Alla guida di Andreola, azienda che in quarant’anni ha contribuito alla crescita della DOCG, Pola è oggi un faro anche per il futuro
Quarant’anni fa, Nazzareno Pola fondava An dreola nell’areale del Conegliano Valdobbia dene. Un’azienda che ha visto crescere as sieme a suo figlio Stefano, da sempre legato al padre e all’attività vitivinicola. Una forma zione “sul campo”, forse più significativa di qualsiasi corso teorico, ha portato Stefano a rendere l’attività di famiglia un vero e proprio punto di riferimento sul territorio, con scelte audaci, pionieristiche e spesso fuori dal coro. Dal 2019, al suo fianco c’è il giovane enolo go Mirco Balliana, formatosi all’università di enologia di Padova, con il quale condividono il lavoro quotidiano in azienda e anche parte delle risposte di questa intervista.
Quando nasce l’enologo Stefano Pola? «La passione per il vino nasce fin da picco lo, aiutando mio padre Nazzareno in semplici operazioni di cantina e vigneto; poi, con gli anni, acquisendo consapevolezza del dovere di portare avanti una tradizione di famiglia. Così, il legame con il vino è divenuto indissolubile».
Hai avuto, o hai ancora oggi, un mentore o una figura di riferimento? «Mio padre resta per me un esempio assoluto, in virtù della passione e della dedizione che ha sempre messo nel proprio lavoro».
La tua azienda ha compiuto quest’anno 40 anni. In che modo ha contribuito in questo tempo a disegnare il territorio del Valdobbiadene DOCG?
«In realtà, più che un duplice traguardo mi piace vederla come una tappa. Dopo 40 anni, si arriva a quel momento in cui ci si guarda indietro e si vede tutto il percorso svoltosi negli anni. L’unica cosa che mi viene da dire è che sono contento: la strada maestra era ben battuta e la direzione presa evidentemente era quella corretta se oggi siamo ancora qui a parlare di qualità. Abbiamo sviluppato notevolmente l’azienda su più fronti, fino a renderla un punto di riferimento qualitativo per una denominazione importante come il Valdobbiadene DOCG e le sfide all’orizzonte sono ancora molte. Abbiamo intrapre so, infatti, anche nuovi progetti che vedono coinvolte altre attività ed altre aree… quindi, come dico di solito, “Avanti tutta!”. Oltre all’a zienda, anche la nostra prima etichetta com pie quest’anno 40 anni e, ovviamente, siamo molto felici anche di questo. Una cosa che mi piace sempre ricordare è che Dirupo è diven tato un nome talmente conosciuto negli anni che, in alcuni casi, ha superato l’importanza del brand: alcune persone vogliono, comprano e bevono “Dirupo” senza necessariamente essere a conoscenza che il produttore sia Andreola. È un aspetto molto significativo, che testimonia l’importanza di un prodotto all’interno di un’azienda. Una piccola parentesi voglio aprirla invece proprio in contrapposizione a questa etichetta, perché oggigiorno siamo divenuti una delle aziende più famose per la produzione di menzioni “Rive” da sin gola vigna, direzione che ci dà l’opportunità di mostrare le diverse sfumature territoriali che il Valdobbiadene DOCG può avere. Quindi, se questo rappresenta un lato della me daglia della nostra produzione, dall’altro ci tengo a precisare che di egual importanza è per noi portare avanti il concetto di cuvée di territorio, ovvero la nostra etichetta di “Di rupo”. Perché con le singole vigne in menzione Riva mostriamo dei caratteri ben distin ti, mentre con Dirupo mostriamo come essi possano fondersi nella ricerca della massima complessità gustativo-olfattiva e nella piacevolezza stessa; e devo dire che ci riesce molto bene, anche grazie al fatto che ormai abbiamo annesso vigne da diverse aree della denominazione, quindi a tutti gli effetti per noi Dirupo rappresenta la perfetta sintesi dell’annata per la nostra denominazione racchiusa in bottiglia».
In quali aspetti individui la ricchezza di questo territorio? «Sicuramente nella diversità: di suoli, altitudini ed esposizioni che, in combinazione con la versatilità del vitigno Glera, danno delle sfumature incredibili e rendono possibile la creazione di spumanti che possono variare dalla categoria Extra Brut ai Dry».
Quali, di contro, ritieni siano punti deboli sui quali bisognerebbe lavorare? «Bisogna sempre di più cercare di lavorare con una visione futura e non per risolvere i problemi del passato. Su questo siamo ancora poco lungimiranti, parlando di area e di mentalità collettiva: dovremmo prendere più spunto da chi fa meglio di noi».
Quest’anno hai fatto una scelta radicale: eliminare dalle tue etichette il termine Prosecco per eludere la possibile “confusione” con il Prosecco DOC. È un aspetto sul quale state lavorando anche a livello consortile? Come sono le posizioni degli altri tuoi colleghi in merito?
«Il tema del nome è molto caldo in questo momento: la parola “Prosecco” ci ha resi famosi in tutto il mondo, ma per che cosa? A ogni azienda la propria interpretazione. Noi abbiamo deciso da anni di chiamare il nostro prodotto con il nome del territorio, così che possa essere riconducibile a un’area di origine riconosciuta come qualitativamente superiore. Se prima della creazione dell’odierna denominazione nel 2009 abbiamo girato il mondo per far conoscere cosa fosse il nostro prodotto, ora dobbiamo muoverci per far capire le differenze che intercorrono tra un Prosecco di pianura e un Valdobbiadene DOCG di collina; ovvero, tra un prodotto che ha comunque senso di esistere per certi segmenti di mercato e una nicchia qualitativa. Da un lato, i produttori più anziani sono profondamente contrari, perché è un nome che è stato reso famoso in Conegliano Val dobbiadene, e doverci rinunciare risulta essere una grande sconfitta morale: consegna re una Ferrari chiavi in mano a dei produttori nati mediamente più tardi e che ora possono beneficiarne tranquillamente, è difficile da accettare… Alcuni estremisti, nonostante siano trascorsi ormai 16 anni, ancora la vivono come un vero e proprio “furto”, sebbene sia stato l’unico modo possibile per circoscrivere un’area di produzione. Per quanto riguarda Andreola, la nostra scelta è stata abbastanza a cuor leggero, nel senso che abbiamo preso la situazione di petto e, in tutta onestà, abbiamo pensato di non voler più essere ricondotti a tutto quello che sta succedendo nell’ormai vasto mondo Prosecco, dove tutto è troppo banalizzato e generalizzato, per non parlare della reputazione che ha e della quale abbiamo già parlato prima. È stata una scelta forte, ma in tutta onestà sta dando i suoi frutti: i nostri clienti ci identificano come un’azienda fuori dal coro, produttori della zona storica che fanno una viticoltura eroica e per i quali negli anni hanno anche accettato un posizionamento di prezzo diverso. Certo, abbiamo anche noi avuto i nostri problemi e difficoltà, ma possiamo dire di essere momentaneamente felici di questo cambio di direzione: un’opzione legalmente utilizzabile che abbiamo fatto bene a intraprendere. Molte aziende sono spaventate al solo pensiero di dover to gliere la parola “Prosecco”, ma, in tutta since rità, credo che ognuno debba farsi il proprio esame di coscienza: se negli ultimi 30 anni, come strategia commerciale nel mondo, abbiamo abbinato la parola “Prosecco” scritta a caratteri cubitali a un prezzo conveniente, allora, sì, c’è da essere preoccupati; ma se invece si è seminato il verbo del territorio, di una viticoltura eroica e di un prodotto qualitativo fatto a mano spendendo qualche parola in più, allora il messaggio potrebbe essersi anche consolidato e la parola “Prosecco” non più necessaria».
Abbiamo parlato molto di viticoltura eroica sulla testata L’Assaggiatore e conosciamo le difficoltà che essa riserva, ma quali sono gi aspetti più salienti che coinvolgono le Rive di Valdobbiadene?
«La viticoltura eroica in quanto tale racchiude in sé parecchie sfide. Partendo dalle basilari che sono in realtà comuni a qualsiasi altra coltura, come per esempio i cambiamenti climatici, posso dire che alcune zone stanno diventando molto difficili da coltivare. In secondo luogo, la difficoltà nel trovare personale per svolgere le mansioni di gestione della vigna sta diventando sempre più ingente; purtroppo, in agricoltura si seguono ritmi dettati dalla natura che le nuove generazioni fanno fatica ad accettare, oltre che alla fatica stessa delle lavorazioni manuali. Per esempio, d’estate il viticoltore medio si sveglia molto presto per evitare di lavorare nelle ore più calde e cerca di tornare in vigna alla sera con temperature un po’ più vivibili, e questo sembra non più conciliabile con le esigenze di alcuni dipendenti. In altri casi, soprattutto negli ultimi anni, dove, per esempio, abbiamo avuto delle primavere molto piovose, le aziende viticole richiederebbero un certo tipo di flessibilità: se per tre-quattro giorni consecutivi non siamo riusciti a entrare in vigna a causa delle precipitazioni e le giornate di bel tempo cadono durante il weekend, bisognerebbe avere tutti l’onestà intellettuale di capire quando intervenire con le operazioni più urgenti, in quei lassi di tempo che madre natura ci concede. Diciamo che, in linea di massima, il dipendente medio si sta dimenticando che la flessibilità non dovrebbe solamente essere richiesta in maniera univoca, ma è un dare-avere per garantire il benessere di entrambe le parti»
In che modo Andreola tutela e rappresenta la biodiversità del proprio territorio?
«Andreola è un’azienda dalle caratteristiche uniche, fortemente radicata nel territorio del Valdobbiadene Conegliano DOCG. Nel corso dei 40 anni di attività è riuscita a costruire, attraverso il lavoro cominciato da mio padre, un patrimonio viticolo fortemente parcellizzato e presente in tutta l’area della denominazione. Vantiamo oggi circa 110 ettari di vi gna a conduzione diretta nostra, suddivisi in circa 250 parcelle diverse per un numero va riabile di anno in anno di circa 100/150 sin gole micro-vinificazioni parcellari. Tutto ciò si traduce in un’estimabile ricchezza di bio diversità che abbiamo volutamente deciso di portare nel calice attraverso due principali vie: la prima è il nostro storico assemblaggio dal nome Dirupo, nel quale sublimiamo tutte le caratteristiche e le potenzialità che ogni zona può apportare ogni anno. La seconda via è l’esaltazione delle diversità per noi più rappresentative: nei numerosi anni di lavoro in vigna, vinificazione e studio, infatti, abbiamo individuato alcune zone, all’interno di singoli comuni o frazioni, che, oltre a presentare di anno in anno una garanzia di qualità superiore, avessero delle caratteristiche uniche da esprimere in un prodotto derivante da un singolo vigneto. Da quando, nel 2009, con l’odierna denominazione, si è presentata l’opportunità di rivendicare la menzione Rive, che sposava in tutto e per tutto il concetto che avevamo in mente per questi vini, abbiamo delineato dei prodotti che traducessero tutte le peculiarità colte nei precedenti anni di studio in vigna e in cantina. Nascono così i nostri Rive e, essendo stati tra i primi a credere in questa tipologia di prodotto e potendo scegliere da un patrimonio di diversità in vigna molto vasto, siamo oggi l’azienda che produce e imbottiglia il maggior numero di spumanti a rivendicazione Rive di tutta la denominazione, che sono oggi: Rive di Col San Martino, Rive di San Pietro di Feletto, Rive di Refrontolo, Rive di Soligo, Rive di Rolle e, se proprio volessimo assoggettarlo all’antenato primordiale delle Rive, includeremmo pure il Cartizze. Il nostro lavoro sull’esaltazione di queste peculiarità territoriali, comunque, non si è fermato e, grazie al continuo studio e ricerca dell’enologo Mirco Balliana, possiamo anticiparvi che, per questa annata, sono state rivendicate altre due sottozone: Rive di Santo Stefano e Rive di Guia, mentre la novità di quest’anno sarà il Rive di San Pietro di Barbozza»
Parliamo di mercato degli spumanti. La crisi dei consumi vi spaventa? Sta avendo effetti anche sul vostro settore? «In generale qualsiasi crisi mette preoccupazione, c’è poco da fare. L’unica cosa che ci viene da dire è che però dai momenti di crisi, per quanto bui possano essere, bisogna cercare di vederci dentro anche qualche opportunità, pensando meno all’immediato e più al lungo periodo. Si berrà meno, ma si baderà di più alla qualità intrinseca del prodotto; quindi, stiamo sfruttando il momento per cercare di fare posizionamento e per far capire al consumatore finale che i nostri Valdobbiadene DOCG sono degli spumanti di alta gamma. Andare ad abbassare prezzi in un momento dove i costi di produzione stanno invece sempre più aumentando, non avrebbe senso, perché, per assurdo, anche se regalassimo il vino, certe quantità di prodotto non verrebbero comunque assorbite. Perciò, le parole d’ordine adesso sono ridimensionamento e posizionamento»
In un mondo che sembra, almeno al momento, poco interessato al consumo di vino, quale può essere una ricetta di salvezza per un’azienda come la tua? Ad esempio, puntare su piccole produzioni e su vini con poche occorrenze o su prodotti a forte livello di artigianalità è una possibile chiave?
«Sicuramente i nostri cavalli di battaglia sono le Rive, piccole produzioni da singoli vigneti espressione di caratteri decisi e ben defini ti; quindi, la strada delle piccole produzioni in realtà l’abbiamo già intrapresa. Del resto, non siamo un’azienda enorme, quindi per po ter emergere questa è stata l’unica via. Oltre a ciò, stiamo cercando di diversificare molto con numerosi piccoli nuovi progetti che possano fare da contorno al nostro “core business”. Abbiamo cominciato ormai da qualche anno a credere in un vitigno autoctono locale per la produzione di un vino rosato spumante, l’Incrocio Manzoni 13.0.25, che ci sta dando belle soddisfazioni, oltre che ad essere partiti con un marchio satellite che è “Stefano Pola viticoltore di montagna”, dopo aver acquisito circa 9 ha nel comune di Sedico, in Valbelluna, per la produzione di due spumanti a metodo classico e tre vini fermi I.G.T. Vigneti delle Dolomiti».
L’enoturismo è un altro tema al centro del dibattito odierno. Un’opportunità che la An dreola sta cogliendo in pieno con la recente creazione dell’Experience Room in canti na. Qual è il valore aggiunto per un’azienda come la vostra?
«Diciamo che, come tutte le cose, si comincia dalle basi e poi, negli anni, si cerca di perfezionare. Ora come ora abbiamo puntato molto sull’accoglienza a 360 gradi, offrendo più pacchetti personalizzabili a seconda di quanto si vuole approfondire l’esperienza. Di fondamentale importanza è anche la sinergia con la ristorazione locale. Abbiamo provato ad abbozzare anche eventi culturali a tema, ma non sono decollati proprio come avremmo voluto… se proprio dovessi togliermi un sassolino dalla scarpa, temo ci sia stato anche un problema di mentalità dell’area che talvolta ragiona in maniera un po’ limitata, non vedendo il valore sinergico di certe attività. Ma sicuramente ci ritorneremo a ragionare».
Parlando di sostenibilità, quali sono le azioni concrete che Andreola mette in campo?
«Presso la sede centrale della cantina, lo stabilimento di Farra di Soligo, dove si registrano i maggior consumi energetici, abbiamo installato sui tetti della struttura un impianto fotovoltaico di cui al bando PNNR Agrisolare, che ci consentirà di coprire circa il 57% del fabbisogno».
Torniamo a te e al tuo lavoro di enologo: come definiresti il tuo approccio enologico? «QUALITÀ, a qualsiasi costo. Abbiamo negli anni visto e vissuto tante situazioni, ma una cosa rimane certa: non si è mai scesi a compromessi o badato a spese su scelte che riguardassero la qualità del prodotto finale. Abbiamo sempre investito e creduto nelle Rive del Valdobbiadene DOCG, anche in un momento storico in cui molti ormai le stavano abbandonando per comprare enormi tenute pianeggianti nella zona di produzione DOC, che noi, tra l’altro, abbiamo smesso di imbottigliare, per ovvi motivi. Non so quanti altri lo abbiano fatto; quindi: anche contro corrente, ma la qualità prima di tutto».
Hai un vitigno del cuore? «Mi piacciono tutti i vini ben fatti, a prescin dere dalla categoria, ma se dovessi sbilanciar mi direi Chardonnay, Nebbiolo e Pinot nero»
Quali sono gli obiettivi del prossimo futuro?
«Vedersi affermare sempre di più nel mercato il progetto “Stefano Pola” che abbiamo avviato nel 2017 con produzioni di vini dalle Dolomiti bellunesi