IL VINO SENZA ALCOL

Dalla Germania di fine Ottocento ai labora tori hi-tech di oggi, il vino senza alcol rac conta una storia sorprendente. Esploriamo la sua genesi, le evoluzioni tecnologiche e le caratteristiche organolettiche di un prodotto giovane ma sempre più ricerca to senza dimenticare un focus sui mercati, trend salutisti e sfide future di un settore in “fermento”, ma… senza gradazione

Genesi, tecnologie, mercati e prospettive

«Il Dry January arriva in Italia: un mese senza alcol per rigenerarsi dopo le feste». Così, il 13 gennaio scorso, titolava la testata giornalistica online Mondosanità, una delle più importanti in Italia nella trattazione di argomenti legati alla salute e al benessere. Nato in Inghilterra nel 2021 da un’idea di Emily Robinson, impiegata che decise di eliminare per un mese intero il consumo di bevande alcoliche per prepararsi alla sua prima maratona, il Dry January, che potremmo tradurre con “gennaio a secco”, divenne dall’anno successivo una stabile campagna di sensibilizzazione per la riduzione del consumo di alcol grazie anche all’appoggio di diverse associazioni no-profit. Negli anni, il Dry January, che prevede l’astensione dal consumo di alcol per quasi tutto il primo mese dell’anno, è diventato una tradizione anche negli Stati Uniti e in molti Paesi d’Europa, contando nel solo Regno Unito 16 milioni di sostenitori. «In Italia – scrive Stefano Tamagnone su Mondosanità – il tema della sobrietà sta acquistando rilevanza, come dimostra il dibattito crescente sui vini dealcolati e sull’ampia offerta di birre analcoliche. Anche se la sfida del Dry January non ha ancora raggiunto i numeri anglosassoni, il fenomeno sta lentamente prendendo piede, soprattutto tra chi cerca di riequilibrare le proprie abitudini dopo le festività». Al netto della considerazione, non condivisa da parte di ONAV, del concetto di sobrietà quale esclusivo appannaggio degli astemi e non anche di tutti quei consumatori evoluti, attenti e amanti della cultura del vino, il tema del Dry January vuole essere, qui, solo un esempio di come il tema dei vini dealcolati e di tutte le bevande analcoliche sia fortemente collegato ad altri e più profondi aspetti della società contemporanea, quali quello del benessere fisico in genere, dei rischi del consumo e non più dell’abuso, come si diceva una volta, delle bevande alcoliche e, non da ultimo, di una comunicazione, ma sarebbe più corretto dire indirizzo politico-pedagogico, volto a un graduale contenimento di quei quotidiani piaceri terreni, tra cui soprattutto le bevande alcoliche. Questi, finora, gli aspetti sociali che hanno spinto alla regolamentazione della produzione dei vini dealcolati nell’Unione, disciplinati dal Regolamento (UE) 2021/2117 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2 dicembre 2021 che al paragrafo 40 recita: «Vista la domanda crescente da parte dei consumatori di prodotti vinicoli innovativi che un titolo alcolometrico effettivo inferiore a quello stabilito per i prodotti vitivinicoli dell’allegato VII [...] dovrebbe essere possibile produrre tali prodotti vitivinicoli innovativi anche nell’Unione». Proseguendo, ai paragrafi 43 e 44 chiarisce: «è opportuno imporre che i prodotti che sono stati sottoposti a un trattamento di dealcolizzazione con un titolo alcolometrico volumico effettivo inferiore al 10% presentino, tra le indicazioni obbligatorie, l’indicazione del termine minimo di conservazione [...]. Al fine di garantire che tutti i vini dealcolizzati, compresi quelli con un titolo alcolometrico volumico dello 0,5% o inferiore, siano inclusi nel settore vitivinicolo, è opportuno modificare l’allegato I, parte XII, del Regolamento (UE) n.1308/2013 aggiungendo una nuove voce». Tuttavia, la congiuntura di crisi dei consumi e surplus produttivo che sta attraversando ormai da anni il settore vino induce altresì a considerazione di opportunità, nella produzione di vini dealcolati, per una ricollocazione di ingenti masse non a denominazione di origine quale fonte di materia prima per la realizzazione di altri prodotti, tra cui i vini no/low alcol. Sbocco di mercato, opportunità per la realizzazione di un prodotto innovativo, in sintonia con le motivazioni addotte da Regolamento UE, ma anche la possibilità di un indirizzo complementare nella scelta del consumatore al tradizionale vino, sono le qualità dei dealcolati; senza poi dimenticare la sperimentazione tecnologica e le innovazioni di processo che, in parte, sono applicabili anche alla filiera del vino tradizionale. Quale però la genesi di questi prodotti? Quale, al di là delle norme, la loro reale collocazione merceologica sui mercati? Quali i competitor e, soprattutto, quali i costi di questi nuovi “vini”? Domande cui cercheremo di dare delle prime risposte, considerando, tuttavia, che il settore dei vini no/low alcol è nuovo e nessuno è in possesso di dati o elementi storici per poter fare proiezioni e previsioni a lungo termine.

La nascita di un sotto segmento

Negli ultimi anni, il mercato delle bevande analcoliche, al netto di alcune flessioni legate agli effetti della pandemia, ha registrato una crescita significativa, trainata da una crescente domanda di alternative salutari e dal cambiamento delle abitudini di consumo. Prima di approfondire quindi il nascente mercato dei vini dealcolati o parzialmente dealcolati è fondamentale comprendere il mondo delle bevande analcoliche. Nonostante, infatti, i vini dealcolati possano vantare una genesi vinicola e, quindi, territoriale di lavoro in vigna e cantina, a livello meramente commerciale si troveranno a essere inseriti in quel grande e talvolta nebuloso segmento dei prodotti analcolici. Ad aiutarci arrivano i dati e gli studi di ASSOBIBE, Associazione di categoria all’interno di Confindustria che rappresenta e assiste le imprese che producono e vendono bevande analcoliche in Italia. Il totale dei consumi di bibite analcoliche, secondo lo studio Bevitalia 2024-2025 di ASSOBIBE, vedono l’Italia al sesto posto in Europa, con 2,88 miliardi di litri totali (52 litri pro-capite), dietro a Polonia, Francia, Spagna, Regno Unito e Germania, quest’ultimo primo consumatore di bevande analcoliche, con oltre 10,4 miliardi di litri e un assorbimento pro-capite di 127 litri all’anno. Il settore presenta un’elevata concentrazione dell’offerta, con le prime 4 aziende (Coca-Cola HBC, San Benedetto, Sanpellegrino, Ferrero) che misurano circa il 65% del volume del mercato, dato che arriva all’86% se si aggiungono PepsiCo, Refresco, IBG e Sibeg. Contrariamente al settore delle acque minerali (vero e unico “amore liquido” degli italiani, con 14,9 miliardi di litri di consumo totale nel 2022 e un dato pro-capite pari a 252 litri annui), dove prevalgono società a capitale privato italiano, il mercato delle bibite in Italia è dominato da grandi multinazionali del beverage quali Coca-Cola, Sanpellegrino, Pepsico, Refresco, Red Bull ecc. Nonostante alcune flessioni, legate soprattutto ai consumi post Covid, le bevande analcoliche in Italia si stanno assestando su consumi più che doppi rispetto a quelli di vino, stimati da ISTAT per il 2024 in 26,3 litri pro-capite (10,3 milioni di litri il consumo totale sempre nel 2024) in ormai cronica discesa da oltre quarant’anni a questa parte (basti solo pensare che nel 2014 erano pari a 45,8 litri pro-capite), ma soprattutto si consolidano, da oltre un ventennio, come dei confort food conviviali che non rinunciano a esperienze edonistiche dal punto di vista gustativo. Il consumo delle bevande analcoliche, così come afferma David Dabiankov Lorini, Direttore Generale di ASSOBIBE, è sempre più «un’esperienza che coinvolge i diversi sensi generando un legame emotivo con quello che ci si appresta a bere. Inoltre, è anche un potente strumento di socializzazione. Condividere questo momento con amici o familiari rafforza i legami e crea ricordi comuni, facilitando sentimenti positivi. I valori e i benefici del comfort food – prosegue – possono essere racchiusi in alcuni punti essenziali: benessere emotivo, soddisfazione, riduzione dello stress, connessione sociale, cura di sé. Il fatto di essere analcoliche rappresenta un plus, perché consentono di concedersi un momento di piacere in qualsiasi momento, insieme ad altre persone». Sebbene i vini dealcolati, così come quelli a basso tenore alcolico, non siano paragonabili a livello merceologico alle bevande zuccherine (realizzate con un assemblaggio di acqua, aromi e dolcificanti), ma risultato di un processo di produzione enologica che va dal vigneto alla cantina, sul versante meramente commerciale è, tuttavia, probabile che guadagneranno spazio nell’ampio segmento dei prodotti analcolici, rappresentando una sorta di sub-sezione specializzata e premium nel marketing placement. Come confidatoci nello scorso Vinitaly da Sandro Bottega, titolare della Bottega Spa che produce vini, distillati, liquori e, da tempi non sospetti e precedenti alla normativa, vini senza alcol, «questi prodotti saranno un’opzione complementare per coloro i quali desiderano sperimentare un gusto che ricordi il vino senza gli effetti dell’alcol. Sono una scelta che si affiancherà alle altre, dettata da gusti e preferenze personali e noi produttori, se possiamo e vogliamo, dobbiamo, semplicemente, offrirla».

Etica protestante e origine dei no-alcol

La prima invenzione di una sorta di vino senza alcol fu sviluppata nella seconda metà dell’Ottocento in Germania, nell’alveo della religiosità e della cultura protestante, in risposta alle preoccupazioni dei leader religiosi riguardo i crescenti tassi di alcolismo. Nel 1869, infatti, il pastore Thomas Welch diede vita a un processo di pastorizzazione rapida che bloccava la fermentazione dell’uva, consentendo alle chiese di offrire un vino analcolico per la comunione. I versetti biblici di ammonimento al consumo dell’alcol quali «Il vino è schernitore, la bevanda alcolica è turbolenta» (Proverbi 20:1), oppure «Non ubriacatevi: è causa di dissolutezza; ma siate ricolmi dello Spirito» (Efesini 5:18) e ancora «Guai a quelli che si alzano di buon mattino per andare dietro alle bevande alcoliche» (Isaia 5:11) presero, nella quasi totalità delle confessioni Protestanti il sopravvento sui versetti dai riferimenti positivi. Sebbene Lutero e Calvino non fossero contrari al consumo di alcol, il teologo svizzero Ulrich Zwingli fu più rigido proponendo quasi un consumo simbolico del vino da estendersi dalla “sacra cena” alla quotidianità dei fedeli. Luterani, presbi teriani e calvinisti considerano il consumo di alcol, sempre con palese sobrietà e forte moderazione, come una sorta di libertà concessa e da godere con gratitudine, mentre altre chiese come quelle dei Metodisti, Pentecostali e altri movimenti evangelici predicano la totale astinenza, soprattutto per i membri attivi della chiesa e i ministri, leadership di queste comunità e quindi esempio assoluto di sobrietà nella loro quotidiana testimonianza di fede. Ovvio, quindi, che i primi passi nella produzione di un vino paradisiaco che non inebri, tanto per ricordare la Sura 47 del Corano in una commistione di monoteismi, si siano calcati in terre protestanti e non cattoliche. Più precisamente, così come lo stiamo conoscendo oggi, il vino analcolico è stato inventato nel 1908 da parte della famiglia Jung, proprietaria di un vigneto nella regione del Reno. Dopo anni di vendita dei propri vini, Maria Jung si rese conto che sempre più clienti smettevano di ordinare perché, non solo i pastori delle comunità religiose, ma anche i medici consigliavano di ridurre il consumo di alcol. Fu allora che il figlio Carl iniziò a sperimentare un metodo di distillazione del vino sottovuoto per privarlo completamente dell’alcol, depositando, tra l’altro, il primo brevetto di un processo di dealcolazione: era ufficialmente nata l’industria del vino analcolico. Lo stesso Jung prometteva nei suoi prodotti di trovare tutta la “natura, l’aspetto e il sapore” del vino normale, cosa che, nei fatti, fu assai lontana dal realizzarsi; così, al successo tecnico dell’invenzione, non ne seguì alcuno di tipo commerciale. Nonostante i tentativi, nel corso degli anni, di sviluppare migliori processi di dealcolazione, tra cui l’evaporazione a film sottile nel 1975, l’osmosi inversa negli anni Ottanta o il metodo della colonna conica rotante negli anni Novanta, il vino analcolico ha dovuto lottare contro la reputazione di avere odori sgradevoli e un sapore pessimo. È probabile che proprio le scadenti qualità organolettiche contribuirono altresì al non utilizzo di questi prodotti nella mixology che, nonostante prevedesse sin dai primi anni del Novecento la realizzazione di cocktail analcolici, non prese mai in considerazione il vino analcolico e, in verità, neanche il vino in sé. A livello commerciale, tuttavia, le prime apparizioni dei vini senza alcol sugli scaffali dei negozi specializzati risalgono agli anni ’70 e ’80, principalmente in Germania e nei Paesi del Nord Europa, dove la sensibilità verso il consumo responsabile di alcol ha spinto lo sviluppo anticipato di alternative più leggere. Più recentemente è maturato un mercato in Francia che, prima facie, potrebbe sembrare una contraddizione, ma nei fatti è una delle tante testimonianze di una sorta di deculturalizzazione del vino che, da decenni, si sta espandendo tra i nostri cugini d’Oltralpe, ormai lontani da quell’archetipo di diffusa conoscenza e valorizzazione enologica che ancora spesso raccontiamo qui da noi quale modello di cultura del settore. Il fenomeno, negli ultimi cinque anni, si sta ampiamente diffondendo negli Stati Uniti e in Australia, trovando oggi un forte impulso anche qui da noi in Italia e in Spagna. Uno studio dell’IWSR (International Wine & Spirits Research) vede per il prossimo futuro il segmento delle bevande analcoliche in crescita del 9%, trend che immaginiamo agevolerà anche i vini dealcolati. Mercati orientali a religione islamica oppure asiatici, in particolare Cina e Giappone, ma anche Brasile, mostrano un interesse singolare per questa tipologia, articolata nelle tipologie in bianco, rosso, rosato, frizzante e spumanti. Un appeal legato soprattutto alla novità che rappresentano, ma anche alla potenziale alternativa premium, si badi bene, non al vino tradizionale, ma ad altre bevande analcoliche e succhi di frutta. Le tecniche di dealcolazione del vino Prima di arrivare, sommariamente, a spiegare le tecniche di produzione dei vini dealcolati è fondamentale capire cosa si può utilizzare in qualità di materia prima, per ottenere tali bevande. La “base” dei dealcolati può, per legge, essere vino (sono esclusi i prodotti DOP e IGP), vino spumante (aromatico e gassificato) o vino frizzante. Non possono essere utilizzati vini ancora in fermentazione, vini liquorosi, mosti di uve di qualsiasi tipologia (parzialmente fermentati, ottenuti da uve appassite, concentrati, rettificati), vini realizzati da uve appassite o surmature e aceto di vino. La produzione di un dealcolato o low alcol, quindi, parte da un vino tradizionale al quale viene sottratto parzialmente o completamente l’etanolo. Le tecniche principali utilizzate per ottenere questi prodotti sono l’evaporazione sottovuoto, l’osmosi inversa e la distillazione a bassa temperatura con colonna a cono rotante. Il metodo dell’evaporazione sottovuoto sfrutta la riduzione della pressione atmosferica per abbassare il punto di ebollizione dell’alcol, consentendo la sua rimozione a temperature inferiori a 50 °C. In questo modo, si limitano le alterazioni organolettiche del vino, preservandone gli aromi principali. La tecnica evaporativa appare meno decisa della distillazione. Il vuoto, infatti, influisce abbassando il punto di ebollizione dei liquidi, consentendo un’evaporazione più rapida e controllata a temperature più basse, aspetto che salvaguardia, in parte, il corredo aromatico del vino di partenza. Tale sistema, infine, appare particolarmente adatto alla dealcolazione parziale delle basi anziché quella totale. L’osmosi inversa è, invece, una tecnica di filtrazione a membrana che separa l’alcol dall’acqua e dagli altri componenti del vino. Questo metodo consente una dealcolazione parziale o totale mantenendo pressoché intatti i composti aromatici volatili, riducendo poi anche la perdita della percezione corporea del prodotto finale, aspetto quest’ultimo cruciale nel risultato organolettico di tale categoria di prodotto. L’ultimo metodo, quello della distillazione a bassa temperatura con colonna a cono rotante, è uno dei più avanzati e contempla una distillazione a colonna con cono rotante che permette di frazionare il vino separando in due miscele l’alcol e gli aromi. In seguito, tutte le componenti dei profumi possono essere reintrodotte nel prodotto dealcolato, garantendo così una sostanziale maggiore fedeltà al profilo odoroso della materia prima originale. Tutte le tecniche di dealcolazione sopra citate se, da una parte, sono sicure da un punto di vista della qualità sanitaria, dall’altra influiscono profondamente sugli aspetti organolettici. A tal proposito il Consiglio Scientifico ONAV, in un suo documento ufficiale, ha tenuto a precisare che con i vini dealcolati ci si allontana dalla definizione ufficiale di vino indicata da OIV (Organizzazione Internazionale della Vi gna e del Vino) fin dal 1973: “il vino è la bevanda risultante esclusivamente dalla fermentazione alcolica totale o parziale di uve fresche, pigiate o no, o di mosti di uve”. «La derivazione diretta dall’uva – scrive il Consiglio Scientifico – esclusivamente con processi di macerazione e fermentazione, consente al vino di esprimere le caratteristiche del territorio, della varietà, quindi dell’origine. Pertanto, risulterà più difficile esprimere una valutazione sui vini dealcolati, i cui caratteri organolettici fondamentali saranno condizionati da pratiche correttive, sicuramente necessarie, quali dolcificazione e l’aromatizzazione. Sarà sicuramente possibile esprimere il proprio gradimento, come per altre bevande aromatizzate, ma ci si dovrà astenere dal valutarne il valore in riferimento al territorio, all’annata, alla varietà di uva da cui è prodotta».

Qualità e profilo sensoriale dei vini dealcolati

La dealcolazione comporta inevitabilmente alcune modifiche alla struttura e al profilo aromatico del vino. L’alcol contribuisce alla percezione della viscosità, della “dolcezza” intesa come rotondità, della struttura e della complessità aromatica, per cui la sua rimozione altera sicuramente l’equilibrio complessivo del prodotto di base. Per compensare tali deficit e ovviare alla mancanza di “spessore” di tali prodotti, spesso si ricorre a tecniche di arricchimento con zucchero, come sostiene il Consiglio Scientifico ONAV, o tannini per migliorare la sensazione di corpo e la complessità gustativa, ma anche addizionando aromi naturali per incrementare l’appeal olfattivo del prodotto. La principale critica che viene oggi mossa al vino analcolico riguarda il gusto. Eliminando l’alcol si modifica non solo la struttura del vino, ma anche la percezione gustativa totale, l’espressione della rotondità, dell’equilibrio d’insieme e anche la facilità della beva. L’alcol dona sfericità, morbidezza e calore al palato; svolge un ruolo fondamentale nell’equilibrio dei sapori in senso stretto e di amplificazione delle sensazioni retronasali. Senza alcol, molti vini possono sembrare più insipidi, privi di complessità e di profondità gustativa e retrolfattiva. Le tipologie frizzanti e spumanti dei dealcolati moderano, in parte, queste “lacune” grazie alla forza dell’anidride carbonica, aspetto non secondario anche nel regalare una maggiore piacevolezza incentrata su un equilibrio di componenti dure capaci, a ogni modo, di amalgamarsi tra loro. Al netto della tecnologia disponibile, sebbene alcuni produttori riescano a creare vini analcolici di qualità e non così lontani dalle caratteristiche della materia prima iniziale (meglio i risultati dei vini ottenuti da vitigni aromatici, che da uve neutre), in generale si fa ancora molta fatica a riprodurre la ricchezza aromatica dei vini tradizionali, così come le sensazioni tattili e pseudocaloriche che, questi ultimi, riescono a regalare all’assaggio. Per molti sommelier e appassionati, l’esperienza non è paragonabile e, tuttavia, gli stessi produttori di vini dealcolati non rincorrono il confronto con il vino tradizionale ribadendo fermamente che si tratta di un prodotto complementare per intercettare sensibilità diverse e inserirsi anche in momenti conviviali paralleli a quelli del consumo del vino tradizionale. In ogni caso, l’industria del vino senza alcol è in piena espansione, aspetto quest’ultimo anche salutare al sistema perché intercetta una parte delle eccedenze dell’offerta e, inoltre, il “movimento” è trai nato da fattori come l’aumento della consapevolezza sulla salute, il rafforzamento delle normative sulla guida in stato di ebbrezza e la crescente domanda di bevande analcoliche premium e curate. Per i prossimi anni si prevede che il mercato globale del vino dealcolato crescerà con un tasso annuo superiore al 7%, con l’Europa e il Nord America quali principali aree di consumo, seguite poi dall’Asia e le aree urbanizzate del Sudamerica. Concludendo, i vini dealcolati rappresentano una nuova frontiera per l’industria vitivinicola: offrono un’alternativa ad altre bevande analcoliche e, forse, un potenziale freno alla diffusione, spesso smodata soprattutto tra i giovani, degli energy drink. Sebbene la qualità sensoriale di questi prodotti sia ancora in fase di miglioramento se non proprio di assestamento, le tecnologie, sempre più avanzate sebbene costose in termini di uso di acqua (da due a sei litri per ogni litro di vino dealcolato prodotto) ed energia, stanno portando a risultati via via più soddisfacenti. In futuro, la sfida sarà trovare il giusto equilibrio tra gusto, naturalezza e magari an che un legame con il territorio di origine della materia prima. Aspetto, quest’ultimo, oggi, invero, più evidente in altri prodotti analcolici di nuova generazione come i proxy wine, bevande fermentate che tratteremo nelle pagine successive. A livello puramente commerciale, poi, è fondamentale ricordare che i vini dealcolati o parzialmente dealcolati devono garantire, oggi e nel prossimo futuro, una serie di prodotti capaci di soddisfare le esigenze di un pubblico complementare a quello del vino tradizionale, talvolta sovrapposto a questo, sicuramente attento alla salute ma, allo stesso tempo, curioso di sperimentare qual cosa di diverso, ma sempre legato a una bevanda dalle radici millenarie.