Con quasi un miliardo di bottiglie prodotte, gli spumanti italiani conquistano i mercati interni ed esteri ribaltando gerarchie di consumo e costruendo nuove mode. Le bollicine made in Italy affrontano la crisi del settore a viso aperto e senza paura, proponendo stili sempre diversi ed esplorando nuovi e insoliti territori per la produzione del futuro

Gli ultimi vent’anni hanno evidenziato una trasformazione significativa del mondo del vino, italiano e non, con gli Spumanti in qualità di protagonisti indiscussi sulle tavole dei consumatori, a scapito dei tradizionali vini bianchi e, soprattutto, rossi. Secondo i dati di Unione Italiana Vini, pubblicati su Il Corriere Vinicolo n. 40 alla fine dello scorso anno, nel 2023 l’Italia dello spumante avrebbe messo sul mercato 960 milioni di bottiglie. Dati che supererebbero, invece, anche quest’anno il miliardo secondo Francesco D’Agostino, Direttore della rivista Cucina & Vini e della Guida Sparkle. Tornando ai numeri de Il Corriere Vinicolo la produzione vedrebbe una flessione del 2% in meno rispetto al 2022, con cali del 3% tra le DOCG e 6% nelle DOC. In crescita, al contrario, gli spumanti senza indicazione dell’origine territoriale e quelli varietali. In calo le maggiori denominazioni di Metodo Classico, come il Franciacorta, -4% in termini di ettolitri (2022-2023) con 21.214.912 bottiglie, e il Trento, -1% con 13.117.183 bottiglie. Meglio le performance dell’Oltrepò Pavese Metodo Classico, +14% e 595.600 bottiglie, dell’Alta Langa, +3% con 1.710.400 bottiglie. Tra i rifermentati in autoclave, -4% per il Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore (90.603.333 bottiglie), -7% per la DOC Prosecco (523.969.947 bottiglie), -9% per l’Asti Spumante (60.778.697 bottiglie) e -15% per il Brachetto d’Acqui (1.776.667 bottiglie). Tutto caratterizzato dal segno negativo il mondo del Lambrusco, con punte di -15% per la tipologia Emilia Lambrusco Spumante. In controtendenza, infine, sempre tra i Metodo Martinotti, gli Spumanti da Pignoletto, +21% con 2.836.400 bottiglie e l’Asolo Prosecco Superiore, +14% con 26.791.867 bottiglie. Per quanto riguarda l’export, nei primi dieci mesi del 2024, le esportazioni di spumanti italiani hanno raggiunto un valore di 1,97 miliardi di euro (stima totale export vino pari a 8 miliardi di euro), con un aumento del 9,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In termini di volume, sono stati esportati ol tre 460,7 milioni di litri, registrando una cre scita del 12,7% con le bollicine italiane a rap presentare il 30% dell’export totale di vini. Tinte in chiaroscuro se si va a controllare i fatturati: in crescita per le aziende spumantistiche, mentre in forte flessione per quelle concentrate sulla produzione di vini fermi, con una media del 5% e picchi anche di -15%, che accentuano una diversità fra produttori all’interno degli stessi territori e regioni.

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Un comparto sostanzialmente in salute, quindi, quello delle bollicine, nonostante le flessioni dell’ultimo anno, incrementato dalla crescente preferenza da parte dei con sumatori italiani che, da parte loro, hanno sdoganato persino la destagionalizzazione dei consumi, facendo segnare solo il 30% del consumo di Spumante durante le feste. Parallelamente, si osserva un calo nella produzione e nel consumo dei vini rossi. Dal 2000 al 2021, la quota dei rossi nel consumo totale è passata dal 49% al 37%, mentre i vini bianchi e i rosati hanno registrato incrementi rispettivamente dell’11% e dell’1%. Il successo delle bollicine, e il piacere del loro consumo, ci ha spinto a creare uno speciale davvero unico sulla tipologia, onnicomprensivo nelle tematiche e capace di attraversare e coinvolgere l’intero numero de L’Assaggiatore che state sfogliando. Approfondimenti storici sull’effervescenza, essenza stessa dello spumante; focus sulla nascita della spumantistica italiana e, ancora, interviste a protagonisti del mondo delle bollicine: sia provenienti dal contesto produttivo, come Stefano Grilli, celebre per i suoi Ancestrali, e Stefano Pola, eminente interprete del Conegliano Valdobbiadene e della viticoltura di montagna; sia da quello comunicativo, con lo spazio dedicato ai pensieri, sul tema, del sopracitato Francesco d’Agostino. Infine, il resoconto dettagliato di due eventi unici, targati ONAV: quello sul Mondo delle bollicine e la scienza dello Champagne, lectio magistralis di Gérard Liger-Belair, professore di Chimica e Fisica all’Università di Reims, e quello attorno alla figura di Federico Martinotti, a cento anni dalla sua scomparsa. Al di là della cover story Universo Spumanti, le bollicine sottili sono ancora protagoniste nella verticale dei due Franciacorta Extra Brut Millesimato e Dosaggio Zero Riserva della cantina franciacortina Lo Sparviere; nel servizio sul territorio dei Colli Euganei, con i suoi spumanti dolci e vini passiti; nei racconti dell’azienda trentina Maso Martis e della maison di Champagne Abelé 1757; nell’intervista a Silvia e Francesca Uberti, donne di Franciacorta e vignaiole per nascita, come anche nelle rubriche dedicate alla legislazione e ai libri. Un numero dal taglio sicuramente tecnico e storico, ma anche avanguardista, in cui, attraverso la lente di ingrandimento sugli spumanti, abbiamo esaminato la contemporaneità del vino italiano e guardato al futuro, sfiorando temi come il cambiamento climatico e l’incremento dei vigneti appenninici, dall’Abruzzo all’Umbria, le variazioni delle preferenze dei consumatori, ma anche l’importanza del territorio e delle uve in una tipologia, spesso troppo frettolosa mente, ricondotta alla tecnica di produzione anziché all’origine. L’universo spumante sta vivendo una fase di espansione sia sul mercato naziona le che internazionale e la capacità, per il resto del settore, di seguire questa rotta potrebbe rivelarsi uno strumento effica ce per disegnare il vino italiano di domani.

COME UNA BOLLA HA CAMBIATO LA STORIA DEL VINO

Un viaggio tra scienza, storia e passione: innovazioni tecniche, personaggi, casualità e strategie di marketing visionarie che hanno trasformano una bevanda d’élite in un fenomeno globale

«I piaceri dell’amore e le gioie del buon vino, per completare la nostra felicità saggiamente li uniamo. Alla bellezza, tutto il giorno con cediamo il sovrano dominio e alle sue ninfe predilette devotamente obbediamo. Al teatro rendiamo sempre omaggio e quando tutto finisce il divertimento prosegue al Mall e al parco, dove amiamo fino a che non cala il buio. Poi il frizzante champagne mette fine al loro regno». Questa una delle strofe che George Etherege, drammaturgo inglese del la metà del Seicento, fa cantare al londinese Sir Fopling Flutter nella prima scena del IV atto della commedia The Man of Mode, scritta nel 1676, otto anni dopo l’ingresso, in qualità di “capo cantiniere”, di Dom Pierre Pérignon nell’abbazia di Hautvillers e molto tempo prima di qualsiasi Champagne “frizzante” prodotto consapevolmente in territorio francese. Questi ultimi, infatti, nella loro definitiva versione “made in France”, faranno il loro ingresso sulla scena mondiale solo negli ultimi anni del XVII secolo. Agli inglesi della metà del Seicento piacevano le bollicine, quelle fini e sottili che, più o meno inanellate nelle catenelle del perlage, caratterizzavano e differenziavano quel nuovo vino rispetto a tutti gli altri. Già nel 1665 lo scrittore e poeta di Strensham Samuel Butler, nel pometto satirico Hudibras faceva riferimento a un brisk Champagne, ossia “vispo,” “vivace” e perciò effervescente. Ancora prima di lui, il 17 dicembre del 1662, Christopher Merret, medico, naturalista e primo bibliotecario di Oxford, presentò, in un incontro della neonata Royal Society, un documento sulla vinificazione in cui affermava che «i nostri bottai di vino degli ultimi tempi usano gran di quantità di zucchero e melassa per tutti i tipi di vini, per renderli spumosi e frizzanti». Gli importatori inglesi, quindi, grazie alla presenza di bottiglie di vetro più spesse e resistenti rispetto al passato, stavano regolarmente e intenzionalmente creando dei vini effervescenti. In poche parole, il “metodo Merrett” ben prima del più famoso méthode champenoise, certificò una pratica capace di fornire al vino un’effervescenza non più casuale e inattesa, bensì desiderata e controllabile; i tappi di sughero poi, già ampiamente utilizzati in Inghilterra per il sidro e per i vini di Jerez, così come il vetro resistente delle prime fornaci industriali alimentare a carbone fossile ne imbrigliarono vivacità e persistenza. Per fare lo Champagne agli inglesi mancavano due ingredienti: il territorio con i vigneti e il vino, aspetto singolare che, successivamente, spinse gli storici francesi a definire il contributo d’oltremanica con le parole the English Paradox.

Ad alimentare l’amore per lo Champagne “frizzante” da parte dei francesi fu Filippo II, duca di Orléans, neotemplare, occultista, libertino e reggente di Francia durante la minorità di Luigi XV dal 1715, anno della morte del Re Sole e di Dom Pérignon, al 1723. Filippo d’Orléans amava il sesso, meglio se promiscuo, così come il cibo e il vino. I banchetti organizzati al Palais-Royal, residenza parigina del reggente, erano celebri per l’abbondanza e la qualità delle pietanze e sempre bagnati da vini rossi di Borgogna e bianchi di Champagne, rigorosamente frizzanti questi ultimi, rigettando del tutto l’antica tipologia ferma tanto cara a Nicolas Brûlart, marchese di Sillery, e a quanto pare anche al monaco di Hautvillers. Le notti del Palais-Royal echeggiavano di musiche, danze e spettacoli teatrali cui non era insolito assistere alle esibizioni dello stesso reggente al clavicembalo o al canto. Tali eventi erano soliti anticipare libagioni a Champagne che, secondo i resoconti di Louis François Armand de Vignerot du Plessis, III duca di Richelieu, creava in ogni avventore un elevato stato di esaltazione. Ironico, dai comportamenti spregiudicati, sebbene di cultura e con arguzia politica degna di un grande statista, Filippo di Orléans fu un influencer ante litteram per lo Champagne, imponendo, a corte come nei palazzi dei nobili e degli emergenti borghesi, la sua definitiva versione con le bollicine. Nell’edizione del 1724 del Dictionnaire universel dell’abate Antoine Furetière apparse per la prima volta l’associazione esclusiva dell’aggettivo mousseux (spumante) «solo al vino di Champagne, che produce spuma». Nella precedente edizione del 1721, invece, il termine mousse (spuma) era relazionato solamente alla birra, alle bevande a base di cioccolato e all’acqua insaponata. L’amore per il saute-bouchon, letteralmente salto del tappo, divenne una vera e propria mania e poi una frivola ma entusiasmante moda.

A immortalarne la dinamica, in un tempo ancora privo di macchine fotografi che, fu nel 1735 il pittore Jean-François de Troy, in un olio su tela di 186x120 centimetri chiamato Le Déjeuner d’huîtres e oggi conservato nel Museo Condé presso il Castello di Chantilly che, nel rappresentare un pranzo di gentiluomini a base di ostriche e Champagne, mostrava in alto a sinistra il particolare di un tappo in volo, capace di attirare lo sguardo di parte dei commensali oltre alla presenza, in primo piano nell’opera, di altre bottiglie di Champagne al fresco in una ghiacciaia. Commissionato da Luigi XV per i suoi appartamenti privati di Versailles, il dipinto sprigiona nei tratti e nei colori tutta l’allegria del momento e la felicità di un connubio, quello tra ostriche e Champagne che, nei secoli a venire, avrebbe fatto storia tra i più vezzosi e ricercati abbinamenti di cibo e vino. Sempre nel 1735, poi, un’ordinanza reale stabilì che il tappo dello Champagne doveva essere assicurato al vetro «con una cordicella a tre fili ben intrecciati, annodata a croce sopra il tappo». Le feste e le danze della corte di Luigi XV, con la loro stravaganza nelle abitudini e nei costumi offrirono un mercato ideale per questi vini effervescenti, leggeri e moderni, molto apprezzati da vere e proprie star dell’epoca come madame de Pompadour, François-Marie Arouet, al secolo Voltaire, e il già citato III duca di Richelieu, il cui li bertinaggio ispirò Choderlos de Laclos per il personaggio di Valmont del libro Le relazioni pericolose. Così, grazie anche a un mercato inglese sempre assetato di Champagne, gli investimenti a Reims ed Epernay aumentarono di anno in anno, ponendo le basi del la struttura produttiva e commerciale più efficiente e poderosa che il mondo del vino avesse mai visto. Il 1° settembre 1729, a Reims, il commerciante di tessuti Nicolas Ruinart fondava la prima maison di Champagne, cui seguirono nel 1743 quella di Claude Moët a Epernay e nel 1760, a Reims, quella di François Delamotte. A rendere perfettamente sottili le bollicine di Ruinart, nipote del monaco benedettino Dom Thierry Ruinart (1657-1709) amante del vin de bulles – il “difetto” combattuto per quasi una vita intera da Dom Pérignon –, era l’habitat delle cantine di epoca gallo-romana dove conservava i propri vini. Poste a 38 metri di profondità e scavate nelle craie, una pietra calcareo-gessosa frettolosamente liquidata come gesso, registravano una temperatura costante di 11 °C per tutto l’anno: un “ingrediente” segreto, questa volta del tutto francese, in grado di trasformare delle primordiali bolle di anidride carbonica nell’aristocratico ed esclusivo perlage che è, allora come oggi, l’anima naturale e manifesta di ogni Champagne. Ruinart era diventato, a sua insaputa, il pioniere di una galleria di ritratti più meno mitici che, da lì ai due secoli successivi, avrebbero riscritto la storia del vino, della moda, del piacere a tavola e anche dell’immagine e del racconto di una bottiglia. Solo per fare qualche occasionale esempio, Madame Barbe-Nicole Clicquot Ponsardin (1777-1866), con la table de remuage avrebbe rivoluzionato la tecnica per chiarificare lo Champagne; Louis Roederer (1809-1870) sarebbe invece stato testimone, con il suo Cristal per lo Zar Alessandro II di Russia, del primo Champagne del lusso estremo; Jeanne Alexandrine Louise Mélin, poi, nota ai più come Madame Pommery, grazie al rilascio del Pommery Nature 1874 sdoganò definitivamente la produzione dello Champagne secco, mentre nel Novecento, Pierre Taittinger valorizzò come nessun altro lo Chardonnay e René Lalou, presidente di G.H. Mumm dal 1939 al 1973, elevò il concetto di assemblage portandolo dalle uve e dai vini, al livello dei cru e dei singoli vigneti.

Spumeggiante come l’arte, le lettere e le scienze

Nei primi anni dell’Ottocento, la produzione annuale di Champagne contava circa 300mila bottiglie che schizzarono a metà del secolo a una cifra molto prossima a 20 milioni di pezzi. La crescente domanda era dominata dalle élite europee aristocratiche e borghesi che amavano la leggiadria di un prodotto che incarnava, nella sua dorata e spumeggiante liquidità, il cambiamento profondo in termini di arte, letteratura e scienze di questo specifico periodo storico. Non solo e non più, quindi, un simbolo di lusso e prestigio ma anche, a ogni calice e in ciascuna bolla, la testimonianza della vittoriosa superiorità delle umane conoscenze sul mondo e la natura stessa.

Lo Champagne e gli spumanti in genere, nel loro sviluppo tecnico e simbolico, sono vini che non solo si intrecciano con il clima culturale e scientifico del positivismo, l’ottimismo della Belle Époque e le trasformazioni sociali ed economiche che segnarono gli albori del Novecento, ma furono altresì capaci di nutrirne, nei costumi e negli stili di vita, gli stessi sviluppi, amplificandone le implicazioni. Una connessione simbiotica che si seppe articolare su più piani come la scienza, la tecnologia, la cultura del progresso e una certa simbologia sociale di riscatto e distinzione. La bollicina sottile, essenza apparentemente indomita della tipologia, legata alla volontà umana nella sua regolarità e controllabilità di genesi, insieme alla piacevolezza leggiadra ma decisa, incarnò appieno quello stesso slogan del positivismo, coniato da Auguste Comte che recitava: «l’amore per principio, l’ordine per fondamento, il progresso per fine.» Il Metodo Champenoise, grazie al controllo dell’intero sistema produttivo, è l’espressione della tecnica che domina sul fato, la perizia sull’accidente. La certezza, più che negli altri vini, negli Champagne domina sull’incertezza, così come la precisione del lavoro vince sull’approssimazione dei processi produttivi. In sintesi, una semplice e singola bolla, divenne il definitivo simbolo del saper fare umano nei confronti di una natura caotica. Se l’assenzio è l’immagine liquida della Parigi decadente, lo Champagne lo è di quella positivista e ottimista che, a gran velocità, si catapulterà dentro alla Belle Époque: quotidiana celebrazione del lusso, della felicità e del progresso. L’effervescenza dello Champagne, foriera di una felicità sicuramente più vigile e brillante, grazie alla sua leggera gradazione alcolica, relegherà definitivamente ai margini della società e del “buon costume” quell’offuscato e sconnesso potere, tutto alcolico, dell’assenzio. La contrapposizione tra luce e tenebre dell’intelletto, vigore e fiacchezza delle membra, gioia e disperazione, sarà esiziale. È nell’arte che si celebra, quasi violentemente, tale dicotomia. La bottiglia in terra, la mantella chiusa quasi a proteggere un’anima che vorrebbe fuggire da un corpo ostile e il piede malmesso de Il bevitore di assenzio di Édouard Manet (1858-1859), così come lo sguardo perso e assente e le spalle caduche della donna de L’assenzio di Edgar Degas 1875-1876), sono in aperto contrasto con le immagini dello Champagne, sempre raffigurato accanto a del cibo o protagonista di momenti gioiosi e festeggiamenti, anche quando il dipinto – il riferimento è all’olio su tela del 1882 di Manet Un Baraux Folies Bergère – si concentra sulla fatica della cameriera Suzon, intenta ad accontentare la gran folla festante riflessa nello specchio dietro al bancone. Sebbene l’intento dell’opera di Manet sia critico nei confronti della società dell’epoca, davanti e in primo piano a quella istantanea di modernità riflessa nello specchio c’è, anzi, ci sono delle bottiglie di Champagne: il vino che segnò quell’epoca.

Arte e tecnica dello Champagne

Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento si celebrò un po’ in tutta Europa una prima vera e propria “cultura dell’abbondanza” e lo Champagne era al centro di tali celebrazioni. L’effervescenza ne era l’essenza intima: estetica di leggerezza ed etica del capriccio allo stesso tempo, gioia spensierata e salda certezza di un presente declinato al futuro. I manifesti della Belle Époque e dell’Art Nou veau, come quelli di Jules Chéret o Alphon se Mucha, rappresentavano lo Champagne come una bevanda di charme associata alla modernità, al divertimento, all’eleganza femminile perlopiù e a piaceri di tutti i tipi. Proprio tra la metà dell’Ottocento e primi vent’anni del Novecento, la tecnica produttiva dello Champagne assorbì quelle conoscenze e quella “consapevolezza” che la renderanno stabile nei decenni successivi. La gestione della rifermentazione venne consolidata dopo il 1830 e, successivamente, si andarono a stabilizzare le tecniche di tappatura e “ingabbiamento” del tappo. Remuage e dégorgement si stabilizzarono: inizialmente l’eliminazione delle fecce si ottenne con il travaso in una bottiglia diversa da quella della seconda fermentazione, per poi abbandonare tale regola, anche per i costi molto alti dell’operazione, e passare definitivamente al remplissage, colmando la bottiglia originaria con altro vino. Si era aperta la strada alla liqueur d’expédition. Alla fine dell’Ottocento, gradualmente, mutò anche il gusto dello Champagne, da dolce a secco: la seconda rivoluzione dopo quella, originaria, della “nascita” delle bollicine. La liqueur d’expédition, o meglio, la sua composizione diverrà negli anni cruciale con l’impiego di “sciroppi” più secchi per il mercato inglese e ancora zuccherini per quello d’Oltralpe, come testimoniato da Guy de Maupassant nel Bel-Ami del 1885 quando in un caffè si ordina uno «Champagne che sia del migliore, uno Champagne dolce». Nel XX secolo lo Champagne non è solo il vino più moderno che esista, ma anche il più globale. Ferrovie e navi a vapore permisero all’effervescenza moderatamente alcolica di questi vini di raggiungere e conquistare gli allora mercati globali e coloniali, dove, esattamente come in Europa, lo Champagne divenne subito la “bevanda” delle feste, della felicità e della celebrazione di tutte le tipologie di successo. Quell’insieme di bollicine sottili, ordinate in sinuose catenelle che, in ogni singola flûte, sembrano volare verso il cielo erano il consolidato simbolo dell’ottimismo, del progresso e del lusso di un’epoca in cui la scienza e le sorti promettevano un mondo migliore.

Oltre la guerra e l’orrore

Ciò che accadde nei decenni successivi pose le basi dello Champagne così come lo conosciamo oggi, grazie a un costante consolidamento delle posizioni di mercato, un continuo utilizzo di tecniche innovative e, non da ultimo, un racconto costellato da vere e proprie dichiarazioni d’amore da parte di letterati, artisti, attori, scienziati e politici. A ben guardare, neanche la Seconda Guerra Mondiale riuscì a frenare la passione per le bollicine, così come evidente dall’attenzione, non solo economica, riservata a questi vini dall’occupante nazista. Appena conclusa la campagna di Francia, tra il 10 maggio e la fine di giugno del 1940, la gestione economica e amministrativa della Champagne venne affidata a funzionari di esperienza e spessore come Otto Klaebisch, tra i cui compiti essenziali c’era quello di mantenere inalterata la produzione vincola. Con richieste che potevano arrivare fino a 400mila bottiglie a settimana, Berlino, così come Monaco di Baviera e le altre grandi città del Terzo Reich apparivano voraci di Champagne, bollicina che, di gran lunga, preferivano agli “insipidi” spumanti tedeschi, sebbene intrisi, al contrario dello Champagne, di quel Blut und Boden (sangue e suolo), che era principio ed essenza di tutti i prodotti della campagna e della cultura rurale teutonica. Nato a Cognac in una famiglia tedesca nota per il commercio del famoso distillato di vino, Klaebisch possedeva una profonda conoscenza dell’industria vinicola francese e fu nominato da Hermann Göring (appassionato di vino e collezionista di grandi bottiglie insieme al ministro della propaganda Joseph Goebbels) Sonderführer, ossia capo speciale con potere di comando militare per la regione della Champagne, titolo che venne poi, non ufficialmente, tramutato in Weinführer (capo del vino). All’epoca il sistema produttivo dello Champagne non aveva i mezzi per supportare l’alta richiesta tedesca così, nella primavera del 1941, sotto l’egida dello stesso Klaebisch, le maggiori maison si unirono formando il Comité Interprofessionnel du vin de Champagne (CIVC), con l’obiettivo di negoziare una distribuzione equa delle requisizioni tra i vari produttori e, se possibile, aumentare la produzione. A capo dell’organizzazione dei produttori c’era il conte Robert-Jean de Vogüé, reggente di Moët & Chandon e uno degli uomini più rispettati del settore. Da qui in poi la ricostruzione storica si divide: una parte, con una evidente dose di propaganda, dipinge i produttori di Champagne compattamente allineati nel contrastare il potere nazista anche con attive partecipazioni nella resistenza; un’altra, più plausibile nel tracciare una descrizione obiettiva dei fatti, ci riconsegna invece un atteggiamento più pragmatico da parte dei produttori, intenti a proteggere vigne, produzione e personale. Le documentazioni su atti di eroismo e azioni di opposizione aperta al regime nazista sono scarse. Alcuni, è vero, nascosero le migliori cuvée costruendo finti muri nelle cantine o etichettarono intenzionalmente bottiglie di qualità con indicazioni false, nel tentativo di ingannare le autorità tedesche, ma la collaborazione con queste ultime era spesso una necessità per garantire la sopravvivenza economica e fisica di aziende e uomini. La storia di de Vogüé ne fu un esempio. Incaricato di intrattenere i rapporti tra il CIVC e le autorità tedesche, in primis con lo stesso Klaebisch per gestire produzione e richieste di vino, l’amministratore delegato di Moët & Chandon, che aveva anche contatti con la resistenza, nel novembre del 1943 venne arrestato dalla Gestapo e internato nei campi di Karlsruhe, Rheinbach, Ziegenhain e Rheinberg, dove rimase fino alla liberazione nel maggio del 1945. Otto Klaebisch, che sostituì de Vogüé alla guida della famosa maison, di vino se ne intendeva e scoprì il “gioco” al ribasso sulla qualità di molti produttori, ma non per questo fu artefice di specifiche denunce. Famoso fu il battibecco che ebbe con François Taittinger quando gli disse: «Come osi mandarci acqua frizzante»? «A chi importa? – avrebbe risposto Taittinger – Non è che verrà bevuta da qualcuno che sa qualcosa di Champagne». La sfrontatezza di tale risposta costò a Taittinger “solo” alcuni giorni di carcere. Il 28 agosto del 1944 la Terza Armata americana, sotto il comando del generale George S. Patton, liberò Épernay e due giorni dopo Reims. Klaebisch tornò in Germania e alla fine della guerra venne processato per reati economici. De Vogüé fu chiamato a testimoniare contro di lui, ma nella deposizione non sostenne l’accusa, consentendo l’assoluzione del tedesco. «Klaebisch – dichiarò sotto giuramento alla corte – era in una situazione difficile e non ho mai creduto neanche un minuto che avesse ordinato direttamente il mio arresto o quello di altri produttori. È sempre stata la Gestapo». Un ulteriore esempio, quest’ultimo, di come solo questo vino, fatto di bolle e speranza, sia in grado di mettere insieme, quasi in ogni circostanza, persone spesso molto distanti tra loro. A chiudere, un fatto non così noto al grande pubblico: il secondo conflitto mondiale, in Europa, terminò alle 02:41 del mattino del 7 maggio del 1945 proprio in Champagne, con la firma, a Reims, dinanzi al generale statunitense Dwight Eisenhower dei documenti della resa della Germania.