Un’avventura iniziata a metà Ottocento con Carlo Gancia, proseguita con Giulio Ferrari e, negli anni Sessanta, con Berlucchi e Ziliani in Franciacorta per tornare in Trentino con i gio vani dell’Equipe 5. Pionieri, tutti insieme, di un’eccellenza italiana

Lo spumante piemontese

In principio fu un uomo, Carlo Gancia, e la sua passione per l’enologia d’Oltralpe. E un vitigno francese, il Pinot nero. Ma per capire come sia nato il primo spumante italiano bisogna fare un salto indietro, nel disastrato Piemonte enologico di inizio Ottocento. All’epoca, l’interesse per il Pinot nero in Italia si muoveva su due binari: da una parte, la venerazione per i vini rossi di Borgogna, che si dimostravano infinitamente migliori dei vini localmente prodotti da uve Nebbiolo; dall’altra, quella per gli Champagne, tipologia che, invece, mancava nel nostro Paese. Entrambi i prodotti erano regolarmente presenti sulle tavole degli aristocratici piemontesi, i quali, avendone i mezzi, non resisterono alla tentazione di imitare l’esempio francese con ogni tentativo possibile. Emblematico, in tal senso, il caso di Camillo Benso, conte di Cavour, che fece impiantare Pinot nero sulle colline della propria azienda presso il Castello di Grinzane, chiedendo la consulenza direttamente a un enologo francese, Louis Oudart, in quel momento impegnato in una piccola produzione di “Champagne” in Liguria. Il paradosso fu che proprio Oudart – già convocato nel 1840 dalla Marchesa Giulia Colbert, moglie di Carlo Tancredi Falletti di Barolo per migliorare la propria produzione di Nebbiolo – nel frattempo fosse venuto a capo della ragione dello scarso appeal del Nebbiolo (una mala gestione della fermentazione, che dava vini dolciastri), aprendo la strada a quei buoni risultati che avrebbero distolto ogni attenzione dal Pinot nero tanto amato da Cavour. Il difficile vitigno francese inizia così a trovare sempre meno spazio tra i produttori langaroli. A testimoniarlo è anche il sempre minor interesse dei viticoltori verso quelle splendide barbatelle di Pinot nero che il marchese Leopoldo Incisa si era fatto arrivare direttamente dalla Borgogna quando, nel 1851, aveva creato un’incredibile collezione ampelografica nei vigneti di Rocchetta Tanaro (tant’è che la collezione non sopravvisse a lungo alla morte del suo fondatore nel 1871). Quando anche il re Vittorio Emanuele II si decise ad acquistare la tenuta di Fontanafredda, a Serralunga d’Alba, e a produrre Nebbiolo, la storia fu presto scritta: era il Barolo il nuovo re delle Langhe. Se la moda dei rossi fermi da Pinot nero può dirsi in un certo senso soppiantata da questa svolta “autarchica” del Nebbiolo, così non fu per quella degli spumanti. E qui entra in gioco il nostro Carlo Gancia. Sperimentatore enologico e studioso (a lui si deve l’invenzione del Vermouth), Gancia era anche un grande appassionato di Champagne. Al punto da essersi trasferito a Reims nel 1850 per andare a lavorare presso la maison Piper-Heidsieck, con l’obiettivo di apprendere tutti i segreti di produzione del grande vino spumante. Tornato in Italia dopo due anni, con il fratello Edoardo fonda a Chivasso la ditta Fratelli Gancia e inizia a sperimentare il metodo Champenoise sulle uve di Moscato bianco dell’astigiano. Nel 1865 era nato il primo Metodo Classico italiano, progenitore per un verso (le uve utilizzate) dell’odierno Asti spumante (il quale però inizierà ad essere prodotto dopo il 1868 con l’invenzione del Metodo Martinotti), per l’altro del Metodo Classico dell’Alta Langa. I vini, che erano dolci, ottennero un discreto successo di pubblico anche all’estero, ma mancava ancora all’appello quello spumante secco “stile francese” che Gancia sognava. L’enologo sapeva che l’unico modo per ottenerlo era l’utilizzo dei vitigni francesi, tra cui proprio quel Pinot nero che ormai a Barolo non tirava più. Fu così che, letteralmente, iniziò a raccogliere le uve di quei produttori “scottati” dall’esperienza Pinot nero italiano fermo mentre, con la prospettiva del progetto “spumante italiano”, ne arruolò anche di nuovi, in particolare della zona di Canelli, dove si diffusero i primi impianti di Pinot nero e Chardonnay. Tra questi, anche il cavalier Boschiero di Asti e persino il conte Vistarino dell’Oltrepò Pavese (artefice a sua volta della svolta spumantistica oltrepadana) che destinarono due ettari di vigneto di Pinot nero alla produzione di base spumante per la ditta Gancia. Perché il sogno di Carlo Gancia era, sì, visionario, ma si fondava su solide fondamenta: la conoscenza della materia, l’affidabilità degli attori coinvolti e un territorio vocato allo scopo.

Franciacorta, la terra promessa

Quando si approccia la storia enologica della Franciacorta si pensa immediatamente all’iniziativa di pròvvidi industriali del nord Italia che, negli anni ’60, si diedero alla diversificazione imprenditoriale, puntando tutte le proprie energie sul vino prodotto in questo felice spicchio di Lombardia raccolto tra il lago d’Iseo e la città di Brescia. L’input lo diede l’enologo Franco Ziliani e il suo committente, Guido Berlucchi, nella cui azienda fu prodotto, nel 1961, il primo spumante Metodo Classico della regione, ispirato alla tradizione dello Champagne. L’evento segnò l’inizio di quella rivoluzione enologica che, in brevissimo tempo, trasformò la Franciacorta in una delle aree vinicole più prestigiose d’Italia, richiamando a sé industriali bresciani, tra cui personaggi di spicco come Vittorio Moretti, fondatore di Bellavista, e Maurizio Zanella, alla guida di Ca’ del Bosco, che investirono in viticoltura attratti dalle potenzialità del territorio franciacortino. È proprio grazie a questo nuovo corso che si è iniziato a ricostruire la storia enologica dell’area, radicata sin dall’epoca dei Romani, che vi avevano avviato la coltivazione della vite attratti dal clima mite e dalla conformazione collinare. Durante il Medioevo, epoca alla quale risalirebbe anche il nome Franciacorta – da franchae curtes, corti franche, ovvero esenti da tasse perché abitate da monaci benedettini che godevano di franchigie fiscali –, la zona finì sotto il dominio veneziano, che favorì lo sviluppo della viticoltura, grazie agli scambi commerciali e alla richiesta di vini di qualità. Vi si producevano nettari sia bianchi che rossi e, stando alla testimonianza di due dei trattati enologici più significativi del Rinascimento, talvolta anche vini “piccanti”. Nel 1564, l’agronomo bresciano Agostino Gallo pubblica Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa, in cui menziona il cisiolo, «un vino bianco, benché fatto di uve nere, che restava dolce tutto l’anno, per non aver potuto bollire». Era metà del ’500, ma già si parla di “tecnica”, di “bollitura”, quindi di fermentazione, e di “vini bianchi ottenuti da uve nere”, pratica usata anche in Champagne. Una tecnica, quella del cisiolo (la cui etimologia è l’evoluzione dialettale del verbo latino caedere, “tagliare”, usato nel contesto rurale dell’est lombardo, e si riferisce a un piccolo attrezzo agricolo, simile a un falcetto, usato per la potatura delle viti), diffusa tra i contadini bresciani da secoli, come attestano le carte d’archivio del Duecento riportate da un’altra testimonianza di riferimento per la storia della Franciacorta, quella del Libellus dei vini mordaci del medico bresciano Girolamo Conforti, pubblicata nel 1570. Il Conforti conferma l’esistenza nella zona di vini in grado di restare «piccanti per più mesi», che «non seccano il palato come i vini acerbi e non rendono la lingua molle come i vini dolci» e di come questi si facessero più mordaci in inverno, mostrando una «scoria gassosa, leggera e pungente». In un’epoca in cui bere vino era più salutare che bere acqua, il suo era, invero, da buon medico e filantropo, un mero interesse dietistico, fondato sulla base dell’applicazione della fisica aristotelica alla medicina, motivo per cui suggeriva per questi vini “mordaci”, che «provocano il singhiozzo, vanno al cervello e fanno lacrima», un uso moderato. Poco o niente a che vedere, perciò, con i vini della tradizione spumantistica che si sarebbe imposta nel XX secolo, per quanto vi si possa provare a ravvisare una certa evidenza della naturale vocazionalità dell’area all’effervescenza. Oggi la produzione di Franciacorta, DOC dal 1967 e DOCG dal 1995, utilizza solo il Metodo Classico, con lunghi periodi di affinamento sui lieviti (dai 18 mesi dei base fino ai 60 dei Riserva); le uve utilizzate sono principal mente Chardonnay, Pinot nero e Pinot bianco, coltivate secondo criteri di sostenibilità, e l’intero areale è uno degli esempi più fulgidi del vincente connubio tra enologia di qualità, valorizzazione di un territorio attraverso un’offerta enoturistica a tutto tondo e capacità di fare squadra delle menti che hanno creduto in questa terra promessa dal nome Franciacorta.

Le bollicine del Trentino

Lo spumante in Trentino ci tramanda sicuramente la storia di una terra vocata ma anche, e soprattutto, quella di uomini geniali che hanno saputo inventare, attraverso una tecnica enologica, uno stile tutto italiano. Nei primi anni del Novecento, un giovane enotecnico appena tornato da un viaggio-studio in Francia, desiderava riprodurre in Trentino lo Champagne, utilizzando gli stessi vitigni e le medesime tecniche di produzione. Il suo nome era Giulio Ferrari, diplomato alla Regia Scuola Agraria di San Michele all’Adige. Subito l’enologo si mise all’opera per coltivare quel vitigno allora chiamato “Borgogna giallo” (Chardonnay), portato in Trentino mezzo secolo prima da Edmondo Mach, fondatore proprio di quell’Istituto frequentato da Giulio Ferrari. Ebbe così inizio il mito dello “Champagne” Ferrari, come recitavano le prime etichette di questo vino così eccentrico per l’epoca, ma già simbolo della Belle Époque italiana. Nonostante la grande forza di questa inven zione, nel panorama enologico nazionale lo spumante di Giulio Ferrari rimase a lungo un prodotto di nicchia (9.000 bottiglie annue, tutte vendute en primeur), esclusivo e costoso. La vera svolta nella diffusione del Metodo Classico trentino si ebbe nel 1952 quando Bruno Lunelli, enotecario di Trento, acquistò per l’allora ricca somma di 30 milioni di lire il marchio e la cantina di Giulio Ferrari, ultimo erede di una nobile famiglia. Alla fine degli anni Sessanta la guida dell’azienda passò ai tre figli Gino, Franco e Mauro, con quest’ultimo che, occupandosi della produzione, divenne l’erede e il custode delle conoscenze di Giulio Ferrari. Il lascito di Giulio Ferrari in territorio trentino non si esaurì, tuttavia, nella sola passione e imprenditorialità della famiglia Lunelli, ma coinvolse, sempre nei primi anni Cinquanta, anche cinque giovani enologi: Bepi Andreaus, Riccardo Zanetti, Pietro Tura, Ferdinando Tonon e Leonello Letrari. Capitanati da quest’ultimo, i cinque misero in atto l’ambizioso progetto di produrre un secondo “Champagne” trentino. Investendo 2 milioni di lire a testa, il gruppo fece della vecchia cantina di Giulio Ferrari a Lavis la propria sede operativa e, nel 1961, diede vita al primo Metodo Classico denominato Equipe 5. Il vino, di pregio e alta gamma, raccolse subito grandi successi tra gli appassionanti di bollicine, spingendo i cinque a una sempre crescente produzione che, di lì a poco, arrivò a toccare le 500mila bottiglie. Successivamente, e per motivazioni diverse, gli enologi gettarono la spugna, con Ferdinando Tonon e Leonello Letrari a rimanere al timone del progetto fino all’ultimo atto della sua storia, ovvero quando, nel 1988, il marchio venne acquistato dalla Cantina di Soave, in concomitanza con la nomina del trentino Bruno Trentini quale Direttore generale ed enologo della grande realtà veneta. Storie, quella di Gancia, di Lunelli e di Equipe 5 che, seppur con epilogo differente, hanno rappresentato le esperienze pionieristiche del Metodo Classico Italiano, diffusosi in quasi tutte le regioni d’Italia e, oggi, divenuto tipologia di punta in fatto di apprezzamento dei consumatori.