Dagli anni Settanta, è una delle aziende di riferimento di Montalcino, capace di rinnovarsi senza perdere mai di vista l’eccellenza
La Val d’Orcia, con i suoi viali di cipressi e le inconfondibili Crete Senesi, si sviluppa nell’hinterland del comune di Siena, città che ne ha profondamente segnato la storia. Patrimonio UNESCO dal 2004, questo angolo di Toscana ha saputo preservare nel tempo il proprio paesaggio rurale e culturale, puntellato di borghi medievali. Tra di essi, figura Montalcino, posto sulla sommità di una collina circondata da boschi e vigneti, il cui areale vitivinicolo rientra a pieno diritto tra le tappe di un ideale Gran Tour dei più importanti terroir d’Italia. Un comprensorio di circa 24 mila ettari, di cui soltanto una piccola percentuale (15%) è vitata e che, al netto dei diversi am bienti pedologici, viene suddiviso per convenzione in 4 frazioni rispondenti ai punti cardinali. Nella porzione sudest si colloca l’azienda Mastrojanni, la cui storia ha inizio nel 1975 con l’avvocato Gabriele Mastrojanni e l’acquisto dei primi Poderi San Pio e Loreto, nella zona di Castelnuovo dell’Abate. Dopo un passaggio all’interno del gruppo Illy, la proprietà si trova oggi sotto la gestione diretta di Francesco Illy e si costituisce di 110 ettari, d cui 41 vitati, com prensivi di un lussuoso Wine Relais.La filosofia aziendale, grazie anche alla consulenza enologica affi data a Maurizio Castelli sin dagli anni ’90, si orienta da sempre verso una forte ricerca, ed espressione, dell’identità territoriale di Mon talcino. L’ingresso di Francesco Illy nel 2022 ha condotto, inoltre, verso un nuovo modo di approcciarsi alla materia prima adottando una visione più olistica. «Da quando Francesco Illy è diventato il proprietario diretto, il più forte input che ha introdotto è stata la conversione alla biodinamica – spiega Giulia Härri, enologa interna dell’azienda Mastrojanni – In campagna l’attenzione alla sostenibilità è sempre stata parte integrante delle attività, sposandosi dunque in maniera abbastanza intuitiva con la volontà di ridurre al minimo l’impatto sull’ambiente». Accanto a un sovescio più complesso, e alla distribuzione dei preparati 500 e 501 in vigna, si affiancano dunque l’osservazione del calendario lunare così come le fermentazioni spontanee. «Ero alla mia decima vendemmia come enologo e l’ho accolta un po’ come una sfida personale – confessa la Härri – ad oggi, posso dire che mi sento sinceramente soddisfatta dei risultati. Si lavora moltissimo in prevenzione, facendo tante analisi con il supporto regolare di un microbiologo per prevedere l’andamento delle fermentazioni. Questo tipo di approccio ritengo sia fondamentale poiché – sottolinea l’enologa – nel momento in cui i miei sensi all’assaggio riscontrano un problema, vuol dire che è già troppo tardi. In fin dei conti, ruota tutto attorno alla profonda conoscenza della materia e a un monitoraggio costante». Una delle modifiche principali introdotte nei processi di cantina riguarda l’uso dell’ossigeno in fermentazione in virtù del tipo di estrazione ricercata, che ha visto un incremento volto allo scopo di migliorare la gestione degli ingenti volumi, frazionati principalmente nelle grandi vasche di cemento, differenti tra loro anche nella forma: da quelle più ampie in superficie, per lasciar distendere le bucce durante la macerazione, a quelle che favoriscono, al contrario, la formazione di un cappello più spesso e stretto, che consente una maggiore estrazione. «Operando senza LSA, abbiamo ritenuto opportuno introdurre turni notturni di lavoro per apportare ossigeno ai lieviti indigeni in modo progressivo e costante, seguendo l’andamento della fermentazione in modo più armonico». Un lavoro meticoloso e tanta disciplina sono tra gli strumenti principali che consentono di perseguire gli obiettivi qualitativi che Mastrojanni e il team enologico si impongono. Anche in vigneto, l’attenzione al dettaglio è un elemento chiave. I 41 ettari vitati, infatti, sono a loro volta suddivisi in 37 parcelle affinché possa esprimersi la specificità di ogni vigna. Tra esse, spiccano i due Cru che donano il nome alle omonime etichette di Brunello di Montalcino: Vigna a Schiena d’Asino e Vigna Loreto. La prima è la vigna più antica dell’azienda, risalente agli anni Settan ta e allevata a cordone speronato (nei nuovi impianti si predilige invece il Guyot). Posta tra 350 e 380 metri s.l.m., Vigna a Schiena d’Asino presenta un sesto d’impianto molto ampio, con 3.000 ceppi per ettaro, e gode di una particolare doppia esposizione sud-est/ sud-ovest. «Abbiamo effettuato diversi studi sui suoli – spiega l’enologa – la zona in cui ci troviamo rientra nel bacino della Velona e presenta suoli alluvionali di origine lacustre. Si tratta di terreni sedimentari di origine continentale e non marina, a differenza di altre zone di Montalcino. Il suolo di Schiena d’Asino è principalmente composto da argilla, ciottoli e arenarie; ad una profondità di circa 1,40 metri, si intercetta una vena di ossido di ferro». Da un punto di vista geologico, invero, l’area di Montalcino presenta un substrato composto da terreni flyscioidi cretacei (che comprendono la Formazione delle Marne di Castelnuovo dell’Abate, della Pietraforte e di S. Fiora), sormontati da sedimenti marini pliocenici, specialmente nelle zone vallive, e sedimenti quaternari. «Tuttavia, in quella vigna così singolare, non è solo il suolo a dare l’impronta principale alle uve, quanto la sua esposizione in combinazione, senz’altro, anche all’età delle piante». Differente è invece la situazione di Vigna Loreto. L’impianto risale in questo caso agli anni Duemila e si tratta, a onor del vero, di un Cru ponderato nel dettaglio. «Per la realizzazione di Vigna Loreto sono stati fatti ingenti lavori di sbancamento del terreno, scassi e livellamenti – racconta la Härri – che hanno quindi dato origine a una vigna di circa un ettaro e mezzo esposta completamente a est. Sembra assurdo pensare che l’avvocato, già nei primi Duemila, avesse avuto l’intuizione di orientare in questo modo una vigna di Sangiovese». Senza dubbio, va riconosciuto a Gabriele Mastrojanni un coraggioso spirito pioneristico che, già negli anni ’80, lo condusse verso l’implementazione di ben 5 Cru vinificati separatamente. La sua lungimiranza ha consentito, inoltre, di intravedere un quadro futuro in cui le temperature a Montalcino sarebbero sensibilmente aumentate, facendo del cambiamento climatico un inaspettato al leato di questo Cru. «Posso dire, tuttavia, che la 2024 è stata un’annata un po’ atipica per il periodo, in controtendenza rispetto all’aumento delle temperature – specifica l’enotecnica – noi abbiamo atteso più a lungo per il raggiungimento della maturità tecnologica, ottenendo vini con una buona maturità fenolica e tenori alcolici più bassi rispetto alle annate precedenti. Se nel 2022, infatti, a fine settembre avevamo già ultimato la vendemmia, quest’anno non abbiamo raccolto le uve destinate al Brunello prima del 3 ottobre». Se è dunque vero che il cambiamento climatico proporrà ancora nuove sfide, il Brunello dovrà comunque trovare la propria strada per rispettare quei parametri che lo definiscono tale: longevità, una determinata struttura e un tannino vivido ma raffinato. «Trovo che ci sia molta attenzione da parte dei produttori nel cercare di gestire al meglio le conseguenze che il cambiamento climatico potrebbe avere sui vini. Del resto, tutto dipende dall’annata e quanto è stato fatto in una vendemmia potrebbe essere sovvertito completamente nella successiva. Sono le uve che arrivano in cantina a determinare il lavoro che dovremo fare, e ogni anno è una scoperta anche per questo. Però devo ammettere – conclude l’enologa – che il fascino del fattore naturale, anche nella sua imprevedibilità, rappresenta altrettanto la vera bellezza di questo lavoro»