogliere le opportunità della tecnologia per portare avanti, in un territorio difficile, una tradizione centenaria

La montagna ti sovrasta e sembra quasi caderti addosso cercando l’entrata per la Cantina ARPEPE, nascosta in mezzo alle case della periferia di Sondrio. La stessa montagna, poi, ti accoglie al suo interno, attraverso le pareti della cantina scavate direttamente nella roccia, che affiora qua e là tra le grandi vasche di fermentazione, ormai in disuso. Perché ARPEPE è solo una piccola parte di quella che era la storica cantina Pellizzari, attiva fino al 1973 con una grande produzione di vini della Valtellina, fino agli anni ’80 i prediletti dagli svizzeri, secondo un retaggio d’età napoleonica. Il marchio viene venduto, le vigne divise tra gli eredi e la cantina demolita per far spazio alle case, eccetto quel la porzione nella roccia, certamente non ospitale per viverci, ma perfetta per farci il vino. La rinascita avviene nel 1984, grazie alla tenacia di Arturo Pellizzari Perego che, non potendo più utilizzare il proprio cognome, si inventa l’acronimo Ar.Pe.Pe. e riparte dagli 8 ettari di vigna avuti in eredità dal padre. Arturo non ha fretta, lavorando nell’azienda di famiglia ha imparato che il Nebbiolo di montagna, il Chiavennasca, ha bisogno del suo tempo per esprimersi, per questo aspetta sei anni per far uscire il primo Sassella Rocce Rosse. Guido a portare avanti l’azienda, ormai diventata un simbolo della rinascita della zona, che ha visto passare gli ettari vitati dai 3.000 degli anni ’70 ai circa 750 di oggi. «Mantenere la vigna è la priorità assoluta di questa generazione, il bosco si è mangiato troppo e dobbiamo arginarlo, ne va anche della stabilità del versante, perché sono i muretti a secco a mantenere l’equilibrio idrogeologico» ci racconta Isabella descrivendo un territorio duro dove però la viticoltura esiste da sempre. Una lunga valle che va da est a ovest, tagliata nel mezzo dal fiume Adda, con le Alpi Orobie da un lato e le Retiche dall’altro, terrazzata con 1.500 km di muretti a secco, attraverso cui generazioni di caparbi agricoltori hanno strappato alla montagna preziosi centimetri su cui innestare le barbatelle. Qui ARPEPE conta oggi circa 15 ettari di vigneti, tutti coltivati a Nebbiolo Chiavennasca: 9,5 nella sottozona di Sas sella, 4,5 ettari nel Grumello e un ettaro nella zona Inferno, con piante che hanno in media oltre 50 anni di età ed estirpazioni e rimpianti molto rari. File di vigneti che si sviluppano in verticale su tutto il versante esposto a sud, da lavorare rigorosamente a mano, perché solo due buone gambe che non soffrono di vertigini possono arrampi carsi su pendenze che arrivano oltre il 30 35%. Per coltivare un solo ettaro possono servire anche 1.500 ore di lavoro se, come ARPEPE, scegli di coltivare in modo poco interventista, riducendo al minimo i trattamenti fitosanitari e privilegiando una lotta integrata attenta all’impatto ambientale.

Storicamente, la vendemmia in Valtellina veniva fatta con piccole ceste, rovesciate poi nelle brente e trasportate a spalla in fondo al monte: un passaggio traumatico per gli acini, rovesciati e schiacciati già prima di arrivare in cantina. Questo sistema non convince Emanuele, che si ingegna per mantenere il più possibile intatto il prezioso lavoro fatto in vigna sulle uve; decide allora di utilizzare per la raccolta piccole cassette in plastica, impilate a due a due su una portantina in ferro da mettere a spalla, in modo che i frutti arrivino integri e senza traumi in cantina (econ essi le persone, visto che se le vecchie brente portavano oltre 50 kg, le moderne portantine stanno sui 25kg). Giunti qui, i grappoli passano su un tavolo vibrante a un getto d’aria pulisce da insetti e impurità, prima di procedere verso una diraspatrice di ultima generazione che mantiene praticamente intatta la buccia; dopodiché gli acini, mediante una pompa peristaltica, vengono travasati integri in assenza di ossigeno nei tini di fermentazione in legno da 50 ettolitri, divisi per singolo vigneto. Tanta innovazione, quindi, per una cantina che vive di tradizione, ma la tecnologia non fa paura se serve a preservare l’integrità qualitativa dell’uva: «per fare un vino buono oltre alla cura nella vigna devi avere anche una certa tecnologia in cantina, perché più tratti bene l’uva più riesci a preservarla nella sua interezza» afferma Emanuele. La fermentazione parte spontaneamente con leggere follature, anche se per il futuro si stanno selezionando lieviti indigeni, e prosegue con rimontaggi frequenti atti a fa vorire l’estrazione del colore. Inizia quindi una lunga macerazione sulle bucce, con ricolmature se necessarie, che può durare anche 120 giorni. Un’operazione resa possibile dalla pulizia e dall’integrità con cui gli acini arrivano nei tini, scongiurando, quindi, molti dei problemi che potrebbero svilupparsi durante la fermentazione malolattica.

«Una lunga macerazione ti porta ad avere un vino molto più pieno, più grasso, con un tannino molto più integrato nella struttura del vino e anche molto limpido – racconta Emanuele – per assurdo, facendo fare tutti i processi naturali all’interno della botte con le bucce, alla svinatura potresti avere un vino che quasi può andare in bottiglia,da quanto è stabile». ARPEPE ha iniziatoa sperimentare le lunghe macerazioni nel 2005, da quando ha cominciato a vinificare in legno, e lo fa per tutti i propri vini, an che quelli da commercializzare più giovani. Il tempo è infatti il fattore che rende unici i vini dell’azienda, anche nell’affinamento, che avviene in botti grandi di castagno e poi in bottiglia, andando da un minimo di 6 mesi in botte, più altrettanti in bottiglia per il rosso di Valtellina, fino ai 35 anni in botte e altri 23 in vetro per i 6 cru, che vengono imbottigliati solo nelle grandi annate. ARPEPE, infatti, non esce con tutte le etichette tutti gli anni, ma, a seconda delle rese, si sceglie se vinificare il singolo appezzamento da riserva oppure se vinificare insieme per un vino da medio invecchiamento. Oggi la produzione raggiunge un totale di circa 100.000 bottiglie, tutte tappate con Nomacorc Reserva e vendute per il 40% in Ita lia e per il restante tra Stati Uniti, Europa e Giappone, con l’ambizione di espandersi in Australia nel prossimo anno. Il biglietto da visita dell’azienda è il Rosso di Valtellina, vino “inventato” nel 2004, anno che ha visto anche entrare nel vivo delle attività la nuova generazione. Come talvolta accade, sono le situazioni difficili a creare nuove opportunità: il 2003 era stata un’annata pessima, inadatta alla produzione di qualsiasi vino dell’azienda; è nata così l’idea di creare un Rosso di Valtellina, autodeclassando uve atte a diventare Valtellina Superiore e uscendo in anticipo sul mercato. Il successo riscosso porta visibilità all’azienda, rendendo il vino uno dei più apprezzati per rapporto qualità prezzo, con una bottiglia stappa ta ogni giorno da New York a Tokyo e con la sua etichetta rossa con le vigne stilizzate (oggi disegnate da Enrico, il marito di Isabella, prima di lui era lo stesso Arturo ad occuparsene) che ormai è diventata il logo stesso dell’azienda.

Cosa ci riserva ARPEPE per il futuro? La certezza di continuare a produrre grandi vini prendendosi tutto il tempo necessario per esprimere al meglio il suo territorio, perché una montagna così va vissuta senza fretta, va coltivata con pazienza e dedizione, la stessa che i fratelli Pellizzari Perego mettono in ogni singola bottiglia.