SPUMANTI. INTERVISTA A FRANCESCO D’AGOSTINO
Intervista al direttore della rivista Cucina & Vini, nonché di Sparkle, l’unica guida dedicata esclusivamente agli spumanti secchi italiani
Ingegnere, sommelier Fisar da metà anni Novanta, quando comincia a collaborare con Agrisole de Il Sole 24 Ore, Francesco D’Agostino fonda, nel 1999, insieme a dei colleghi, la rivista consumer Cucina & Vini, di cui diventa nel 2003 vicedirettore. Nello stesso anno viene data alle stampe la prima edizione di Sparkle, la guida ai migliori spumanti d’Italia di cui è tuttora il curatore. Docente sommelier dalla prima metà degli anni Duemila, nel 2010, con un gruppo di appassionati colleghi, crea la casa editrice Damar 2010, che acquisisce testata e guide di Cucina & Vini, di cui oggi è direttore responsabile. Ha collaborato con Radio Capital nella trasmissione Brunch per Duo nel 2016 e nel 2018 ha vinto il premio giornalistico del Movimento Turismo Puglia. A lui, che riveste una posizione di assoluto privilegio, in Italia, grazie alla redazione di Sparkle, l’unica guida interamente dedicata agli spumanti del Belpaese, abbiamo posto alcune domande sullo stato dell’arte dello spumante tricolore: delucidazioni sui numeri produttivi, impatto del cambiamento climatico sulla produzione nazionale, stili, consumi e prospettive future di questa “filiera nella fi liera” delle bollicine, che sembra, rispetto ad altri vini, non avvertire il “morso” della crisi.
Direttore, quali sono i dati più aggiornati e soprattutto reali sulla produzione di spumanti italiani? Come si è evoluto il volume di bottiglie prodotte negli ultimi dieci anni?
«I numeri, calcolati sull’elaborazione dei dati dell’ICQRF (Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agro-alimentari), quindi l’organo di controllo ufficiale del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste in riferimento alla produzione, ovvero alle dichiarazioni di spumantizzazione effettuate in Italia dai produttori nell’ultima campagna vitivinicola, dal primo agosto 2023 al 31 luglio 2024, mostrano uno stock di 1.080.914.658 di bottiglie, in lieve flessione (0,48%) rispetto al biennio precedente, ma in linea con quel superamento del miliardo di pezzi che, invero, sto notando quale trend consolidato da tre anni a questa parte. Il Veneto ha segnato 713.532.278 di bottiglie, il Piemonte 199.072.516 e la Lombardia 62.245.778, a seguire Friuli-Venezia Giulia con 37.012.825, Trentino-Alto Adige con 26.064.022 ed Emilia-Romagna a quota 19.829.136. Si parla di dati legati alle prese di spuma e quindi certi solo in riferimento alla produzione. Gli altri dati certi sono, poi, quelli dell’export perché legati alle dichiarazioni delle dogane. La prestazione esportativa dei primi otto mesi del 2024, secondo i dati ufficiali Istat, conferma una tendenza positiva: da gennaio ad agosto abbiamo esportato poco meno di un miliardo e mezzo di euro in vini spumanti, l’8% in più sullo stesso periodo del 2023. In volume, l’export è cresciuto di più, 12%, sintomo di una diminuzione, seppur misurata, del valore medio al litro, ora a 4,28 euro, il 3% in meno dello scorso anno. Passando ai mercati interni, invece, i dati non sono più così certi e puntuali perché sul prodotto venduto non esiste alcun controllo. Gli unici numeri certi di consumo sono quelli della GDO, i quali, tuttavia, sono parziali perché non tengono conto dei consumi di spumante nella ristorazione, luogo quest’ultimo che assorbe maggiormente questa tipologia di vino».
Come si è trasformata la propensione al consumo degli spumanti sul mercato interno?
«Il mutamento, rispetto a quando, nel 2003, cominciammo a raccontare attraverso la nostra guida Sparkle il mondo delle bollicine italiane, è stato sostanziale. Lo spumante si consumava essenzialmente per celebrare le feste, di qualsiasi tipo esse fossero. In effetti, già allora si parlava di pasteggiare a Champagne, sebbene anche in Francia, all’inizio degli anni Duemila, ancora venivano largamente prodotte bottiglie personalizzate per le cerimonie da bere con il dessert. Oggi, ma invero già proprio dall’inizio degli anni Duemila, grazie alla consuetudine dell’aperitivo gli spumanti hanno saputo, via via, rubare spazi di consumo ad altre tipologie di vini, imponendosi poi come vini da pasto a tutti gli effetti. Il cambiamento, perciò, è stato, in poco più di vent’anni, epocale ed è essenzialmente legato a quella rivoluzione del 2010 avvenuta in Veneto con l’entrata ufficialmente in vigore della DOCG Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore, riconosciuta l’anno precedente e, a sua volta, con l’introduzione della DOC Prosecco. In buona sostanza oggi, al di là dell’aperitivo che rimane sempre la circostanza di assorbimento più grande per la tipologia, il pubblico è abituato a vedere le bottiglie di spumante sulle tavole sia dei ristoranti sia casalinghe ed è normale pasteggiare con questa tipologia. A riprova di ciò, i numeri dei consumi di spumante sotto le festività che fanno segnare un 30% dello stock, dato che solo venti anni fa era probabilmente molto vicino alla totalità della produzione in vendita».
Possiamo parlare di stili di spumante che stanno dominando il mercato? E, se sì, come si sono evoluti rispetto al passato?
«La trattazione del tema degli stili di spumante mi rende, in verità, un po’ scettico. Nonostante l’incremento delle occasioni di consumo e la maggiore attenzione, in questi decenni, per la tipologia non stiamo comunque vivendo una rivoluzione epocale come, per fare un esempio, quella della trasformazione da dolce in secco dello Champagne che, invece, aveva radicalmente cambiato il modo di consumare le bollicine sottili. Dalla mia esperienza, invece, noto una cosa: quando, ad esempio, propongo ai giovani uno spumante molto secco e tagliente, questi non si avvicinano volentieri all’assaggio, mentre in presenza di spumanti più morbidi, rotondi e con maggiore residuo zuccherino, risultano più propensi. Questo mi fa riflettere sul modo di bere tipologie più secche che, in primis, è legato al cambiamento climatico. La qualità di un vino, oggi, sia esso spumante o fermo, deve essere sempre dominata dall’equilibrio gustativo. Per effetto del cambiamento climatico, in presenza di acidità più contenute, tale equilibrio si ottiene grazie a una minore quantità di zuccheri e quindi con un risultato enologico di vini più secchi. Fino agli anni Settanta, quando le acidità erano a livelli molto alti, con pH nettamente sotto il 3 e acidità totali anche superiori a 11 grammi per litro, in Champagne, solo per fare un esempio, per elaborare uno spumante si dovevano utilizzare più zuccheri. Oggi il medesimo bilanciamento gustativo lo trovi utilizzando meno zucchero; poi, se il vino, alla fine, diventa Extra Brut o Non Dosato è un fatto secondario. Perciò, chi oggi afferma di preferire i vini secchi lo fa, probabilmente, per moda del momento oppure perché magari appartiene a un segmento di consumatori di spumante molto evoluto dal punto di vista della conoscenza profonda della tipologia. Il consumatore semplice non si pone il problema, perché il suo amore profondo è riservato alle bollicine, aspetto che apprezza anche con i vini frizzanti. In ultima istanza, sono le bollicine che piacciono e non solo negli spumanti, ma anche in altre bevande tra le più consumate al mondo, dalla birra alla Coca Cola. A dimostrazione del mutamento di paradigma, tra l’altro, c’è la testimonianza del cambiamento della forma del calice di servizio dello spumante. In passato per gustare al meglio uno spumante secco si doveva utilizzare la flûte, perché con vini sin troppo acidi si andava a cercare una sorta di artificio fisico in grado di “forzare” la fisiologia del gusto; oggi, invece, il bicchiere più adatto per lo spumante è un calice più ampio, perché il vino è più equilibrato, aspetto quest’ultimo sostanziale rispetto al passato nell’agevolare il consumo della tipologia a tavola».
Quanto ancora conta la competizione, in termini soprattutto di costume, tra Champagne e spumante italiano?
«La competizione tra le due tipologie c’è e ci sarà sempre, benché io la trovi profondamente irrisoria se non stupida. È normale che, nel mondo della produzione vinicola, ci siano dei modelli a cui un produttore o un territorio possa in qualche modo rifarsi; tuttavia, benché le uve possano essere uguali, l’ambiente, il suolo e il clima, ma anche gli uomini, sono molto diversi. La competizione che ancora oggi si vive tra Italia e Francia sul tema spumanti è alimentata da un giornalismo sbagliato e non rigoroso: sono e saranno sempre dei vini diversi, con caratteristiche imparagonabili. Ciò detto, dobbiamo comunque ricordare che la Champagne è il luogo del mondo dove si è studiata di più questa tipologia, dove ancora oggi si sperimenta e si estremizza di più e, forse, proprio in questi anni, lì si stanno producendo i migliori Champagne della storia, grazie a equilibri migliori rispetto al passato. Noi stiamo maggiormente soffrendo il cambiamento climatico rispetti ai francesi? Probabilmente sì, ma c’è qualcosa che non torna, però, quando notiamo che la produzione di spumanti sta crescendo, sebbene in piccole quantità, in Sicilia, dove, solo fino a qualche anno fa, si affermava che era molto difficile se non impossibile produrre questa tipologia. La questione di fondo che spiegherebbe, in parte, questo “paradosso” è la presenza dello Chardonnay. Questa uva è talmente plastica e adattabile a molte zone che, se opportunamente gestita in vigna – aspetto in passato trascurato –, può dare quasi ovunque, nelle zone a vocazione vinicola, ottimi risultati. Un’altra spiegazione, se vogliamo più tecnica, è che oggi non è solo l’acidità a comandare nella produzione di vini spumanti, ma anche il tannino, caratteristica la cui importanza, personalmente, sostengo da anni, e che è dibattuta anche in Champagne. A tal proposito, in Italia, l’enologo Romeo Taraborrelli ha sempre gestito il tannino per produrre i suoi spumanti, soprattutto nelle aree del centro e del meridione dove non ci sono acidità elevate come nell’Italia settentrionale».
Visto l’appeal attorno al consumo di bollicine, quanto è importante oggi la presenza di una guida dedicata a questa tipologia come Sparkle?
«Quando cominciammo, nel 2003, poteva essere meno utile rispetto ad oggi, perché gli spumanti erano pochi e le guide hanno senso e importanza quando c’è una scelta articolata del prodotto che raccontano e recensiscono. I vini spumanti, negli anni, hanno visto crescere la loro massa critica e importanza; inoltre sono sempre più legati al territorio di origine, con un grande rispetto per i suoli e l’ambiente, quali matrici di una espressione identitaria. Un prodotto editoriale come Sparkle, quindi, sin dalla sua prima pubblicazione ripartito in territori e denominazioni, è molto utile perché gran parte del consumo di spumante è ancora legato esclusivamente alla tipologia e quindi all’effervescenza del prodotto. La forza degli spumanti sono sicuramente le bollicine, ma dietro di queste c’è un vino con le sue particolari espressioni, aspetti poi esaltati dalle stesse bollicine. Rispetto al vino fermo, con gli spumanti viviamo ancora un deficit di cultura, siamo in dietro di trent’anni, perciò, una guida come Sparkle serve, eccome». Quale il ruolo, soprattutto di indirizzo, di Sparkle rispetto alle altre guide, per così dire, “generaliste”?
«Il ruolo di indirizzo del consumatore è quello più importante della nostra pubblicazione. Come dicevamo prima, non abbiamo mai smesso di organizzarla per regione e denominazione, perché è fondamentale per i lettori capire l’origine territoriale di questi vini. Il territorio e la denominazione sono i nomi dei nostri spumanti: non vedo perché, di fronte a un vino con le bolle, ci si debba sempre e solo rivolgere con il termine generico di spumante, ovvero l’epiteto merceologico. C’è ancora molto da fare per far capire questo, quindi, a maggior ragione, è necessaria la presenza di una guida di indirizzo e di formazione che spieghi come, di fronte a uno spumante di qualità, si sia di fronte a vini di territorio e non solo di metodo».
Tornando al cambiamento climatico, quanto, nei fatti, sta influenzando la viticoltura e la produzione di spumanti?
«È evidente che oggi è più complicato produrre spumante. La tipologia, come tutti sappiamo, necessita di una certa acidità e quindi il cambiamento climatico, da noi, non aiuta. Tuttavia, ogni spumante è, a tutti gli effetti, un vino e nella ricerca del bilanciamento e dell’equilibrio l’anidride carbonica ha anche una funzione di conservante. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che nella produzione delle bollicine oggi c’è un know-how talmente elevato che permette di compensare alcuni disagi legati all’aumento delle temperature. Se pensiamo alla Franciacorta, ma anche a Conegliano Valdobbiadene dove si producono vini sempre eccellenti ma senza le acidità del passato, abbiamo un quadro di come le nuove tecniche riescano a ridurre l’impatto di questa variabile. Ciò detto, dobbiamo anche considerare un effetto opposto e, infatti, oggi ci sono aree di produzione spumantistica, laddove in passato si realizzavano vini sin troppo taglienti, che traggono vantaggio dal cambiamento climatico come, ad esempio l’Alta Langa, la Lessinia con il Durello o le vigne elevate del Trentino che, tuttavia, rimangono sporadiche. In altre zone, viceversa, come quelle vicino alle pianure, il caldo si fa sentire, ma l’attenzione e la gestione agronomica della foglia, del grappolo, del terreno, insieme al controllo delle riserve idriche, riescono ad assorbire molti effetti negativi. Poi, come accennavo prima, tra le varie uve dedicate alla produzione di spumanti, lo Chardonnay ha ancora tanto margine di adattamento di fronte al cambiamento climatico. In sostanza il cambiamento climatico richiede un know-how più incisivo e di maggiore qualità: non ci si può più improvvisare produttoridi spumante. Al di là di tutte queste considerazioni, resta il fatto centrale che oggi siamo in una fase di splendore del vino spumante perché, nonostante tutto, le basi non hanno mai visto un tale equilibrio e, sul versante del consumo, la tipologia non è mai stata, nella sua storia, così adatta alla gastronomia e alla cucina del momento».
Oltre allo Chardonnay, su quali vitigni oggi sta ricadendo la scelta dei produttori? Quanto contano le varietà tradizionali o autoctone e quali le aree vinicole emergenti per la tipologia?
«In riferimento all’utilizzo di vitigni locali e alle aree emergenti, rispetto alle zone storiche di produzione dello spumante nel nord del Paese, il problema è legato ai numeri. Se partiamo dalla Toscana, andando verso sud e tenendo fuori da questo ragionamento Marche ed Emilia-Romagna, la produzione di bottiglie di spumante, nel 2023-2024, ha fatto registrare 12.223.528 pezzi, poco di più dello stock di bollicine delle sole Marche, pari a 10.839.963 di bottiglie. Parlare, quindi, di produzioni spumantistiche del centro o del sud del Paese vuol dire ragionare su numeri di nicchia; poi, a latere di ciò, è evidente che il Bombino bianco stia creando una scia produttiva sempre più performante, perché è un vitigno con grande acidità che, a latitudini più basse, non ha i problemi di altre uve; così come è palese che, sulle pendici dell’Etna, il Nerello mascalese, come pure il Carricante, siano delle varietà perfette… ma, in ogni caso, stiamo parlando di numeri davvero piccoli. A livello di uve italiane, quella che domina, incontrastata, è sicuramente il Glera, con ulteriori margini di crescita, senza presentare problemi di acidità, sebbene i vini prodotti nelle annate molto calde tendano a durare meno. Per il Metodo Classico l’uva principe resta, invece, lo Chardonnay che domina una produzione di circa 50 milioni di bottiglie. Tutte le altre alternative sono meravigliose, affascinanti, dal sapore territoriale, ma esigue nei numeri».
Quali sono le principali prospettive, in termini di crescita, miglioramento qualitativo e gusto per la produzione spumantistica italiana?
«Francamente non immagino il futuro molto diverso dal presente e non credo ci sia una ulteriore evoluzione, se non legata a eventuali e nuove trasformazioni della gastronomia. Il consumo delle bollicine, in questi ultimi trent’anni, ha avuto una spinta colossale dal cambiamento, non solo in Italia, di una cucina che ha conservato l’intensità e l’articolazione degli odori, ma ha perso struttura. Lo spumante ha vinto la sfida sulle tavole proprio adattandosi perfettamente a questo cambiamento, a scapito soprattutto dei vini rossi, legati ormai a un piccolo segmento di preparazioni. Tale considerazione, se vogliamo, rende il futuro dello spumante ancora più roseo sul versante consumi. Passando invece ai territori, considerando l’effetto del cambiamento climatico che, gioco forza, costringerà a salire di altitudine, vedo nell’Appennino, a cominciare dall’Abruzzo, lo spazio futuro dello spumante italiano. Le colline preappenniniche sono molto spesso libere da boschi, con pendenze meno decise rispetto alle aree alpine o prealpine e quindi anche, plasticamente, concorrenziali alla produzione vinicola. In un paese come l’Italia, poi, dove la collina è il tratto morfologico essenziale del territorio, si possono trovare tanti luoghi in cui si può, quasi agevolmente, salire per rincorrere il “freddo”. Concludendo, quindi, nei prossimi anni non vedo alcuna crisi per questa tipologia, piuttosto un incremento delle posizioni sui mercati e una ulteriore spinta alla qualità dei vini. Lo spumante italiano ha intrapreso una strada di territorio, qualità e piacevolezza da cui non si torna più indietro».