Federico Martinotti, Cento anni di spumantistica italiana
Pioniere del Metodo Italiano, Federico Martinotti ha contribuito a rivoluzionare l’enologia nazionale. Atti e conclusioni di un incontro in sede nazionale ONAV che ha consentito di conoscere meglio questo importante scienziato e di ripercorrere le tappe delle sue ricerche
Una intera giornata, quella dello scorso 21 dicembre, dedicata alla figura professionale e di scienziato di Federico Martinotti (1860 1924), tra le più brillanti e innovative menti dell’enologia italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento. Direttore della Regia Stazione Enologica di Asti, una delle istituzioni di ricerca più avanzate nel campo dell’enologia dell’epoca, si dedicò allo studio e al miglioramento delle tecniche di spumantizzazione, ottimizzando la produzione e garantendo una maggiore qualità dei vini frizzanti. Nel 1895 sviluppò un sistema innovativo per la fermentazione dei vini spumanti in grandi recipienti a pressione (autoclavi), che permise di controllare meglio il processo, ridurre i tempi di produzione e ottenere vini freschi e aromatici, perfetti per varietà come il Moscato o il Glera. Successivamente, il metodo fu industrializzato e perfezionato dall’ingegnere francese Eugène Charmat nel 1907, motivo per cui è noto a livello internazionale come Méthode Charmat-Martinotti. A moderare la giornata, il professor Vincenzo Gerbi, presidente del Consiglio Scientifico di ONAV, con la partecipazione del presidente ONAV Vito Intini e del direttore Francesco Iacono. Di assoluto valore, poi, il parterre di partecipanti, a cominciare dal Sindaco di Asti Maurizio Rasero, Giusi Mainardi (Direttore responsabile OICCE Times Rivista di Enolo gia), Antonella Bosso (Dirigente Tecnologo CREA-VE), Andrea Desana (Presidente Comitato Casale Monferrato Capitale della DOC), Pierstefano Berta (Direttore OICCE), Enzo Cagnasso (Professore dell’Università di Tori no), Diego Tommasi (Direttore del Consorzio Tutela Conegliano Valdobbiadene Superiore) e Giacomo Pondini (Direttore Consorzio Asti e Moscato d’Asti DOCG). Proprio in apertura dei lavori il Sindaco di Asti ha ricordato la fondamentale importanza della figura di Martinotti nel sottolineare e promuovere l’identità e l’economia vitivinicola del territorio astigiano, giacché, ha tenuto a precisare «in assenza dei suoi studi e della sua invenzione, molte delle aziende vitivinicole della nostra provincia oggi non esisterebbero». «L’insegnamento di Martinotti è oggi come allora attuale – gli ha fatto eco Andrea Desana – e tutte queste ricorrenze celebrative dovrebbero, attraverso il ricordo dei suoi lavori, migliorare e incrementare la nostra visione del futuro. Tante sono le ma nifestazioni a ricordo di Martinotti e degli altri protagonisti dei vini di questo territorio piemontese; la speranza è quella di portare alla creazione di un Istituto dello spumante italiano sotto il segno degli insegnamenti di Martinotti, che unisca la maggior parte del la produzione spumantistica nazionale». Più articolati, infine, gli altri interventi che riper correremo, qui di seguito, relatore per relatore e argomento per argomento.
GIUSI MAINARDI Direttore responsabile oiCCe times rivista Di enologia Federico Martinotti: biografia di uno scienziato del vino
«La grande enologia – ha affermato subito la Direttrice di OICCE Times Rivista di Enolo gia – la fanno le grandi persone, grazie a una visione lucida degli obiettivi e dei passi per raggiungere questi obiettivi». Questo l’incipit di un intervento tutto concentrato sulla storia e gli aneddoti della vita, privata e professionale, di Federico Martinotti. Nato a Villanova Monferrato il 3 giugno del 1860 e figlio del medico del paese, aveva un fratello più giovane che diventerà medico e preside della Facoltà di Medicina di Bologna. Dopo la maturità Classica, Martinotti frequenta, per soli due anni, la facoltà di medicina per passare poi a quella di chimica e farmacia, sempre a Torino. Nel 1887 si laurea diventando, l’anno successivo, ricercatore presso la Regia Stazione Agraria del capoluogo. Franz Koenig, Direttore della Stazione Agraria di Torino, lo incarica delle analisi dei mosti del Casalese, studio integrato da altri lavori, condotti perlopiù in proprio in fondi di famiglia, sulla viti coltura della zona. Nel 1891, tali documenti e testimonianze, vengono pubblicate sul Giornale Vinicolo italiano, primo settimanale na zionale di viticoltura ed enologia. Le esperienze, nel casalese e a Villanova, su vitigni francesi, italiani e americani lo portano ad abbracciare la soluzione dell’innesto su vite americana per scongiurare gli effetti della fillossera, e a comprendere i motivi della scarsa qualità dei vini prodotti, essenzialmente legata a vendemmie troppo anticipate e un uso non efficiente dei vitigni locali, a cominciare proprio dal Grignolino, varietà per lui essenziale del casalese. Aveva approfondito lo studio sui coadiuvanti enologici, un nuovo filtro pastorizzatore, più moderne pigiatrici e un apparecchio per la distillazione del vino e delle vinacce; tuttavia, il soggetto centrale, fin da quegli anni, furono i vini spumanti. Nel 1895 arriva all’ideazione e al brevetto di un apparecchio rapido per la produzione di vini spumanti e, il 18 dicembre 1899, verrà nominato membro della Regia Accademia di Agricoltura di Torino. Da questa posizione partecipa al concorso per la direzione della Regia Stazione Enologica Sperimentale di Asti, sbaragliando gli altri 9 concorrenti nella nomina finale. Nel 1902 organizza corsi di istruzione agraria nei comuni del cir condario durante i sabati e le domeniche, portando la cultura del vino e dell’enologia a vari livelli. Nel 1906 svolse, grazie ai fondi della Regia Stazione di Asti,esperienze di ricostituzione dei vigneti post fillosserici, quindi si adoperò in considere voli acquisti di volumi tecnici per la bibliote ca della Stazione, con abbonamenti a giornali specializzati anche d’Oltralpe. Un altro aspetto di fondamentale rilievo per Martinotti era, infatti, l’aggiornamento scientifico, condot to grazie alla collaborazione del ricercatore Carlo Mensio, in seguito primo Presidente di ONAV, trasmettendo nel territorio e tra i produttori tutti gli aggiornamenti tecnici e scientifici del momento. La Stazione, secondo Martinotti, doveva conoscere alla perfezione l’industria enologica per dare, alle cantine, ri sposte concrete ed economicamente sostenibili. Tra le tante attività, progettò lui stesso una sede più grande per la Stazione, quella dove oggi si trova il CREA, con lavori iniziati nell’estate del 1911 e finiti l’anno successivo.In questa sede volle dei laboratori e una cantina razionale per la produzione di vini e spumanti, con annesso magazzino di macchinari. A questi luoghi, aggiunse un impianto frigorifero per la lavorazione delle uve, il primo per la zona, e un apparecchio per vaporizzare le botti che la Regia Stazione affittava a chi ne facesse richiesta.Già dai primi anni di attivazione, que sta sezione di analisi acquistò grande prestigio in tutto il Paese e a Martinot ti vennero affidati molti incarichi nazionali che gli valse ro, nel 1909, il titolo di Cavaliere dell’Or dine della Corona d’Italia. «Martinotti – ha concluso la Direttrice Mainardi – è stato un tecnico e un teorico preparato che non ha mai perso il contatto con la realtà e le prati che enologiche di tutti i giorni; come lo definì Carlo Mensio, “un piemontese del vecchio stampo, uomo integerrimo di onestà scrupolosa di probità scientifica assoluta”».
ANTONELLA BOSSO Dirigente teCnologo Crea-ve Studi e ricerche di uno sperimentatore coraggioso
L’intervento della Dirigente del Crea Antonel la Bosso si concentra, invece, sulla produzione tecnico-scientifica di Martinotti, sulla sua visione da sperimentatore e innovatore, non solo nella produzione di spumanti, ma anche in altri e cruciali aspetti dell’enologia. «La produzione di documenti tecnici e scientifici – esordisce Bosso – fu notevole e si pensa che abbia raggiunto il centinaio di pubblicazioni. La sua notorietà, tuttavia, era ed è ancora oggi legata principalmente agli studi sugli spumanti di cui divenne uno dei più importanti esperti».Martinotti è famoso per avere introdotto la tecnica di elaborazione dei vini spumanti in autoclave, innovativa rispetto a quella classica della rifermentazione in bottiglia, sebbene la prima idea di sostituire alla rifermentazione in bottiglia con quella in gran di vasi chiusi spetta a Rousseau e Brillé, nel 1851, i quali impiegarono botti di legno rinforzate con cerchi di ferro (enofori) e poi, nel 1858, a Edme Jules Maumené, un professore di Reims che utilizzò recipienti cilindrici in rame argentato (afrofori). In Italia, prima del Martinotti, Francesco Koening, direttore della Regia Stazione Enolo gica di Asti, aveva avviato alcune sperimentazioni, finite presto interrotte a causa della sua prematura scomparsa; un lavoro, tut tavia, di cui Martinotti si limita a citarne la tecnica senza una descrizione precisa. Della produzione di spumante nei cosiddetti afro fori riferiscono anche Arnaldo Strucchi (stu dioso, divulgatore che aveva maturato una notevole esperienza come tecnico alla Cora di Costigliole e alla direzione della Gancia di Canelli) e Mario Zecchini (direttore della Regia Stazione dal 1895) nella loro monografia Moscato di Canelli del 1895. Gli Autori trattano anche di un metodo già impiegato per la spumantizzazione dei vini secchi in grandi recipienti: probabilmente il metodo Carpenè che consisteva nell’aggiunta di anidride car bonica esogena e artificiale. Lo stesso anno della pubblicazione della monografia sul Moscato, Martinotti brevettava in Italia, Francia e Svizzera un apparecchio e un procedimento per la fabbricazione continua dei vini spumanti. Tre le autoclavi di questo sistema (A, B e C), tutte in ferro smaltato, di capacità identica e resistenti a 8 atmosfere di pressione. L’autoclave A era posta in un ambiente destinato alla fermentazione del vino, quindi con una temperatura adatta, mentre le autoclavi B e C, destinate alla chiarifica e a ricevere il vino filtrato, erano sistemate in un altro ambiente convenien temente raffreddato. Tali recipienti in ferro richiedevano un rivestimento interno, quindi dapprima si è provato a stagnarli, ma gli scar si risultati hanno condotto all’impiego di ver nici che, viceversa, avevano una breve durata. Si è quindi provato a smaltarli, ma l’inconve niente di tale processo stava nella delicatezza e, se per qualche motivo la smaltatura veniva compromessa non era più possibile eseguir ne una nuova. Il rivestimento con cemento, già usato nei tini in muratura, aderiva beneal ferro e presentava il suo stesso coefficien te di dilatazione, in modo da scongiurare di stacchi e screpolature, perciò venne utilizzato anche per le autoclavi di fermentazione risolvendo, momentaneamente, il problema: i procedimenti dovevano essere pratici ma an che economici. Le uve utilizzate erano perlopiù Moscato e, ai tempi di Strucchi e Zecchini (1895), venivano prodotte due tipologie di Moscato, entram be con rifermentazione in bottiglia: il Moscato semplice e il Moscato Champagne. Nel primo, al termine della rifermentazione in bottiglia, non venivano effettuati remuage e dégorgement, ma un semplice travaso in una seconda bottiglia. Il vino non era molto limpido, ma neanche così torbido, tuttavia con il travaso veniva dispersa una considerevole quantità di acido carbonico, ma dato che nel vino era ancora disciolto dello zucchero, da lì a poco la fermentazione sarebbe ripresa con un incremento delle bollicine. Nel caso di impianti già esistenti, Martinotti suggeriva di valutare se adottare la nuova ap parecchiatura o continuare con la rifermentazione in bottiglia, sostituendo la lavorazio ne sulle pupitres con un apparecchio per il travaso da lui inventato. Al contrario, il Mo scato Champagne era prodotto con la com pleta rifermentazione in bottiglia, compresi il remuage e la sboccatura. L’attività del Martinotti, però, non fu limi tata all’ideazione e al perfezionamento del processo di elaborazione dei vini spumanti in autoclave, ma coinvolse anche Studi sulle tecnologie del processo di lavorazione di uve e di vini e ricerche sul campo vinicolo, da cui emerge l’attualità della sua opera, l’attenzione ai temi della sostenibilità economica e sociale, il recupero dell’etanolo dalle vinac ce fermentate per la produzione dei secondi vini (vinelli) e le prove di concentrazione dei mosti per congelamento e per evaporazione sottovuoto per la produzione di sciroppi (65% di zucchero) e di miele di uva (80% di zucchero). Il congelamento era vantaggioso per la qualità del prodotto e consentiva di al lontanare l’acido tartarico per precipitazione(non occorreva quindi disacidificare), ma era poco efficiente per la concentrazione. Effettuò prove di abbinamento di questa tecni ca con la concentrazione sottovuoto per la produzione di prodotti di particolare qualità utilizzati dalle confetterie di Torino per la loro finezza. Collaborò, infine, durante il proibizionismo, con la cantina Calissano, alla realizzazione di un vino senza alcol con la realizzazione di un metodo per la produzione di vino Moscato spumante e di un Vermouth senza alcol de stinati al mercato statunitense. Tra le pubblicazioni non mancarono appro fondimenti sull’uso dei concimi, la fabbrica zione del mangime per i bovini, la diffusione dei portinnesti americani, lo studio sulle tecniche di innesto e l’adattamento dei vigneti “stranieri” nel Monferrato. Fu anche membro della Commissione Consultiva per la Fillosse ra e nel 1910 si fece promotore della nascita di un Consorzio Antifillosserico per provve dere alla fornitura delle barbatelle innestate su piede americano. Come già accennato nel precedente inter vento, fu sempre vigile l’attenzione del Martinotti alla praticità delle lavorazioni: solo per fare un esempio, fece montare su un carro a due ruote, trainato da un cavallo, una pi giatrice Garolla, mossa da un motore a benzina, in modo da dimostrare i vantaggi delle macchine per questa attività e diffondere la pratica della pigiatura meccanica e tutte le migliori innovazioni partendo dal basso.
PIERSTEFANO BERTA Direttore oiCCe, organizzazione interprofessionale per la ComuniCazione Delle ConosCenze in enologia
Lo spumante italiano tra XIX e XX secolo Il Direttore dell’OICCE ha ripercorso la storia della spumantistica italiana; in realtà, come ha tenuto a precisare, «tre storie di verse che si intrecciano, si uniscono e si separano con momenti più o meno positivi». Le tappe fondamentali sono rappresentate, nel 1810, da Antoine de Müller, tedesco e impiegato della vedova Nicole Clicquot-Pon sardin che modifica il procedimento di decantazione dal fianco alla punta. Poi il vino perso viene rimpiazzato da una liqueur di vino e zucchero e qui, secondo Berta, nasce realmente il Metodo Champenoise. Nel 1815 il gusto dello Champagne è ancora orientato sul dolce: 250-300 g/l per la Russia, 200 per la Scandinavia, 180 grammi per i tedeschi, 150-170 per la Francia, 110-160 per gli Stati Uniti ma 22-66 per l’Inghilterra. Nel 1826, per la prima volta si producono vini spumanti fuori dalla regione della Champagne e fuori dalla Francia: in Germania Georg Christian Kessler (Würtemberg) inizia a produrre spumanti Metodo Classico. Nel 1839 i primi passi in Piemonte. A Verduno, il 21 dicembre 1841, il Generale Staglieno scrive che desidera «appagare il gusto delle Loro Altezze Reali con un vino bianco spumeggiante come quello della Sciampagna». Si inizia la produzione industriale di spumante in Piemonte a Pollenzo. Nel 1846 la cantina Moscatello a Santa Vittoria d’Alba è il primo centro di produzione di Metodo Classico in Italia. La struttura è im ponente, con una grande galleria principale lunga 80 metri e 30 gallerie secondarie che si dipartivano da questa, ognuna lunga 32 metri: dentro 80mila bottiglie in affinamen to. L’attività di produzione dello spumante è promossa da Re Carlo Alberto, ma il figlio Vittorio Emanuele II non ne è interessato e non prosegue nell’avventura, così gli stabi limenti vennero prima affittati e poi venduti a Cinzano. L’esperienza di Pollenzo mise in evidenza che, per fare vini di qualità, ci volevano allora come oggi il capitale, le competenze tecniche e le attrezzature moderne. Negli anni Settanta dell’Ottocento si creano società enologiche che raccolgono fondi dagli azionisti per costruire edifici e assumere tecnici per la produzione di vini e di spumanti. Sorgono stabilimenti ad Asti, Acqui e Canelli, ma manca la conoscenza del mercato e non esiste una rete di vendita. Nel 1873, alla Fiera di Vienna il tecnico e pro duttore Giovanni Boschiero scrive che «i po chi vini spumanti italiani furono trovati inferiori a quelli di Francia, Germania e Austria, abbenché si riconosca che la materia prima non sia inferiore». Nel 1880 si esauriscono le esperienze dell’a zionariato e, ad esempio, l’Unione Enofila di Asti, già Società Vinicola Italiana, chiude i battenti e vende gli stabilimenti di Acqui alla Beccaro e quelli di Canelli alla SAS Soc. An. Strucchi & f.lli Gancia, aziende di esperienza per la vendita del Vermouth di Torino,con conoscenza dei mercati e capaci di intraprendere una produzione industriale di spumante. Il 14 febbraio del 1888, durante la dodicesima Fiera di Vini Italiani di Roma, nella sezione “vini da dessert” la commissione proclama al secondo posto i vini dei fratelli Beccaro di Acqui. Sempre nel 1888, viene conferito il Diploma di medaglia d’oro all’Asti Spumante di Gancia Fratelli di Canelli e, sul versante comunicazione, Ottavi scrive sul Giornale Vinicolo Italiano una serie di articoli sulla fabbricazione del vino spumante «aderendo così – affermerà – al desiderio di parecchi lettori di questo giornale». La relazione della giuria durante il concorso all’Esposizione di Londra del 1888 scrive: «l’Italia ha in questa esposizione sfidato le pretenzioni della Champagne e siamo dell’opinione che non pochi dei suoi vini spumanti imporrano in avvenire rispettosa considerazione anche al tremendo esercito dei fortunati produttori del paese di Sciampagna. Questi vini nella maggior parte sono stati preparati con cura e posti in commercio in modo lodevole». Nel 1900, alla Fiera di Parigi troviamo i seguenti spumanti: Moscato Spumante di G. Giovine e figlio di Canelli, Moscato Spumante di G. Contratto, sempre di Canelli, Moscato Spumante di Antonio Cocito di Castagnole Lanze, Moscato Spumante L. De Giovannini di Bra, Moscato Spumante Cinzano di Vittoria d’Alba, Moscato Spumante di J.P. Emilio Frey, Moscato Spumante Secco dei Fratelli Sacchero di Canelli, gli Asti Spumante di Ved. Curadelli e figlio, Gherlone e Rossi e Fratelli Gancia, due Moscato Champagne dei Fratelli Cora e ancora dei Fratelli Gancia e un generico Spumante di Calissano e figli. Alla fine del secolo la tecnologia del freddo approda in cantina per la produzione della tipologia e precursore è il già citato Federico Martinotti. Negli stessi anni si fa largo la tecnica dell’aggiunta di carbonica artificiale di Antoni Carpené, mentre ne 1895 viene brevettato il “metodo rapido” di Martinotti. Nel 1898, il contratto tra Casa Gancia e Fede rico Martinotti prevede a carico dello scienziato la costruzione dell’apparecchio prototipo e suo trasporto a Canelli, comprese le istruzioni verbali e scritte e gli eventuali spostamenti dell’enologo a Canelli. A carico di Gancia troviamo l’adattamento locali, la costruzione degli impianti e 6 bottiglie per ogni test. La cessione dell’uso esclusivo a Gancia durava 8 anni, dietro il compenso di 4.000 lireall’anno, a oggi circa 18 mila euro. All’inizio del Novecento, per la produzione di spumante italiano sorge il problema delle denomi nazioni e dei nomi, anche rispetto ai metodi utilizzati. Nel 1906 si cominciò a rinunciare al termine Champagne e Ottavi scrive: «pochissimi in Italia si servono dell’espressione Champagne. I più scrivono Spumante, o se è il caso Asti Spumante o Moscato spumante, al qual ultimo prodotto i giurati francesi fecero una vera festa, riconoscendone la finezza del tipo e l’inappuntabile modo di presentazione… la parola Champagne va lentamente scomparendo, adottando ormai quasi tutti la denominazione Spumante». Alberto Contratto, nel 1923, propone di di stinguere lo spumante italiano in tre gruppi: Gran Spumante, ovvero con il sistema classico dei vini di Champagne, Spumante, prodotti con il sistema misto della fermentazione in bottiglia e poi la filtrazione o la fermentazio ne naturale in grandi recipienti e gli Spumanti artificiali ottenuto con aggiunta dell’anidride carbonica. Questo schema entrerà nella normativa di cui ancora oggi siamo eredi.
ENZO CAGNASSO professore Dell’università Di torino Metodo Martinotti e Metodo Classico.
I due stili della spumantistica italiana Al Professore Cagnasso l’arduo compito, come lui stesso l’ha definito, di fare “l’avvo cato del diavolo” parlando di Metodo Classico in un consesso in cui si approfondisce il Metodo Martinotti. «Con il Metodo Classico e il Metodo Martinotti – esordisce – abbiamo i due stili della spumantistica italiana. Sono differenti e nessuno dei due è migliore dell’altro, con la grande differenza che sta nel metodo di rifermentazione in grandi o piccoli contenitori». A prescindere dal metodo, come tutti i prodotti enologici, la qualità dello spumante è legata a molti fattori: varietà delle uve e loro maturazione, caratteristiche del vino base, le condizioni della seconda fermentazione, qualità e caratteri dei lieviti, temperature di lavorazione e, soprattutto, durata e modalità dell’affinamento sur lie. In particolare, il tempo di contatto con i lieviti è considerato un fattore rilevante per la qualità del prodotto finale. Tale fase, infatti, si caratterizza per l’autolisi delle cellule di lievito correlata a profonde trasformazioni biochimiche e chimiche. Gli effetti di questi processi di degradazione dipendono dalla superficie di contatto liquido-fecce, le temperatura e il tempo di contatto (in bottiglia, ad esempio, questo strato è sottile e la superficie di contatto molto rilevante in relazione al volume del contenitore stesso; nei grossi tini, viceversa, i lieviti formano sul fondo strati più spessi con diminuzione della possibilità di contatto, garantito in tal caso solo dalla risospensione delle fecce). Nei primi tre mesi di contatto succede poco o nulla e la cellula tende a cedere amminoacidi; dopo i tre mesi, invece, inizia l’autolisi vera e propria, ossia la degradazione della parete cellulare (85-90% sul secco, mannoproteine e β-glucani). Il vino, poi, non è un ambiente così favorevole all’autolisi, che prosegue lentamente anche dopo 60 mesi favorendo il rilascio dei contenuti citoplasmatici (degradazione della membrana plasmatica) come amminoacidi, polisaccaridi, lipidi e nucleotidi, con incremento di peptidi, proteine e polisaccaridi. Queste modificazioni appena accennate andranno a influenzare l’effervescenza. La stabilità della schiuma è legata alla stabilità delle bollicine dovuta alla natura dell’interfaccia gas-liquido dove agiscono positivamente le proteine, i peptidi, i polisaccaridi e gli acidi grassi con la stabilizzazione del film che racchiude il gas delle bollicine. Nel Metodo Martinotti la risospensione dei lieviti è fondamentale per accelerare tutti questi processi. Da un punto di vista aromatico, durante l’affinamento sui lieviti, abbiamo un deciso processo evolutivo caratterizzato da reazioni chimiche molto lente come l’idrolisi (esteri di fermentazione, forme glicosidiche che liberano aromi), l’esterificazione (formazione di questi esteri a carico degli acidi fissi) e reazione che, potremmo definire, di trasformazione con “riarrangiamenti” molecolari aci do-catalizzati (aromi varietali). Il tempo di maturazione sui lieviti condiziona così tutto il profilo olfattivo: da sentori di fiori e frutta di passa a odori più maturi e aumentano poi gli esteri di acidi fissi, il dietil succinato (riconoscimenti fruttati), i norisoprenoidi come il TDN e i vitispirani isomeri (marker di invecchiamento con odori di frutta matura, spezie, legno di cedro, resine ecc.).In sintesi, possiamo dire che fino a 24 mesi prevalgono i sentori freschi di fiori bianchi, agrumi, frutta a polpa bianca, frutti rossi, mentre dopo i 24-36 mesi emergono sentori di frutti a polpa gialla, frutta secca e sotto spirito, miele, pasticceria, crosta di pane, spezie e sottobosco. Tornando alle tecniche, infine, dobbiamo puntualizzare, conclude Cagnasso, che il Metodo Martinotti esalta l’espressione varietale dell’uva, le sue aromaticità prima rie se vogliamo, mentre il Metodo Classico o Tradizionale sottolinea la complessità del rapporto uva/vino/maturazione sur lie.
DIEGO TOMMASI Direttore Consorzio tutela Conegliano valDob biaDene proseCCo superiore
Il legame tra il Metodo Martinotti e il viti gno Glera Proprio l’ultimo concetto espresso dal pro fessor Enzo Cagnasso rappresenterà il cuore dell’intervento del Direttore del Consorzio Tutela Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Diego Tomasi. La trattazione parte subito dalla figura di Antonio Carpenè (1838 1902) che, al pari di Martinotti, era laureato in chimica e farmacia e, come lui per l’Asti, è stato il padre del Prosecco. Siamo negli anni in cui le colline verticali di Valdobbiadene venivano messe a coltivazione formando quei ciglioni oggi riconosciuti patrimonio Unesco. Carpenè, all’epoca, si arrovella con questi quesiti: la Francia, da secoli, con l’industria dei suoi spumanti produce tanta ricchezza; la Germania, meno favorita dalla natura rispetto all’Italia, ha compreso ugualmente il lucro che si può ottenere dalla tipologia, sviluppando il settore al punto che, nel 1850, contava 43 fabbriche e nel 1873 oltre 50, fi gurando all’ultima Esposizione Universale di Vienna per il merito dei suoi prodotti vicina alla Francia. In termini di numeri, all’epoca di Antonio Carpenè, la Francia produceva annualmente dalle 20 alle 22 milioni di bot tiglie di Champagne e la Germania 5 milioni di Spumante. In Italia, invece, la tipologia era invece trascuratissima, anzi quasi nulla se si eccettuano i vini spumanti di Asti. Nel Veneto, poi, magra consolazione per il fondatore della Scuola Enologica di Cone gliano, quest’“industria” del vino non si conosceva affatto, sebbene la gran parte delle colline regionali coltivate con uve a bacca bianca, profumate e con vini dall’8 all’11% di alcol, si sarebbero prestate a meraviglia per la realizzazione di un ottimo vino spumante. Da queste riflessioni nasce l’idea di utilizzare l’acido gas carbonico e brevettare un sistema che ne prevedeva l’addizionamento al vino tramite un generatore di gas acido carbonico, un gasometro, un tino di rame stagnato internamente, una pompa aspirante e premente e un tino-frigorifero per contenere il materiale. Nonostante il premio di incoraggiamento di 1.500 lire concesso dall’Industria Veneta e la fondazione della società Enochimica Trivigiana, il metodo non si rivela così efficiente, scontrandosi poi con quello più efficace di Martinotti. Il figlio di Antonio Carpenè, Etile, inserirà poi con il Glera, allora Prosecco, il concetto di varietà e di luogo di produzione, abbracciando, tuttavia, per la produzione un sistema Martinotti adattato. Mentre, solo nel 1939, il figlio Antonio, suo successore, applicherà per l’intera produzione di Prosecco il Metodo Martinotti. Il Glera è una varietà semi aromatica che non cambia molto tra i cloni: è sensibile e i suoi risultati enologici mutano a seconda della collina (parte alta o media) con differenze anche negli odori e nelle diverse espressioni. Anche la pendenza del vigneto incide, così come la composizione del suolo. Tutti aspetti che oggi si possono apprezzare con la qualità del Cartizze e delle Rive. Il metodo Martinotti sa conservare perfetta mente il varietale di questa uva e le sue de clinazioni, con un effetto del lievito minore rispetto al Metodo Classico. «Il Metodo Martinotti valorizza il Glera – conclude Tomasi – e il territorio di Conegliano e Valdobbiadene è riconoscente a questo metodo che, oggi più che mai, andrebbe chiamato Metodo italiano».
GIACOMO PONDINI Direttore Consorzio asti e mosCato D’asti DoCg Attualità e prospettive del Metodo Martinotti
Al direttore del Consorzio Asti e Moscato d’A sti DOCG, Giacomo Pondini, l’onere e l’onore della chiusura e del tirare le fila del discorso attorno allo Scienziato. «La figura di Marti notti – ha puntualizzato – è sempre centrale e presente nelle nostre presentazioni stori che delle denominazioni e del territorio.È il padre non solo di una tecnica, ma di una serie di vini unici che, in anni non sospetti, hanno fatto l’enologia italiana». Sul tema il Consorzio si sta adoperando nel recuperare del materiale storico inerente alla spumantistica e alla normativa vitivinicola italiana. Un carteggio ricco e copioso in cui tanti aspetti, non solo tecnici, vengono ampiamente trattati. Ad esempio, è stata rinvenuta una documentazione risalente a metà degli anni Ottanta del Novecento, che disquisiva sulla tematica del mancato uti lizzo della dicitura Metodo Martinotti an ziché Metodo Charmat. Un carteggio “nobile”, verrebbe da dire, tra Renato Ratti e il senatore Paolo Desana, in cui il politico sostiene il non utilizzo del termine riferito a Martinotti per il carattere di quest’ultimo. Martinotti, scrive Desana, era allora ingab biato nel suo ruolo di impiegato statale, al contrario di Eugène Charmat (1867-1944), enologo e ingegnere più libero di completare l’opera. Sembra quindi sia stato un problema quasi burocratico, aspetto che, allora come oggi, contraddistingue anche troppo tutto il sistema vitivinicolo nazionale.