Nel raccontare la storia dei vini del Chianti e del loro successo commerciale attraverso i secoli non si fa mai riferimento alla battaglia della Meloria, circostanza che più di ogni altra ha plasmato le “gesta” del vino toscano, definendo quel fondamentale passaggio, di produzione e di gusti, dai vini importati a quelli dell’entroterra, Chianti in primis. Il 6 agosto del 1284, al largo delle coste del Porto Pisano, si scontrano in una battaglia navale le potenze marittime di Genova e di Pisa. Quest’ultima capitolò, con 6.000 morti e 11.000 prigionieri, tra cui il famoso Rustichello da Pisa che, proprio nelle prigioni genovesi, scrisse per conto di Marco Polo Il Milione. A soccombere fu anche il potere marittimo, commerciale e politico di Pisa. La ex Repubblica Marinara entrerà sempre più nell’orbita di Firenze e il porto pisano cadrà nell’oblio, interrandosi per la mancanza di cure. Da grande importatrice di vini, Pisa divenne, nei secoli successivi, la “periferia” del vino fiorentino, nonostante la qualità dei prodotti realizzati in zone come Terricciola, San Torpè, San Miniato e sulle colline che circondano la città della torre del Bonanno Pisano: areali vitivinicoli riscoperti solo grazie agli studi del medico e naturalista fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti nella seconda metà del Settecento. Tornando al Duecento, chi poteva, per risorse e cultura, in Toscana, non beveva vino locale.

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Testimone d’eccezione di questa “propensione al consumo” è Cecco Angiolieri, poeta senese amico di Dante che al tempo della battaglia della Meloria aveva 24 anni. In merito alle proprie preferenze enologiche l’Angiolieri scriveva: «e non vorria se non greco e vernaccia, che mi fa maggior noia il vin latino». In breve, il poeta non gradiva particolarmente il vino locale (latino) preferendo quelli importati ed “esotici”, ivi comprese le vernacce che provenivano dalla Liguria e non ancora dall’entroterra toscano. Nel Medioevo, a importare il vino di pregio, prima attraverso il mare e poi lungo l’Arno, era soprattutto la potenza marittima di Pisa e i vini più amati erano chiamati “ultramarini”, ossia d’oltremare, perché prodotti a Levante: isole greche di Candia, Lesbo, Chio, la penisola di Monenvasia, le coste bizantine e quelle del Libano. Solo l’arresto di questo commercio e il progressivo deperimento degli stock diede l’abbrivio a una maggiore produzione dei vini dell’entroterra toscano, ivi compresi quelli del Chianti. La vicenda appena raccontata è una delle tante storie che legano la fortuna o meno di un vino o di un territorio vinicolo a circostanze belliche, politiche, economiche, sociali e geografiche, aspetti, questi ultimi, che rientrano appieno nel filone di indagine del la geopolitica. Ciò detto, la geopolitica che interagisce, da millenni, con il mondo della produzione e del commercio del vino, non è propriamente quella classica, teorizzata nei primi anni del Novecento dal geografo e scienziato politico svedese Rudolf Kjellén, ma la geopolitica umana, al centro degli studi e delle pubblicazioni del giornalista e analista contemporaneo Dario Fabbri. Se la geopolitica classica si limita a interpretare lo sviluppo del potere e delle relazioni internazionali attraverso la geografia, considerando la posizione, le risorse naturali e le caratteristiche fisiche dei territori quali variabili delle strategie politiche, economiche e militari degli Stati, la geopolitica umana studia, invece, «l’interazione tra collettività collocate nello spazio geografico calandosi nello sguardo altrui. Oggetto della sua analisi – scrive Fabbri nel volume Geopolitica umana. Capire il mondo dalle civiltà anti che alle potenze odierne (Gribaudo, Roma, 2023) – sono le aggregazioni umane, in ogni realizzazione storica. Tribù, pòleis, comuni, fino all’epoca corrente, dominata dagli Stati-nazione, dagli imperi». Geopolitica umana e mondo del vino, nell’accezione ampia di quest’ultimo (origine, produzione e commerci) seguono i medesimi indirizzi di sviluppo. La geopolitica umana presuppone, infatti, la presenza di una comunità organizzata quale presupposto per incidere e modificare l’ambiente, a iniziare da quello fisico. I territori di tradizione vinicola, antica o moderna che sia, sono tutti caratterizzati da comunità che, a vari livelli, si astringono intorno alla produzione di vino, la quale ne diventa bandiera identitaria. Nella geopolitica umana compaiono sempre uno o più ambienti fisici e sociali di riferimento. Nella produzione e nel commercio del vino l’ambiente fisico è, perfino, il presupposto stesso dell’attività: un paesaggio che muta e si autorigenera all’interno di un più o meno definito limes, nel significato ampio del termine che lo decifra, allo stesso tempo, quale confine e sentiero. Infine, la geopolitica umana, attraverso la comprensione degli elementi strutturali e profondi di una comunità o di uno Stato, delinea le aspirazioni stesse di questi, contribuendo a stabilire, come sostiene Fabbri, «di cosa vive una comunità: gloria violenza, economia, sussistenza, sopravvivenza». Gli elementi strutturali di un territorio vinicolo, attraverso la più o meno compiutezza del concetto di terroir inteso come origine, perennità, specificità e tipicità dei vini, definiscono stile e potenzialità di uno specifico areale, indicandone lo sviluppo futuro: successi consolidati, criticità, affermazione o meno di un brand territoriale, eventuale in cremento del valore dei fondi e dei vini ecc. La geopolitica umana, quindi, non solo influenza la genesi delle zone vinicole, la loro produzione in termini di quantità e qualità o la capacità commerciale di diffondere prodotti e marchio collettivo, ma ne descrive anche le dinamiche: consolidamento di una specifica tradizione, interazione e integrazione con le altre realtà, ma anche risultati economici. L’applicazione dei principi di geopolitica umana alla produzione enologica di un determinato ambiente contribuirebbe, infine, alla definizione di un rinnovato e più ampio concetto di terroir, partendo proprio da quell’idea di limes quale sentiero-frontiera di usi e costumi di una collettività. In tal modo clima, suolo, orografia e ambiente, nel loro insieme definirebbero quel genius loci non replicabile e proprio di ciascun territorio vinicolo; gli assunti poi, sempre di matrice classica, di exitus, moderatio, integratio e virtus identificherebbero, nell’ordine, il risultato enologico, al netto del progresso tecnologico e scientifico, l’equilibrio fra tradizione, autenticità ed esperienza generazionale, l’interazione con gli altri territori e, infine, con la virtus, tutte quelle qualità morali ed etiche specifiche dell’ambiente antropico che soggiace il territorio vinicolo.

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Eventi e fatti di geopoliticae vino

Nelle pagine che seguiranno, grazie al contributo di Giulio Somma, Direttore Responsabile de Il Corriere Vinicolo e dell’Area Editoria dell’Unione Italiana Vini, abbiamo sottolineato, attraverso un approccio geopolitico, gli elementi di dipendenza e di criticità tra mercato del vino ed eventi politici, bellici ed economici che stanno oggi condizionando gran parte del pianeta e la vita quotidiana di tutti noi. Mentre stiamo impaginando questo numero de L’Assaggiatore, viene presentato il report sulla competitività Ue di Mario Draghi. Il documento di 400 pagine evidenzia le molteplici difficoltà dell’Unione, dagli effetti del costo dell’energia alla dipendenza estera in campi strategici, passando per la gestione di un debito comune e la farraginosità degli stessi processi decisionali dell’Unione. Tutte queste criticità sottolineate dall’ex Presidente del Consiglio, coinvolgono i mercati dei beni e dei servizi, vino incluso e, in questo frangente temporale, sono aggravate dalla presenza di tre circostanze: guerra, incertezza dei trasporti in termini di costi e sicurezza delle tratte e inefficienza delle istituzioni. Nella storia del vino i tre fattori appena elencati hanno spesso contribuito non solo a mutare il paradigma produttivo di questo prodotto, ma anche a modificarne la sua stessa essenza, creando nuove tipologie, differenti modalità e occasioni di consumo o inattesi mercati di sbocco. Un ricorso al passato necessario per comprendere il presente come una serie di cicli in grado di ripetersi, sebbene con delle variazioni: un fluire che è determinato da forze economiche e materiali in cui il rapporto tra storia e attualità è, talvolta, meccanico e consequenziale e, tal altra, marcato da discontinuità, fratture e cambiamenti improvvisi oltre che inaspettati.

Attraverso tre esempi storici del percorso sociale ed economico del vino, cercheremo di spiegare come, in un passato più o meno recente, guerra, insicurezza dei trasporti e debolezza delle istituzioni abbiano saputo introdurre innovazioni e cambiamenti nella produzione enologica, nel commercio e nella regolamentazione del mondo vitivinicolo.

Legioni, battaglie e anfore

La conquista delle Gallie da parte di Cesare, con le diverse campagne militari tra il 58 e il 51 a.C., segnò un passaggio fondamentale nella storia del vino. La presenza romana, al termine delle operazioni belliche, era legata in primis alla permanenza dei soldati attraverso l’istituto della missio agraria, un compenso concesso ai veterani al termine del servizio che prevedeva l’assegnazione di appezzamenti agricoli nel territorio conquistato. Ampiamente utilizzata nelle Gallie, la missio agraria, oltre a consolidare la presenza romana in loco con una colonizzazione d’élite del territorio, favorì lo sviluppo agricolo della regione, introducendo nuove tecniche e colture, tra cui, principalmente, la vite. Nel primo secolo, la diffusione della viticoltura nelle Gallie seguì le principali strade commerciali delle Provincie, partendo da quella narbonese e spingendosi a nord lungo il Rodano attraverso la strada couloir rhodanien fino a Vienne e Lione e, quindi, verso Saône prima di dividersi a est verso la Mosella e il Reno e ancora a nordovest verso la Senna. Sempre dal territorio di Narbonne, altre direttrici si dirigevano verso nordovest lungo il corso della Loira e verso ovest in direzione della Dordogna per raggiungere quelle paludi e quei territori acquitrinosi abitati dai Galli Bituringi. Negli ultimi decenni del I secolo, la presenza di anfore vinarie di fattura greca, provenienti dal porto di Marsiglia e testimoni di un vino importato, è ancora forte in gran parte delle regioni, sebbene in netta diminuzione rispetto alla prima metà del secolo. Plinio il Vecchio nel Naturalis Historia (77 78 d.C.), riferisce di una Vitis Caburnica, di origine greca dove era chiamata Kapnios, importata nei dintorni della città di Burdigala, l’odierna Bordeaux. Qui la varietà prese il nome di Biturica, in ossequio alla locale popolazione celtica che, a sua volta, la ribattezzò Vidure, “antenato” dell’attuale Cabernet franc. Sempre Plinio il Vecchio, poi, ci informa di una seconda varietà, non importata ma locale della Gallia orientale, conosciuta con il nome di allobrogica, progenitore della famiglia dei Pinot. Tornando agli effetti della conquista militare, è interessante notare come alla fine del I secolo a.C., a cominciare proprio da est, ossia dall’odierna Borgogna, si facciano via via più rarefatte le tracce di anfore vinarie di fattu ra mediterranea del tipo Dressel 1, manufatti questi ultimi tra i più rappresentativi, sin dal II secolo a.C., della diffusione delle esportazioni di vino italico e mediterraneo nelle aree più settentrionali del continente. Nei commerci vincoli attraverso il Mare Nostrum proprio nell’ultimo decennio del I se colo a.C. si assistette alla sostituzione della pesante anfora vinaria di tipo Dressel 1 (25 chilogrammi con rapporto peso-capacità di 0,88 litri per chilogrammo) con contenitori più leggeri (12-16 chili e rapporto peso-capacità tra uno e due litri per chilo) noti oggi sotto la tipologia Dressel 2-4. I ritrovamenti archeologici nell’ex territorio delle Gallie, inerenti al medesimo periodo, non hanno mostrato una significativa presenza di resti di anfore vinarie Dressel 2-4, il che confermerebbe la presenza di una viticoltura locale consolidata e diffusa, capace quasi di azzerare le importazioni di vini dal Mediterraneo. Così, cinquant’anni dopo la conquista delle Gallie da parte di Cesare, grazie anche alla permanenza dei veterani delle legioni di Roma, era nato il primo vino francese. Oggi, come verrà approfondito nel prossimo servizio, effetti simili a quelli della conquista romana delle Gallie si stanno evidenziando in Russia e in Cina, con il rafforzamento dei rispettivi settori vinicoli. Guerre e sanzioni, nonostante l’ancora alto livello delle importazioni dei nostri vini da parte di questi Paesi (dai 45,5 milioni di euro del 2023, le importazioni di vino italiano in Russia, solo nei primi quattro mesi del 2024 sono schizzate a 102,8 milioni, segnando un parziale +125,7%), stanno producendo un consolidamento delle filiere vinicole locali nell’ordine di una riorganizzazione che punterebbe, nei prossimi anni, a incentivare un effetto sostituzione, almeno nei segmenti più economici dell’offerta enoica, tra vini locali e vini importati.

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Commercio, galeoni e trattati

Il primo sviluppo della viticoltura nell’America Latina, che vide una espansione a tempo di record tra il 1526 e il 1556, fu spinto dai conflitti sulle tratte commerciali oceaniche che coinvolgevano, all’epoca, le maggiori po tenze europee. Il Trattato di Tordesillas del 7 giugno del 1494, che aveva suddiviso il mondo coloniale tra Spagna e Portogallo lungo la raya, ossia il meridiano a 46° e 37’ ovest, non contribuì a una pace duratura nella gestione delle rotte oceaniche verso l’America e l’Asia. Oro e argento dall’America e spezie dall’Asia, condividevano le stive con tessuti, prodotti agricoli, pelli e vino, proveniente esclusiva mente dall’Europa. L’attività corsara da parte degli Imperi provocò non solo un aumento del costo dei trasporti, ma anche l’impossibilità, con il mancato ricevimento delle merci, di una efficiente allocazione dei prodotti esportati. Nel 1529 il Trattato di Saragozza, sempre tra Spagna e Portogallo, regolò e stabilizzò le tratte e i commerci nelle Filippine e nelle Molucche, ma l’Atlantico rimase un luogo conteso e un mare, decisamente, “rosso”. A peggiorare il quadro, in quei decenni, ci si mise anche la Francia di Francesco I che, volendo entrare nel “Monopoli” coloniale, in coraggiò l’attività corsara dell’ufficiale di marina Jean Fleury, famoso per aver “sottratto” tre galeoni spagnoli che trasportavano il tesoro azteco di Hernán Cortés dal Messico alla Spagna. Solo dopo il 1544, con il Trattato di Crépy tra Carlo V e Francesco I, si ebbe una prima e sostanziale tregua atlantica, sebbene solo tra Spagna e Francia. In breve, tra il 1526 e il 1556, il commercio navale negli oceani era caratterizzato da numerosi ostacoli con dei veri e propri fermi della circolazione a causa dei conflitti tra potenze consolidate come Spagna e Portogallo e realtà emergenti come Francia e Inghilterra; in quegli stessi anni, il vino era un bene fondamentale per i Conquistadores. Quantità importanti di vino e poi anche di viti partivano regolarmente dall’Andalusia verso il Nuovo Mondo e, in particolare, il Messico. «L’Andalusia – scrive l’economista americano Kenneth R. Andrews nel volume The Spanish Caribbean: Trade and Plunder, 1530–1630 (Yale University Press, New Ha ven, Connecticut, 1978) con le proprie risorse aggiunte a quelle della Castiglia era in grado di soddisfate la maggior parte dei bisogni del Nuovo Mondo […] Farina, vino, olio e cibi vari riempivano le stive dei vascelli in partenza». Nel 1524 tutto l’ex impero azteco era sotto il dominio spagnolo, organizzato attraverso il regime giuridico della encomienda. Tale assetto prevedeva la concessione ai colonizzatori (encomenderos), di un controllo non direttamente sulla terra, ma sul gruppo o la comunità di indigeni che risiedevano su uno specifico territorio. L’encomendero, tuttavia, non era il proprietario di detti esseri umani, ma acquisiva il diritto di riscuotere da questi dei tributi sottoforma di prodotti o di lavoro forzato. Tra le promulgazioni di Città del Messico del 1524, troviamo una curiosa ordinanza municipale con cui Cortés obbligava, in ciascuna concessione territoriale comprendente cento nativi come forza lavoro, l’impianto di mille viti della migliore qualità possibile. Le viti “spagnole” più diffuse erano le varietà Criolla e Mission le quali, tuttavia, pativano il clima instabile dell’altipiano, restituendo una produzione altrettanto incostante. Ciononostante, la riduzione dei carichi di vino in arrivo dalla Spagna, legati all’insicurezza delle rotte, provocò un primo e necessario aumento della produzione locale. Questo iniziale sprint venne tuttavia frenato dal declino della popolazione indigena che, dal 1519 al 1550, a causa delle malattie europee, si ridusse da 22 a 3 milioni. Il commercio degli schiavi neri dall’Africa e dalle Antille compensò questa perdita di manodopera e la produzione di vino locale riprese in grande stile. Dal Messico la vite fece una vera e propria corsa verso sud, diffondendosi tra il 1530 e 1550 in Perù, nei tre anni successivi in Cile e nel 1556 in Argentina: in trent’anni la viticoltura si era imposta in gran parte del Nuovo Mondo spagnolo. Tra le teorie più note di tale diffusione, quel la maggiormente accreditata la legava alle necessità di vino per i riti religiosi; in realtà la produzione fu spinta da fattori meramente materiali, come gli approvvigionamenti a singhiozzo dalla madrepatria e l’idea, tutta culturale, di ricreare in questi luoghi remoti e selvaggi una nuova Spagna: un luogo di pace e prosperità in cui, ovviamente, non poteva mancare il vino. La seconda metà del Cinquecento vide un utilizzo sempre crescente di schiavi e una produzione enologica via via più stabile ed esclusivamente consumata in loco, con conseguente riduzione delle importazioni di vino dalla madre patria; non mancarono le proteste dei produttori spagnoli attenti a proteggere i loro affari nel Nuovo Mondo che, alla fine si riadattarono al nuovo assetto. L’incertezza delle rotte, il conseguente incremento dei prezzi di trasporto e la dilatazione dei tempi di consegna, oggi più che mai, rappresentano un vulnus profondo nell’export vitivinicolo. Un tema che tocca direttamente le singole aziende vinicole. Al netto dell’as sorbimento lungo tutta la catena commerciale dell’incremento dei costi di trasporto, alla fine del processo, tutto l’extra prezzo va perlopiù a ricadere sul costo finale del consumatore che, soprattutto in periodi di incertezza economica, reagisce con una contrazione della domanda. Inoltre, come l’esempio storico ha saputo evidenziare, la difficoltà per una specifica piazza nel reperimento di alcuni beni riproducibili favorisce in questa, già nel medio periodo (per la viticoltura fra 5 e 7 anni, ovvero quando si può modificare più di un fattore della produzione), la nascita o il consolidamento di produzioni locali che andranno a sostituire il bene importato, con possibilità di esportazione anche nei mercati di prossimità geografica. Un caso di tal specie si sta concretizzando proprio in questi mesi con l’incremento dell’export, sui mercati africani e asiatici, dei vini del Sudafrica a scapito di quelli europei, penalizzati dagli attacchi degli Houthi ai mercantili che, attraversando il Canale di Suez, percorrono il Mar Rosso in direzione sud o est. Capitali, privilegi e denominazioni Ultimo fattore, ma non per importanza, che ha contribuito a mutare il paradigma produttivo del vino, è la debolezza delle istituzioni, aspetto spesso accompagnato da un deficit decisionale nel sostenere e nel difendere il settore. I decenni antecedenti le prime regolamentazioni legislative che porteranno, poi, in Francia, alla promulgazione della legge del 30 luglio del 1935 per la nascita delle Appellation d’origine contrôlée erano caratterizzati, in un ambito di pressoché totale mancanza di regole, da un mix di euforia per la costante richiesta di vino da una parte e, dall’altra, per la diffusione di comportamenti truffaldini e sofisticatori. Dopo la fillossera, la domanda di vino crebbe in maniera decisa e repentina, così, sulla falsa riga di questo andamento, si diffusero, soprattutto in Francia, diverse pratiche dannose per il settore e, talvolta, anche insalubri per i consumatori. Tra queste attività spiccava l’uso delle viti ibridate, scadenti dal punto di vista qualitativo ma generose da quello quantitativo, l’addizionamento di zucchero ai mosti per incrementarne la forza alcolica, l’aggiunta di acqua al vino per aumentarne il volume complessivo e l’uso dell’ossido di piombo per contenerne l’acidificazione. I vini di pregio esistevano, erano conosciuti, godevano di apprezzamento, costavano molto ed erano molto ricercati. Frutto di quell’ingresso del capitale nel mondo del vino datato alla seconda metà del Seicento, conseguentemente allo sviluppo delle tecnologie legate al tappo di sughero e le bottiglie stampate, questi vini erano lontani dal mondo dalle so f isticazioni e delle adulterazioni accennate in precedenza, rappresentando già delle icone del bere e veri e propri monopoli. I vini monopolio, presenti soprattutto a Bordeaux e in Borgogna, spuntavano prezzi essenzialmente dettati dal solo desiderio di possederli e dalla capacità economica di consumatori agiati disposti a pagare tali cifre; il costo di produzione e il valore reale del bene erano variabili indipendenti. «Una vigna che produce vino di qualità assolutamente straordinaria – scrive Carlo Marx nel III Libro de Il Capitale, Sezione VI, Capito lo 46: Rendita di aree fabbricabili. Rendita mineraria. Prezzo della terra – che in generale può essere prodotto solo in quantità relativa mente scarsa, frutta un prezzo di monopolio. Il coltivatore della vigna verrebbe a realizzare un plusprofitto considerevole da questo prezzo di monopolio, la cui eccedenza sopra il valore del prodotto sarebbe esclusivamente determinata dalla ricchezza e dalla preferenza dei bevitori altolocati. Questo plusprofitto, che scaturisce da un prezzo di monopolio, si trasforma in rendita e in questa forma finisce in mano al proprietario fondiario, grazie al suo titolo che gli dà diritto a questa porzione della terra dotata di particolari qualità. In questo caso, quindi, il prezzo di monopolio crea la rendita». La forza politica e le pressioni lobbistiche di questi proprietari-capitalisti, ben lontani dalla figura del vigneron, spingevano all’epoca per una regolamentazione che sottoline asse la qualità e l’unicità delle vigne-mono polio, in modo da garantire, per il futuro, una sorta di “tutela pubblica” connessa all’origine del prodotto anziché alla sua sola qualità. Inoltre, come annotato dallo stesso Marx, sempre nel capitolo 46 del III libro de Il Ca pitale, tali operazioni di pressione avevano anche lo scopo di far lievitare il prezzo dei fondi vitati. «Il prezzo della terra – scrive l’e conomista di Treviri – può aumentare perché aumenta la rendita. La rendita può aumenta re, perché aumenta il prezzo del prodotto del suolo, nel qual caso il saggio della rendita dif ferenziale aumenta sempre, sia che la rendita sul terreno coltivato sia grande, piccola o che non esista. Per saggio intendiamo il rappor to fra la parte del plusvalore che si converte in rendita e il capitale anticipato che produ ce il prodotto agricolo». Tali desiderata, che nei vari territori coinvolsero anche piccoli e medi proprietari, portarono alla formazio ne di associazioni di categoria come, solo per fare qualche esempio, 79 produttori di Chablis nel 1900 uniti con il fine di garantire l’autenticità di marchio territoriale ante lit teram, oppure, nel 1901, a Bordeaux l’Union Syndicale des Propriétaires de Cru Classés du Médoc, portatrice dei medesimi interessi dei “colleghi” di Chablis. In Francia, i primi due decenni del Nove cento furono a dir poco turbolenti per quel che riguarda la formazione dei governi e la gestione della cosa pubblica. Basti pensare che dal 1900 al 1919 si contarono 15 diversi governi, con una media di durata di circa un anno. Tale instabilità, legata anche alla polve rizzazione endemica dell’offerta politica della Terza Repubblica, limitò la capacità di deci sionale a lungo termine dell’esecutivo. Sporadici i provvedimenti organici dal punto di vista legislativo, ai quali si aggiunse anche la necessità di uno sforzo extra nel campo della difesa nazionale per la concomitanza, nel ventennio, della Prima Guerra Mondia le. Scarsa la legislazione in ambito agricolo e in linea con questo atteggiamento quella vinicola che, tuttavia, vide diversi interventi, frutto, a dirla tutta, della forza delle lobby del vino interessate a tutelare le proprie rendite da monopolio. Nell’agosto del 1905 venne promulgata una legge per ridurre l’adulterazione dei vini e di altri prodotti agroalimentari; nel luglio del 1907 furono approvati provvedimenti che imponevano registri sugli stock vinicoli e di chiarazioni sulle quantità prodotte annual mente, mentre fra il 1908 e il 1912 una serie di decreti regolarono la produzione e la distri buzione di Armagnac, Banyuls, Bordauex, Cognac, Champagne ecc. La fine della guerra, pur non garantendo automaticamente stabilità all’assetto politi co francese, diede il via a una serie di inter venti che culminarono, il 6 maggio del 1919, con una legge che permetteva di procedere legalmente nel caso di usi impropri delle de nominazioni storiche o tradizionali. Un passo cui seguì poco o nulla a livello centralizzato per la mancanza di unità politica. Così, nei primi anni Venti del ‘900 molti produttori vinicoli, coordinati dall’aristocrazia enoica, si diedero dei propri statuti che, di fatto, non solo anticiparono, ma addirittura plasmarono profondamente le future Appellation. Il proliferare di queste autoregolamentazioni, dal Rodano a Bordeaux, passando per Alsazia, Champagne e Borgogna, spinse i vari governi all’azione. Il 22 luglio del 1927 fu promulgata una legge che proibiva l’uso delle varietà ibride, ancora largamente utilizzate, così come le altre tecniche di sofisticazione accennate in precedenza e, infine, nel 1935 con la legge organica sulle Appellation d’origine con trôlée (AOC) si stabilirono norme ad hoc su territori, confini, vitigni autorizzati, metodi di vinificazione e coltivazione ecc. delle aree vitivinicole. Nel 1950 solo il 10% della produzione enologica francese era regolata dalle AOC e sola mente dagli anni Sessanta le denominazioni iniziarono a coprire, anno dopo anno, la quasi totalità delle regioni vinicole. Non è un caso che nel 1958 il generale Charles de Gaulle tornò al potere e venne incaricato di redigere una nuova costituzione che diede alla luce la Quinta Repubblica. Il nuovo assetto costituzionale, fortemente presidenziale, assicurò governi stabili e duraturi che contribuirono in maniera decisa al successo, oltre che all’organizzazione e alla protezione, dei vini di qualità d’Oltralpe. Ancora oggi il vino italiano, come quello europeo in toto, paga la debolezza e la non coesione delle istituzioni europee e nazionali, che spesso, come in Francia, Spagna e Ger mania, esprimono governi sempre più fiaccati da una rappresentanza di minoranza. Tali circostanze, a partire esattamente dai primi anni del Novecento, non garantirono politiche strategiche e progettua li, lasciando il settore del vino a se stesso, in una bolla fatta di incertezza e insicurezza. Sentimenti scoraggianti, questi ultimi, e solo in parte compensati da quella ricchezza unica del vino europeo che risponde al nome di tradizione, àncora di salvezza per il futuro e già valore assoluto di identità, originalità, affidabilità, autore volezza e prestigio. Che altri vini, qua e là per il mondo, non potranno mai vantare.