Elena come e quando è inizia ta la tua relazione col vino? Qual è il primo ricordo che hai legato a questo mondo? «Il vino è sempre stato nella mia vita, fin da piccola, come accade a tutti i figli di produttori e appassionati di vino. I ricordi vanno alle tante cene di famiglia, quando sulla tavola non mancavano mai grandi vini; oppure ai viaggi, quando c’era sempre da visitare qualche tenuta, una vigna o un terreno… Tanti altri ricordi sono legati a quando, già da bambina, mio babbo mi portava in cantina. Una volta, ricordo che gli cadde in una vasca il cellulare che aveva nel taschino; ovviamente si ruppe e così lui lo regalò a me per giocarci: ricordo ancora il profumo di vino di cui si era impregnato! Ricordo anche quando i miei genitori, per gioco, facevano “annusare” a me e ai miei fratelli il vino dentro al bicchiere per indovinare gli aromi: io dicevo sempre “pera” perché una volta lo avevo azzeccato e da allora lo ripetevo ogni volta!». Come “figlia d’arte”, hai sempre saputo che saresti diventata una vignaiola o c’è stato un momento in cui hai pensato di provare a fare altro? «Avendo avuto un’infanzia in cui la parola “vino” era sempre presente in ogni occasione ed essendo una persona che vuole sempre far le cose perché “le ho decise io e non gli altri per me”, onestamente fino a 21 anni ho sempre pensato che non sarei entrata a far parte del mondo del vino, perché la consideravo una scelta fatta per assecondare i miei geni tori. A 18 anni andai a Londra con l’idea di fare un corso per entrare in un’Università inglese; non trovandomi bene, però, tornai in Italia. Non avevo ancora le idee chiare e provai a iscrivermi a Ingegneria gestionale; nell’attesa che cominciassero i corsi, intrapresi un’esperienza di lavoro a Hong Kong, opportunità data da un amico di mia mamma che lavorava nel settore tessile e mi permetteva di avere uno stipendio. Per me, essere autonoma a quell’età, era l’aspetto più importante, anche se in quel momento non avevo messo anco ra a fuoco cosa avrei voluto “fare da grande”.

Amavo viaggiare alla ricerca della mia strada, speravo che al mio ritorno la facoltà di Ingegneria mi schiarisse le idee. Trascorsi tre mesi, l’azienda di Hong Kong per la quale lavoravo voleva confermarmi come segretaria, ma a quel punto rifiutai e ritornai in Italia per seguire il corso di laura in Ingegneria Gestionale che, però, non si rivelò quello che speravo. Chiesi nuovamente ai miei genitori di poter viaggiare e fu a quel punto che mio padre, in maniera molto fredda, mi rispose: “Elena, la vita non funziona così. O studi o lavori”. Visto che l’idea di rimanere economicamente indipendente era un aspetto davvero importante, accettai l’unico lavoro che la mia famiglia era in grado di offrirmi e andai in cantina». Raccontaci il tuo esordio in cantina «Ricordo che era la fine del mese di giugno ed entrai in cantina come una normale tirocinante. Essendo di carattere una persona che non ama fare le cose senza metterci la testa, iniziai a fare mille domande, a fare qualsia si lavoro fosse necessario, mostrandomi una ragazza “sveglia”, per non essere vista solo come la figlia del proprietario. Insomma, non era ancora sbocciato l’amore verso il vino, ma cercavo di essere competente e non essere giudicata solo come “la figlia di”. Passavano i giorni e senza accorgermene mi stavo appassionando. Sicuramente è stato merito anche del team che trovai in cantina. Ha contribuito anche il fatto che con me, in cantina, non ci fossero i miei genitori tutti i giorni… o, forse, semplicemente “doveva andare cosi”. Ero improvvisamente felice e non vedevo l’ora di iniziare a fare la mia prima vendemmia». Cosa pensi ti abbia allontanato all’inizio dal mondo del vino e dall’azienda di famiglia? «Se mi guardo indietro adesso, non colpevolizzo più i miei genitori. Ai tempi pensavo mi stessero obbligando, in realtà stavano solo cercando di insegnarmi il significato di “fa tica”, “lavoro” e “passione”, attraverso quello che avevano a disposizione nel loro mondo; quando hai 16\17 anni non riesci a dare la giusta interpretazione; infatti, mi limitavo a vedere solo due genitori che quasi mi “imponevano” di farmi piacere il loro mondo. In realtà, sia mio padre sia mia madre, oltre che imprenditori, sono veri amanti del vino ed era ovvio che condividessero la loro passione con noi figli. Quindi, ora come ora, penso solo che il mio carattere e la mia giovinezza siano stati il motivo principale per il quale, all’inizio, mi “sono allontanata” dal mondo del vino, perché quella è un’età piena di ribellio ne in tutte le sue sfaccettature». Galeotta, quindi, fu una vendemmia. Quali pensieri ti hanno raggiunta durante quel periodo e cosa è cambiato in te? «Il pensiero di farcela, di far qualcosa che mi piaceva e amavo. Sono una persona molto ambiziosa, determinata e mi piace dare il massimo in ciò che faccio; penso che con una sola una vendemmia non si riesca a maturare del tutto un’idea, ma il ricordo più bello legato a quella che hai definito “vendemmia ga leotta” fu ammettere a me stessa che avevo trovato la mia strada e la mia passione». Poi sono arrivate le “tue” anfore... «La linea delle Anfore nasce in un preciso momento: avevo trascorso un anno in cantina e sentivo di voler entrare ancora più in profondità in quel mondo; volevo qualcosa che “sentissi ancor più mio”, qualcosa su cui sperimentare e che un giorno avrei potuto anche “sciupare”, senza sentirmi vincolata a uno stile di un vino appartenente alla nostra famiglia e già conosciuto sul mercato. Dopo la mia seconda vendemmia, a novembre, du rante gli assaggi per la valutazione degli andamenti della raccolta, portai al banco di assaggi per i controlli delle svinature i campioni delle anfore che avevo seguito io fin dall’inizio (dall’entrata delle uve): vedevo , però, che i miei campioni divisi per anfora “scompari vano” nei vini vinificati in maniera diversa; chiesi a quel punto a mio babbo quale fosse il motivo e lui mi rispose: “Le anfore le utilizziamo per dare peculiarità ai nostri vini”. In quel momento, nel vedere mio babbo che tagliava i vini provenienti dalle anfore nei vini aziendali, capii che avrei tanto desiderato ritrovare la mia fatica e il mio amore dentro una bottiglia finita. Non mi bastava che le mie anfore andassero solo a incentivare la qualità di un’altra bottiglia. Presi coraggio e mi buttai chiedendo se potevo, in ogni nostra tenuta, vinificare e affinare alcune varietà in anfora e tenerle separate, così da capire meglio le varietà, il terreno e il clima delle varie aziende. Quel giorno è nata la prima idea del progetto delle anfore». Cosa ti ha fatto innamorare di questo strumento di vinificazione? «Le ho amate sin da subito per la vinifica zione semplice; perché sono un contenitore naturale, per il lavoro manuale che richiedono e perché ti permettono di imparare e comprendere i vari step della vinificazione. Le ho amate perché mi hanno fatto scoprire la vera essenza della varietà che stavo vinificando. L’altra cosa che mi ha fatto innamora re di loro è che, quando ho iniziato, l’anfora era un contenitore inusuale da trovare nelle cantine, pur essendo uno dei primi vasi vinificatori della storia; era bello poter sperimentare e sentirmi libera di farlo perché non avevo la sensazione di sentirmi obbligata a seguire degli standard consolidati dell’enologia dell’epoca. A ogni vendemmia che passa, mi sento come un genitore che non ha esperienza ma poi prende il via, imparando via via qualcosa in più. Amo questo strumento perché tutto il lavoro di qualità che fai in vigna, tutte le sfumature dei diversi suoli che abbiamo nelle nostre tenute, l’anfora riesce a esaltarlo. E, ovviamente, a far sentire in un bicchiere la varietà che hai vinificato nella sua forma più pura». Cosa caratterizza i tuoi vini in anfora e qua le lavoro c’è dietro? «I miei vini vengono caratterizzati dalla varietà appartenente a uno specifico terreno e dalla specifica annata. Cerco di non standardizzare i miei prodotti e di esaltare al meglio le caratteristiche della varietà stessa; sono un’amante dei vini puliti e senza difetti; per tanto, uno dei miei principi è lavorare le uve sane e di accompagnare in cantina, grazie alle anfore, questa trasformazione da uva a vino con meno intervento possibile, rispettando tutto il lavoro fatto in vigna. Le uve vengono vendemmiate a mano, in cassette da 10 kg, per evitare l’ammostamento durante il trasporto in cantina. L’uva come dicevo, deve essere sana e perfetta. Viene diraspata e messa in anfora. A seconda delle annate, de cido se introdurre il chicco intero, se pigiare le uve, se aggiungere una parte di grappoli interi; insomma, non ho una procedura standard ma, in base all’annata e alla varietà, fac cio vinificazioni diverse. La parte bella delle anfore è che sono contenitori di 800 litri e questo mi permette anche di sperimentare ogni anno attraverso prove diverse. Normal mente i rossi fanno una macerazione dai 20 ai 35 giorni, ma anche questa è una media approssimativa. Finita la fermentazione assaggio ogni anfora, controllo le bucce, riassaggio e poi decido anfora per anfora quando svinare. Stessa cosa per i bianchi, ma con i bianchi mi “diverto” di più perché faccio lun ghe macerazioni (su alcune varietà anche di 140 giorni)». Quali uve utilizzi per le tue anfore? «Abbiamo tre tenute di famiglia, perciò per ogni azienda ho scelto alcune varietà che rispettano il luogo e la filosofia aziendale. Al Castello del Trebbio, dove ritroviamo i vitigni della tradizione, produco un Sangiovese e un Trebbiano. A Tenuta Casadei, a Suvereto, dove abbiamo varietà internazionali, produco un Syrah e, per quanto riguarda i bianchi, un Moscato e una Ansonica ovvero varietà della costa che riescono a sopportare molto bene il caldo e che si prestano a lunghe macerazioni. A Olianas, infine, in Sardegna, i vitigni sono esclusivamente autoctoni e produco un Semidano (Migiu) e un Cannonau». C’è un vitigno in particolare che risponde meglio alla vinificazione in anfora? «Ci sono varietà che rendono meglio, ad esempio quelle che solitamente vanno in ri duzione come Cannonau e Syrah; visto che l’anfora ha una buona porosità, aiuta la varietà ad avere una naturale micro ossigenazione durante la fermentazione e l’affinamento». Oggi si parla tanto di naturalità e sostenibilità in viticoltura. Che cos’è secondo te di realmente sostenibile in questo settore e qual è il tuo impegno in riguardo? «Sono molto attenta a questo tema. Tutte le tenute di famiglia sono a conduzione biodi namica e certificate Demeter, non solo: da oltre 10 anni seguiamo una filosofia produtti va che si racchiude in un nostro decalogo che si chiama Biointegrale. È ciò che guida ogni nostra scelta in tutte le aziende e si fonda proprio sulla sostenibilità sociale, ambientale ed economica. Citando alcuni punti, sceglia mo i collaboratori e i fornitori di ogni tenuta a una distanza massima di 50 km dalle nostre aziende, così da alimentare l’economia del luogo; cerchiamo di sviluppare e aumentare la biodiversità diversificando attraverso diverse colture; cerchiamo di abbassare il peso specifico delle bottiglie per diminuire l’impatto della CO2 , avere i pannelli solari nelle aziende per produrre energia rinnovabile, insomma seguiamo molto la regola delle 3E». Hai seguito poi un percorso di formazione enologica? «Mi sono iscritta al corso di laurea in enologia. Poi, lavorando in cantina insieme a tre enologi diversi, seguendo mio babbo e facendo ulteriori corsi di tutti i tipi, non ho avuto il tempo materiale per seguire i corsi. Oggi, dopo 11 anni, continuo a studiare, ad aggiornarmi, a confrontarmi con la nostra squadra di enologi. Ho la fortuna di essere seguita da un grande team e di essere sul campo per imparare ogni singolo giorno. Ovviamente, trascorsi 11 anni, se sei un’amante del vino, se ami il tuo lavoro e quello che fai, se ti piace capire in profondità e “non essere presa in giro”, penso che molti degli argomenti di enologia ti entrano dentro in ogni caso». Ma, alla fine, hai iniziato a lavorare anche nelle altre cantine di famiglia? Dove vedi il tuo futuro? «Alla fine, sì. Al momento sono a lavoro in tutte e tre le aziende di famiglia. Il mio futuro lo vedo, qui, nelle tre aziende, o forse anche quattro o cinque, chi lo sa! Penso sempre in grande e cerco di fare del mio meglio».

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Cosa ti senti di consigliare a giovani “figli d’arte enologica” che, come te all’inizio, non sono certi di voler seguire il solco di famiglia? «Consiglio a tutti di seguire la propria pas sione; di far progetti e crederci fino in fon do, a prescindere da chi siano i propri geni tori. Amare il proprio lavoro è la benzina che ci vuole soprattutto quando sei in riserva di energia o quando pensi di non farcela. Ai “figli d’arte”, se dovessero scoprire che la loro passione è la stessa dei genitori, consiglio di essere umili, di lavorare dal basso per capire tutti i passaggi, non solo per la qualità, ma anche per essere coscienti delle fasi di lavoro e per comprendere in futuro le persone che lavoreranno per te. Un altro consiglio è di fare tesoro dell’esperienza dei propri genitori, di vederli come guida, cercando di non creare scontri, perché sono una grande risorsa, direi dei “maestri in casa”; non dico di fare uguale a loro, ma di imparare con umiltà da chi ha fatto per anni un mestiere, assorbire tutte le conoscenze e poi, nel futuro, decidere autonomamente cosa fare di quelle informazioni. Bisogna cercare di portare avanti la tanta fatica che i nostri genito ri hanno sostenuto e, quando possibile, cercare di fare meglio; assorbire tutto ciò che ci possono insegnare e metterci anche del proprio, per fare ancora meglio. Alla fine, il cambiamento generazionale esiste e penso che se sei un “figlio d’arte” e ci tieni a ciò che fai, devi dare tutto se stesso per mantenere ciò che ti è stato passato dai tuoi genitori, per poi cercare di migliorare, sempre». Chi è il tuo riferimento “enologico” principale? «Avere mio babbo al mio fianco, penso che sia la cosa più bella che potessi chiedere. Significa avere un personale professore consigliere (gratuito!), che vuole il tuo bene e ti vuole insegnare i trucchi del mestiere. Penso sia il regalo più bello che io possa ricevere ogni giorno». Nel mestiere di vignaiolo esiste, secondo te, una differenza di approccio tra uomini e donne? «Finalmente questo mondo sta iniziando ad accettare le donne. Non penso ci siano differenze sostanziali tra uomo e donna. Forse, se vogliamo trovare una differenza, la troviamo nel carattere della persona. Per la mia esperienza, poi, ho riscontrato che molte donne hanno un maggior sensibilità nell’assaggio. Lavorando, poi, con molte donne mi sono accorta che siamo più attente, ma allo stesso tempo siamo più “fragili” caratterialmente. L’uomo tendenzialmente è meno fragile e meno attento, quindi, come sempre ci vuole una via di mezzo, un equilibrio e saper gestire la parte migliore e la parte peggiore di ognuno». Hai colleghe vignaiole che stimi e che ti hanno in qualche modo ispirata durante il tuo viaggio? «Faccio alcuni nomi: Elisabetta Foradori, Donatella Cinelli Colombini, Priscilla Occhipinti, Valentina Argiolas. Ho comunque stima di tutte le donne che fanno parte del mondo del vino, ognuna per la sua qualità. Ricevo da loro la giusta energia». Concludiamo con la domanda di rito: se fossi un vino, in quale calice ti identificheresti? «Bella domanda! Forse, in questo momento, essendo giovane, potrei dire che sarei un vino macerato, perché i macerati quando li versi sono chiusi ma piano piano si aprono nel bicchiere e ogni volta, al naso, regalano sfumature diverse. Allo stesso tempo, in bocca, hanno quel tannino che dona carattere al vino. Al momento penso di avere un carattere forte come è in bocca un macerato, ma allo stesso tempo ho così tante sfumature che derivano dall’essere giovane donna, imprenditrice e appassionata, che sono io la prima a dovermi scoprire piano piano».