VIVAI COOPERATIVI RAUSCEDO: STORIA DI UNA BARBATELLA
Intervista all’ex direttore e attuale consulente di VCR Eugenio Sartori sulla storia e le attività del vivaio cooperativo più grande al mondo, che attraverso l’innesto al tavolo ha salvato la viticoltura
Con i suoi 1.200 ettari a vivaio, i Vivai Cooperativi Rauscedo (VCR), rappresentano il distretto della barbatella più importante d’Italia e del mondo, visto che, qui, si mettono a dimora oltre 100 milioni di innesti talea all’anno. Da questo numero, escono, a fine ciclo produttivo e selezione morfologica, circa 75-80 milioni di barbatelle pronte per essere immesse sul mercato. Costituita nel 1930 la cooperativa è oggi composta da 200 associati che hanno le loro sedi operative esclusivamente nella località di Rauscedo (PN). Ciascuno di essi costituisce un’unità di produzione che mette a dimora una serie di combinazioni, varietà/clone/portainnesto, in funzione del programma generale messo a punto dalla direzione. Ogni socio riceve, in fatti, dalla cooperativa un programma di lavoro per ogni annata, fissato sulla base della sua capacità produttiva e tecnica e della sua dotazione di piante madri; i quantitativi assegnati possono variare da qualche centinaio di migliaia di innesti talea fino a superare il milione di unità per i più strutturati, ma in ogni caso le quantità e le combinazioni devono essere sempre in linea con le esigenze della cooperativa. Per farci raccontare cos’è Rauscedo e cosa rappresenta per il mondo vitivinicolo a livello globale, abbiamo intervistato il dottor Eugenio Sartori, attualmente Consulente esterno di VCR dove è stato impiegato per ben 45 anni, di cui 37, dal 1987 al 2023, nelle vesti di direttore.
ottor Sartori, partiamo dalle origini. Si può affermare che, per voi, tutto abbia avuto grazie alla fillossera. Forse non tutto il male viene per nuocere...
«Esatto: noi dobbiamo fare un “monumento alla fillossera”! E, mentre molti distretti vivaistici si sono ridotti, Rauscedo ha aumentato la sua produzione nel tempo, questo grazie a un insieme di condizioni pedoclimatiche e umane».
Cos’è che rende quest’area così speciale a livello pedoclimatico, mettendovi nella condizione di poter coltivare qualsiasi varietà di vite nell’arco di pochi km?
«È vero, il nostro è un territorio speciale, perché abbiamo le Prealpi carniche a 10 chilometri e il mare a 70 in linea d’aria. Quindi, dal punto di vista climatico, godiamo di condizioni ideali per la coltivazione del vivaio, con inverni mai troppo freddi – al massimo registriamo -2/3 °C per qualche notte, ma di media siamo sui +5-6 °C – ed estati umide, con temperature massime di 34 °C, piovosità tra i 1.200-1.300 mm e, talvolta, come lo scorso anno, persino un po’ eccessiva. Dal punto di vista dei suoli, a nord di Rauscedo troviamo i famosi magredi messi a coltura negli anni ‘50 grazie alla realizzazione della rete irrigua consortile, ideali per la coltivazione del portinnesto americano, data la forte presenza di scheletro; mentre, andando da Rauscedo verso il mare, troviamo terreni leggeri adatti quindi alla messa a dimora degli innesti talea. Qui si coltivano principalmente mais e soia e si tratta, perciò, di terreni che i nostri soci possono prendere in affitto per uno o al massimo 2 anni, garantendosi così, grazie a una rotazione di 5-6 anni, le migliori condizioni dal punto di vista sanitario e agronomico. Queste condizioni pedoclimatiche hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo produttivo della Cooperativa, tant’è che il differenziale di resa in barbatelle di prima scelta è di 10, ma talvolta persino 20 punti percentuali, superiore rispetto ad altre aree vivaistiche italiane o estere. Se consideriamo, ad esempio la produzione vivaistica della nostra consociata, Nova Vine, nella Sonoma Valley in California, raramente arriviamo a ottenere rese dell’80%, che sono invece pressoché la norma a Rauscedo. Indubbiamente, a Rauscedo godiamo di una rendita di posizione data dall’ambiente pedoclimatico molto favorevole».
Ha menzionato il fattore umano: quanto è contato e conta ancora oggi?
«Sicuramente quello che ha fatto la differenza nel 1930 è stato il costituirsi in cooperati va: se i nostri duecento associati fossero rimasti dei singoli vivaisti, non tutti avrebbero superato i momenti di crisi, con conseguente e inevitabile espulsione dal mercato. La Cooperativa con i suoi 200 associati ha potuto raggiungere un elevato potenziale produttivo ed è stato così possibile aggredire i mercati esteri, oltre che essere operativi in tutta Italia. Oggi VCR è presente in tutti i paesi viticoli del mondo, direttamente attraverso l’esportazione, oppure attraverso degli accordi di sfruttamento dei cloni VCR o, come in California, con la produzione in loco».
La fillossera, però, ha colpito tutto il mondo vitivinicolo. Cos’è successo qui da voi che ha portato a trovare concretamente una solu zione, ma anche a unirsi per trovarla, altro fattore non scontato?
«Un primo merito è indubbiamente da attri buirsi all’applicazione della tecnica dell’inne sto al tavolo. La leggenda dice che sia stato un ufficiale che si trovava nelle retrovie del fronte a portare, nel 1920, questa tecnica a Rauscedo. In realtà, la soluzione alla fillossera era già stata trovata e in Francia avevano già iniziato a mettere a dimora le viti americane e a innestarle in pieno campo. Anche in Friu li, per gran parte sotto l’Impero austro-un garico, presso la Regia Scuola di Agricoltura di Pozzuolo del Friuli, erano stati posti a di mora, sin dall’inizio del ‘900, dei portinnesti americani. Tuttavia, quello che da noi fece la differenza fu il fatto di innestare al tavolo: da lì iniziò la storia di Rauscedo. Lo svilup po produttivo è stato poi facilitato dall’am biente climatico, ma un ruolo di primo piano l’ha giocato il modus operandi della gente friulana, di rigorosa abilità manuale: non di mentichiamo che, a pochi km da Rauscedo, c’è Maniago, “città del coltello” celebre già ai tempi della Serenissima. E l’innesto al tavolo è un lavoro di precisione, che richiede stru menti e tecnica. Infine, altra ragione di non poco conto, erano le condizioni in cui versa va la popolazione rurale dopo la Prima guer ra mondiale: c’era fame! Il 90% della forza lavoro era stata costretta a emigrare e quelli rimasti ben presto capirono che era necessa rio aiutarsi reciprocamente per sopravvivere: da qui venne spontaneo il riunirsi in coope rativa. Del resto, Rauscedo ha accolto tante forme di cooperativismo: la latteria, la stalla sociale, la cooperativa di consumo, il credito cooperativo, il circolo agrario e la più recen te, negli anni ’80, la cooperativa del kiwi».
Visto che gli uomini erano emigrati a cerca re fortuna, immagino che a portare avanti e far crescere il vivaismo siano stati coloro che erano rimasti, quindi in buona parte le donne? «Senz’altro, erano le donne a fare gli innesti, e li fanno ancora oggi. Durante la visita con i corsisti ONAV, proprio presso un nostro so cio importante, da quasi due milioni di inne sti annui, nella stanza dell’innesto abbiamo visto all’opera la moglie, con una decina di dipendenti».
Esiste quindi una tradizione femminile im portante nella pratica dell’innesto?
«Assolutamente: tutte le operazioni, anche quelle di campagna che negli ultimi anni con la meccanizzazione sono venute un po’ meno, vedevano coinvolte le donne, abilissime per esempio, nello scegliere con cura e con un colpo d’occhio esperto una gemma o una ta lea e a tagliarla con una rapidità incredibile». Dove si collocano i soci della cooperativa e i loro appezzamenti?
«I nostri soci si trovano tutti nella località di Rauscedo che appartiene al comune di San Giorgio della Richinvelda in Provincia di Por denone; è una cooperativa sostanzialmente chiusa in quanto, per essere soci, è neces sario disporre, oltreché di adeguate capacità tecniche, anche di magazzini, serre e strut ture in Rauscedo e questo permette un controllo continuo sulle attività dei soci. Esiste, infatti, da Statuto, l’obbligo per il socio di conferire tutto il prodotto alla cooperativa, non è possibile vendere alcun materiale vi vaistico per conto proprio e, per la medesima ragione, non è consentito eccedere le quan tità previste dal programma di produzione, per non creare inutili eccedenze».
Quindi i soci sono viticoltori che fanno pra ticamente solo questo?
«Sì, sono vivaisti e anche viticoltori; ovvia mente, si sentono in primis vivaisti specializ zati che si tramandano il mestiere di padre in figlio. Quando è stata costituita la coope rativa nel 1930 i soci erano 16, dopo sono via via aumentati di numero e oggi praticamente tutta Rauscedo porta avanti questa attività vivaistica. Il socio, quindi, ha il compito di re alizzare la produzione secondo il programma che la cooperativa mette a punto annual mente e gestirla al meglio, attuando la dife sa fitosanitaria e la coltivazione fino alla fine del ciclo vegetativo che coincide con il mese di novembre: si mettono a dimora gli innesti talea a maggio e si inizia la raccolta delle bar batelle a novembre, per chiudere l’operazio ne a fine dicembre, salvo imprevisti dovuti ad andamento climatico negativo».
Come avviene la raccolta delle barbatelle?
«La raccolta viene effettuata utilizzando de gli aratri sterratori costruiti ad hoc, di proprietà della cooperativa, che vengono resi operativi secondo un calendario program mato in funzione della lignificazione e della maturazione delle barbatelle; ci sono varietà a ciclo corto, per esempio il Pinot grigio, che lignificano precocemente e quindi possono già essere raccolte a inizio novembre e altre, a ciclo lungo, come l’Aglianico, il Grenache o le varietà da tavola, che necessitano di tem perature più basse per chiudere il ciclo ve getativo. È importante che sia la cooperativa a gestire lo sterro, perché la raccolta a ligni f icazione ottimale è importante per il suc cessivo buon attecchimento delle barbatelle presso il viticoltore».
Cosa avviene dopo la raccolta?
«Si procede, nella prima fase alla cernita, secondo un calendario prestabilito, che av viene esclusivamente presso gli stabilimenti della cooperativa ed è effettuata da persona le messo a disposizione dai soci e dalla co operativa. In pratica il socio, su ordine della cooperativa conferisce, a calendario, i lot ti prescelti distinti per combinazione, per esempio Barbera VCR19/SO4 VCR105, in un determinato settore di cernita. Può osser vare le operazioni ma non intervenire diret tamente nella selezione, per ovvio conflitto d’interessi. L’obiettivo della cooperativa è, infatti, assicurare uno standard qualitativo uguale per tutte le barbatelle che verranno immesse in commercio. Dopo questa importante operazione di selezione morfologica, che porta all’eliminazione di qualsiasi barba tella difettata, seguono le operazioni di taglio del tralcio a 3 cm circa e delle radici a 10-15 cm, la paraffinatura, l’etichettatura e la con servazione in cella frigorifera a + 3°C e 98% di umidità relativa».
Come si effettua il controllo qualità delle barbatelle?
«Esistono due livelli di controllo. Un primo controllo è effettuato dal Servizio Fitosanitario Regionale (SFR), previsto dalla normativa europea e nazionale, e conseguente alla richiesta (obbligatoria) di controllo e certificazione del materiale messo a dimora da parte del vivaista. In pratica, la cooperativa, presenta la richiesta di controllo e certificazione di tutte le produzioni vivaistiche dei propri soci entro il 30 giugno di ogni anno al SFR, il quale durante il periodo vegetativo effettua il controllo dei vivai, delle piante madri portinnesti e marze, verifica la purezza varietale e l’assenza di malattie fungine, virali e batteriche, nel dubbio prelevando campioni per sottoporli ad analisi più approfondite tramite Elisa test o PCR. Al 30 novembre, come ultima data, il SFR autorizza l’immissione in commercio della produzione, salvo i lotti non conformi che dovranno essere avviati alla distruzione. Oltre a questo controllo esterno, la Cooperativa è dotata di un proprio organismo di controllo che interagisce strettamente con il dipartimento produzione e segnala, per esempio, eventuali lotti con conformi e quindi non utilizzabili ai fini dell’innesto (marze e portinnesti)».
Come avviene poi la retribuzione del socio?
«La cooperativa chiude il bilancio al 30 set tembre, ovvero quando si conclude la campagna vendite anche nell’emisfero sud del mondo e quando le scorte a magazzino sono al minimo dell’annata. Detraendo dalla massa dei ricavi tutti i costi fissi e variabili della cooperativa, accantonamenti compresi, si avrà una somma in liquidazione che viene ripartita sul numero di barbatelle di prima scelta con ferite dai soci: se, ad esempio, il socio “x” ha estirpato 20mila barbatelle di Barbera/SO4, che hanno dato resa in prima scelta dell’80%, ne dovranno essere liquidate 16mila. Esistono dei coefficienti premianti per le combinazioni difficili e penalizzanti per quelle facili, per cui, nella fattispecie, ne vengono liquida te un numero inferiore. L’uso di questi coefficienti, che viene aggiornato annualmente, permette alla Cooperativa di approntare un programma di produzione in linea con le esigenze del mercato. Questo schema è stato reso operativo oltre 70 anni fa, ed è ancora estremamente efficace, perché funziona anche a livello motivazionale per i soci, in quanto diventa sfidante: ci sono soci, ad esempio, che confidano talmente nelle proprie capacità che chiedono di produrre, se possibile, solo varietà premianti».
Oggi quanta parte delle operazioni è meccanizzata? Esiste ancora una parte di lavoro manuale?
«Esiste ancora una parte importante di lavoro manuale, ad esempio per quanto riguarda la selezione morfologica della barbatella, ovvero il controllo vero e proprio del punto di innesto, della distribuzione dell’apparato radicale e dell’assenza di danni meccanici o da patologie, non sono al momento automatizzabili, complice anche la irregolare morfologia della piantina e le esigenze dei viticoltori (il tralcio deve essere il più verticale possibile per poter essere messo a dimora con delle macchine ad hoc, le macchine Wagner). Al tre operazioni, tipo l’eliminazione delle femminelle del legno americano e delle marze, viene eseguita da specifiche macchine, così pure la relativa riduzione del portinnesto in talea da 30-38 cm e delle marze a 3 cm. An che la fase di innesto è stata automatizzata con l’invenzione, made in VCR, della Celerina Plus, una macchina che opera automaticamente l’innesto a incastro. Si sta lavorando per rendere il più possibile automatizzato tutto il ciclo di produzione e su questo forse anche l’AI ci potrà venire in aiuto, ma sarà necessaria, comunque, una attenta verificabenefici-costi, in quanto si tratta di un utilizzo purtroppo solo stagionale delle nuove macchine o robot».
Quante varietà di viti coltivate?
«Tutte le varietà italiane ed estere che hanno un potenziale commerciale rientrano nei nostri programmi di produzione; a queste si aggiungono le varietà aziendali prodotte con marze selezionate e fornite da qualche viticoltore intenzionato a farsi riprodurre il proprio vitigno e anche delle micro-varietà che vengono magari riprodotte per scopi scientifici oppure per collezioni amatoriali. Spesso per le varietà a scarsa diffusione si evita di procedere con programmi di selezione genetico-sanitaria per evitare di annullare la variabilità intravarietale, ponendo magari in commercio un solo clone, per cui si opta per una selezione massale un po’ più rigida dal punto di vista fitosanitario. Annualmen te VCR mette in cantiere circa 400 varietà da vino, 20 portinnesti e circa 600 cloni che danno origine a più di 4.000 combinazioni; ovviamente nelle varietà più diffuse, come per esempio Sangiovese, Chardonnay, Tem pranillo, Cannonau/Grenache, si possono riscontrare anche 200 diverse combinazioni. Accade, ovviamente, che in certi periodi storici vengano richiesti solo alcuni cloni di certe varietà: ad esempio, al momento i viticoltori preferiscono cloni che non diano eccessiva gradazione alcolica, quindi che non siano in grado di accumulare molto zucchero, che è esattamente l’inverso di quanto ci veniva richiesto agli inizi di questo secolo; oppure, che abbiano grappolo aperto per evitare problemi di botrite. In ogni caso, nessun clone viene abbandonato o eliminato dal Registro nazionale delle varietà di vite: vengono tenuti comunque nella nostra “banca del germoplasma”, perché un giorno il mercato potrebbe tornare a richiederli, come già è successo».
Capita anche che vengano i produttori a portarvi dei cloni che hanno trovato nei loro vigneti?
«Più che cloni di solito si tratta di loro selezioni. A volte queste selezioni corrispondonoa delle varietà già conosciute, ma che localmente magari vengono chiamate con un altro nome. Capita anche che ci mandino i tralci di varietà sconosciute e ci chiedano non solo di riprodurle, ma anche di accertarne l’identità».
Esiste una parte di coltivazione in biologico?
«Gran parte della nostra produzione vivaistica è in convenzionale, ma c’è anche una piccola produzione in biologico presso il nostro Centro Marze di Fossalon di Grado, dove coltiviamo 7 ha di portinnesto in biologico e delle piante madri marze, quindi c’è la potenzialità di fare del prodotto in biologico. Tuttavia, non è facile produrre una barbatella in pieno campo perché, quando si mette a dimora un innesto talea, lo sviluppo del tralcio è molto rapido e, se le condizioni meteorologiche non sono ottimali, il rischio è di dover entrare ogni due giorni per eseguire i trattamenti contro la peronospora, patologia che, se non ben controllata, potrebbe lasciare all’interno del germoglio alcune zone devitalizzate, non visibili a occhio nudo, ma accertabili alla cernita tramite opportune incisioni al di sotto del ritidoma. E, in tal caso le piante dovrebbero essere eliminate».
La produzione in biologico in vivaio è sufficiente a sopperire alla richiesta delle aziende biologiche? Quanti sono i produttori?
«Esistono in tutta Europa pochi vivaisti che operano in biologico, ad esempio nel Midi della Francia, l’unico è un coltivatore situato in una zona ai piedi del Mont Ventoux (Mon te ventoso), dove trova le condizioni ottimali. Noi, in quanto membri del CIP (Comitato Internazionale dei vivaisti-viticoli), abbiamo modo di confrontarci continuamente su questo tema con i colleghi di altri Paesi e tutti concordano su un punto: produrre una buona pianta in biologico è estremamente difficile e comunque si rischiano rese in vivaio anche dell’ordine del 35% nelle annate peggiori e comunque non superiori al 60% nelle annate con decorso climatico ottimale. Il viticoltore ovviamente esige un prodotto perfetto dal punto di vista morfologico e, soprattutto, sanitario, ma gioco forza il prezzo della barbatella bio sarà nettamente più elevato. Come VCR abbiamo anche messo a punto una tecnica di produzione bio in serra, però i costi sono talmente elevati da non essere competitivi con le barbatelle coltivate in convenzionale».
L’adattamento della pianta è comunque po sitivo? Non avete riscontrato grandi problemi con una pianta coltivata in convenzionale e portata in biologico o viceversa?
«Se la cernita è rigorosa e inflessibile anche dal punto di vista fitosanitario, il risultato è sempre positivo».
Tra i progetti di Rauscedo non c’è solo il vivaismo, ma anche tanta ricerca. Quanti di pendenti avete e come sono distribuiti?
«I totali dipendenti fissi sono 80 ripartiti nelle diverse aree aziendali. Nel centro ricerche abbiamo una quota importante di dipendenti che operano sia nei nostri laboratori interni sia all’esterno, nelle parcelle sperimentali, in quanto da oltre un decennio abbiamo avviato programmi di miglioramento genetico attraverso la creazione di varietà resistenti alle malattie».
Collaborate anche con le università?
«Certamente, ad esempio, per quanto riguarda le varietà resistenti, la collaborazione è nata dall’attività che l’Università di Udine già aveva intrapreso a partire dal 1998; noi siamo entrati nel 2006 come soci finanziatori del neocostituito Istituto di Genomica Applicata. Da lì, è partito il programma di valorizzazio ne delle varietà resistenti costituite dall’Università di Udine ed è iniziato anche il nostro programma di creazione di varietà resistenti o programma VCR».
Con quali altre realtà vi interfacciate?
«Per quanto riguarda la selezione clonale, abbiamo collaborato molto con CREA-VE, con l’Università di Milano, con l’ERSA regionale e anche con aziende private come Antonio Mastroberardino, per esempio. Altre attività di ricerca sono state avviate con altri partner e riguardano problematiche di tipo non solo vivaistico, per esempio la creazione di varietà ad uva da tavola apirene, varietà da vino tolleranti alla flavescenza dorata, l’utilizzo a livello di microvinificazioni sperimentali di ceppi particolari di lieviti a bassa efficienzadi trasformazione degli zuccheri in alcol o in grado di potenziare l’estrazione aromatica e, ancora, la verifica del potenziale enologico di varietà ai fini della produzione di vini a bassa gradazione alcolica. Ogni anno produciamo circa 900 micro-vinificazioni relative a uve di cloni italiani ed esteri, varietà resistenti alle malattie, varietà clonali innestate su portinnesti della serie M, e a candidati cloni di varietà estere; tutto ciò, in relazione alla nostra presenza in tutti i Paesi viticoli del mondo».
Parlando proprio di mercati e trend, quali sono i vostri tempi medi di risposta alle richieste dei viticoltori?
«Dipende molto dal tipo di richiesta dei viticoltori: se si tratta di incrementare la produzione di determinate varietà con cloni a larga diffusione i tempi sono brevi; se, invece, si devono mettere a disposizione cloni o portinnesti da poco iscritti al Registro Nazionale delle Varietà, i tempi si fanno più lunghi. Abbiamo bisogno di almeno quattro anni, ammesso di avere il clone già “in casa”, in quanto bisogna allestire le relative piante madri, rispettando i protocolli ufficiali di pre-molti plicazione».
In che modo i flussi di mercato influenzano il lavoro sulle barbatelle?
«C’è un’influenza diretta e immediata. Ad esempio, l’imposizione dei dazi potrebbe avere un’influenza negativa immediata e di retta, sulla propensione del viticoltore a fare investimenti viticoli. Un viticoltore, piccolo o grande che sia, in un contesto di mercato incerto, se ha la possibilità di piantare il prossimo anno, grazie, per esempio, alla proroga dell’autorizzazione all’impianto, ovvia mente preferirà aspettare. Anche il cambio della tipologia di consumo ha degli effetti importanti sul settore vivaistico. Quando il sottoscritto ha iniziato la propria attività la vorativa alla VCR nel 1978, in Italia, si coltivavano per il 70% varietà rosse e 30% bianche; successivamente si è verificato uno spostamento verso i bianchi, per tornare di nuovo ai rossi negli anni ’90 con l’esplodere dei grandi rossi e dei Supertuscan: i viticoltori volevano porre a dimora i vitigni bordolesi in partico lare il Cabernet sauvignon persino in Friuli, nonostante il rischio di produrre vini dal sentore erbaceo e tannino ruvido per insufficiente sommatoria termica. Infine, è scop piata la gran moda del Prosecco e del Pinot grigio e quindi si sono dimenticate le varietà rosse, che, però ora riscontrano nuovamen te un’attenzione soprattutto verso quelle con meno colore, meno struttura e tannini vellutati. Tutto questo crea non poche proble matiche nel mondo vivaistico perché, a differenza degli Stati Uniti dove il vivaista lavora principalmente su commissione (il 95% delle barbatelle è commissionato con un anticipo di un anno e mezzo e un acconto del 30% sul valore della merce), in Europa le prenotazioni sono praticamente meno dell’1% e si lavora su previsione di vendita».
Gli USA hanno indubbiamente dei tempi più lenti rispetto ai cambiamenti di gusto nel vino, mentre da noi il mercato è senz’altro più volubile, ma perché in Europa nessuno prenota prima?
«In Europa, i viticoltori vogliono prima vedere come va la vendemmia, soprattutto per quanto riguarda il prezzo delle uve e dei mosti; si riservano, fino all’ultimo momento utile, la possibilità di cambiare la scelta della varietà, compatibilmente con i limiti imposti dalle DOC e IGT, a meno che non si tratti di varietà che “tirano”, come è stato, per esempio, per Glera o Pinot grigio. In Italia, poi, abbiamo molte aziende piccole, tanto che la media delle nostre vendite è di 2.500 piante per viticoltore, per cui è ancora più difficile chiedere prenotazioni anticipate che, comunque difficilmente si riscontrano anche nelle grandi aziende».
Come impostate le previsioni di impianto in questi casi? Avete un team che analizza i trend di mercato?
«Si cerca di sbagliare il meno possibile. Ci affidiamo ai dati storici e abbiamo il polso del la situazione anche in base alle informazioni che arrivano dalle DOC: se una DOC, per esempio, blocca i reimpianti, sappiamo già che ci sarà solo la quota di rimpiazzi; oppure, se ne vengono autorizzati di nuovi ci muoviamo di conseguenza. Ovviamente, c’è sempre una quota di imprevedibilità. Ad esempio, in Galizia, dove si è deciso per questa campagna di riservare gli aiuti OCM Vino solo alle piccole aziende, la nostra produzione di Albarino e Godello è risultata eccedentaria, quando, l’anno precedente, queste due varietà erano state fortemente richieste e incentivate all’impianto proprio grazie alla OCM Vino. Non avendo dato incentivi alle grosse aziende, è chiaro che la domanda di mercato ha avuto un crollo che ci ha fortemente penalizzato».
Quali sono le varietà più richieste al momento?
«Attualmente la richiesta è ancora sui bian chi, anche se qualcuno sostiene che bisogna tornare a piantare un po’ di rossi, perché la quota di rosso è scesa ai minimi termini. Però, in tutta Europa, lo spostamento è in direzione del bianco: in Spagna, le nostre vendite di Tempranillo in tre anni sono passate da oltre un milione di barbatelle a cinquecentomila, mentre le bianche come Airen e Maccabeu hanno registrato forti incrementi. Tra i bianchi, sono sempre ottimamente richiesti lo Chardonnay, il Sauvignon, il Glera, il Pinot grigio, il Vermentino e anche il Trebbiano toscano, per la produzione di vini base. Vanno sempre bene anche il Fiano, la Falanghina, il Trebbiano di Lugana, la Garganega, come pure l’Ansonica e il Catarratto: quindi le classiche varietà internazionali bianche e le nazionali autoctone hanno sempre successo».
Quanto alle uve rosse, avete notato uno spostamento della domanda verso varietà naturalmente predisposte a dare vini più scarichi?
«Esiste una tendenza appena percettibile che coinvolge il Ciliegiolo, il Groppello, la Freisa, il Nerello mascalese, ma non parlerei di un’esplosione, anche perché, se si vuole restare nella DOC, bisogna attenersi alle varietà che ne sono incluse, a meno che non se ne voglia creare una nuova a sé stante. L’Italia ha una grande potenzialità offerta dal gran numero di varietà esistenti – 400 colti vabili contro le 70 della Francia e una decina negli Stati Uniti – però il numero si riduce a 150/160 per quelle che hanno un certo peso economico. Perciò, più che cambiare le varietà coltivate, si va a cambiare il sistema di coltivazione delle varietà già presenti e che meglio si prestano a dare vini con buona acidità, minore gradazione alcolica e a soddisfazione immediata. Non bisogna dimenticare, poi, che esiste una gamma clonale all’interno dei vitigni più diffusi che offre la possibilità di dare vini diversi. Prendiamo il Montepulciano: ci sono cloni adatti a dare grandi vini e cloni ideali per il Cerasuolo; lo stesso vale per il Sangiovese, che ha cloni che possono dare una decina di tipologie diversi di vini dai più fruttati, meno tannici e meno strutturati a quelli da lungo invecchiamento».
Dal suo punto di vista, quali sono in questo momento le innovazioni, le scoperte e le azioni più rilevanti che potrebbero giovare alla difficile situazione del mondo vi tivinicolo, in particolare quelle causate dal cambiamento climatico, come l’aumento del grado alcolico ma anche le difficoltà di coltivazione e la carenza d’acqua?
«A mio modo di vedere, la genetica darà un grande contributo alla viticoltura. Per con trastare il cambiamento climatico sono stati registrati quattro portinnesti dall’Università di Milano, la serie M, che hanno positive caratteristiche agronomiche: M2 e M4 sono resistenti alla salinità e alla siccità, M1 al calcare, M3 ha vigore ridotto; quindi, rappresentano già un passo in avanti, rispetto alla dotazione esistente. Anche VCR ha avviato un programma di creazione di nuovi portinnesti in grado di resistere, per esempio, alla siccità e alla stanchezza del terreno. Poi, a livello di genetica delle varietà, quello che si sta facendo e che, secondo il sottoscritto, è estremamente importante, è la creazione di nuove varietà resistenti alle malattie, come oidio e peronospora, e tolleranza a black rot. Si sta cercando di introdurre anche la tolleranza al mal dell’esca, altra patologia molto diffusa, attraverso l’introgressione, negli incroci, di geni della Vitis silvestris che presenta tolleranza a questa malattia. Dal 2006 abbiamo iniziato la collaborazione con l’Università di Udine e l’Istituto di Genomica Applicata sul tema delle varietà resistenti; nel 2015 sono state iscritte le prime 10 e nel 2020 altre 4 con genitore Pinot bianco e nero e abbiamo costatato i notevoli progressi sia in termini di resistenza alle malattie sia di livello enologico. E, sicuramente, quel le che usciranno nel prossimo futuro, lo saranno ancor di più, soprattutto per la qualità dei vini, paragonabile o addirittura superiore a quello del genitore nobile. Con l’ibridazione, altro aspetto molto importante, possiamo ottenere anche dei nuovi profili enologici graditi al consumatore: l’abbiamo ri scontrato, per esempio, con l’ibridazione della Ribolla ottenendo genotipi con proflo enologico simile al genitore nobile e altri ricchi in tioli quasi da sembrare dei tagli con Sauvignon; oppure dei Glera più profumati dell’originale. Si stanno creando anche nuovi genotipi meno performanti a livello di accumulo zuccherino, quindi in grado di dare vini meno alcolici, in linea con le richieste dei consumatori. Insomma, possiamo avere delle novità molto interessanti. L’altro campo di studio in atto è l’utilizzo delle TEA per migliorare le varietà già esistenti (ne abbia mo parlato nella cover story del numero 34, N.d.R.), ad esempio silenziando un gene, ma sono manufatti che vanno comunque valutati sul lungo periodo per capire se veramente questo “silenziamento” non si accompagni ad altre interferenze non positive soprattutto dal punto di vista agronomico e fitosanitario: serve sempre una verifica in campo per al meno dieci anni».
Ci sembra di capire che quindi, al momento, la migliore soluzione che abbiamo per le mani sarebbe quella dei nuovi genotipi resistenti o PIWI?
«Il miglioramento genetico per ibridazione è grande attualità e lo si è capito in tutta Europa. È un qualcosa di certo e tangibile che ha decenni di ricerca alle spalle. Noi ci crediamo molto e nel 2026 verranno iscritti una serie di nuovi genotipi (5-6) sui quali abbiamo la vorato per quasi vent’anni valutando le piante in produzione per almeno un decennio; oggi siamo più che mai certi di poter ottenere risultati più che positivi e tali da soddisfare le nuove esigenze dei viticoltori in termini di sostenibilità ambientale ed economica. Solo la burocrazia potrà rallentare la strada al cambiamento e la difesa acritica dello status quo: bisognerà capire, nella fattispecie, la risposta delle DOC. In Francia, ad esempio, dopo l’i scrizione del Voltis nel disciplinare della DOC Champagne e dell’Artaban nella DOC Bor deaux è in atto la procedura per iscrivere il Pinot Kors (UNIUD/VCR) genotipo ottenuto dal Pinot nero, nel disciplinare del Borgogna, in virtù degli ottimi risultati mostrati in vigna. In Italia, invece, siamo nettamente più lenti: in Friuli-Venezia Giulia e varietà resistenti non sono entrate nemmeno nell’IGT, mentre la Regione più all’avanguardia, il Veneto, le aveva incluse già dal 2015. Purtroppo, ci sem bra di capire che per le DOC la strada sarà ancora più lunga… ma restiamo ottimisti!»
Visita a VCR: il racconto di chi c’era Lo scorso febbraio, ONAV ha organizzato una visita presso la sede centrale dei Vivai Cooperativi Rauscedo (PN), il cui obiettivo era andare ad ap profondire la conoscenza delle barbatelle e della loro storia. Abbiamo chiesto a una partecipante di raccontarci la sua esperienza.
di Federica Paridi
«Non conoscevo il paese di Rauscedo né la storia della Cooperativa di Vivaisti alla quale ha dato i natali, ma la mia sete di conoscenza per il mondo del vino mi ha spinta a volerne sapere di più. Ed è stato incredibile scoprire come questa piccola frazione del comune di San Giorgio della Richinvelda, in Friuli-Venezia Giulia, si sia saputa guadagnare una rilevanza mondiale nell’ambito del vivaismo viticolo. In questo territorio, compreso tra i fiumi Meduna e Tagliamento, la storia ci insegna, infatti, sia stata perfezionata la tecnica che ha portato al superamento della fillossera, un afide che si nutre della linfa della vite attaccandone le radici e che, alla fine dell’Ottocento, stava annientando l’intera viticoltura europea. Ciò consiste in un portinnesto che unisce la parte radicale della vite americana – immune agli attacchi della fillossera – con quella aerea della vite europea, preservando le caratteristiche della pianta originale. La prima sensazione che si prova arrivando sul posto è di trovarsi realmente nel luogo esatto in cui tutto ha inizio, l’alfa della nostra storia vitivinicola. Un’impressione rafforzata dalla presenza, all’altezza di una rotonda in prossimità della Cooperativa, di una lastra di bronzo dove è incisa la frase: “Rauscedo: le radici del vino”. Ascoltare il racconto di questi luoghi fatto dal presidente del VCR, Alessandro Leon, e vederne il funzionamento è stato emozionante. Soprattutto, pensando al fatto che la loro fondazione risale agli anni ‘30, subito dopo la Prima Guerra Mondiale, in un contesto di austerità e povertà, in cui questa terra composta da sassi e ciottoli e pertanto molto difficile da coltivare, rappresentava la sola fonte di sostentamento. VCR è diventato il simbolo del riscatto di una comunità intera, in Italia e, nel tempo, in tutto il mondo, grazie alla caparbietà dei contadini, dagli operai e dai cittadini tutti. Significative, in tal senso, le stampe in bianco e nero dei lavoratori dell’epoca esposte all’ingresso dei Laboratori di Rauscedo, in cui i volti appaiono con chiari segni di fatica e allo stesso tempo esprimono un senso di orgoglio e di profonda appartenenza. La struttura interna del vivaio ai miei occhi appare enorme. Osservo stupita i macchinari utilizzati per la lavorazione delle barbatelle. L’emozione aumenta avvicinandosi alle piantine: sono ben accatastate, etichettate e pronte per essere imballate e spedite nel mondo. Il momento più emozionante è stato, però, quan do siamo entrati nella struttura di uno dei soci conferitori che si sono resi disponibili ad accoglierci nei loro magazzini per farci conoscere personalmente la loro realtà lavorativa. Trattasi di un’attività del tutto familiare, portata avanti con dedizione e passione. Colpisce il modo in cui descrivono il loro mestiere, con amore e serenità nei volti. Dalle loro voci traspare persino il senso di una missione da perpetuare nel tempo: il preservare non solo la propria storia, ma l’essenza di un territorio e delle sue tradizioni più radicate. Ci viene mostrato, in ogni dettaglio, il processo di produzione di una barbatella: il taglio, la pulizia dei tralci sia manuale sia meccanica, la raccolta degli spezzoni nelle diverse misure e la loro conservazione nelle celle frigorifere. L’attenzione maggiore è posta sull’innestatrice a banco di tipo Omega, un macchinario attivato da un movimento a pedale, che unisce marza e portinnesto. Un gesto apparentemente semplice, ma che richiede capacità artigianale, massima cura e attenzione. La medesima cura, poi, è prestata a proteggere il taglio e consolidare il punto di innesto. Le talee sono ora pronte per essere adagiate in cassoni con strati di segatura bagnati in superficie, conservati in celle frigo, in attesa della loro destinazione finale. Terminata la visita in azienda, ci siamo spostati di qualche km per entrare nel VCR Research Center. Una struttura moderna, ma che intende richiamare simbolicamente i tratti distintivi di un vigneto vero e proprio: le colonne portanti esterne rappresentano i tutori della vite, la volta invece la chioma e la struttura interna l’evoluzione della vite. Una perfetta dimostrazione di quanto tecnica, modernità e natura possano dialogare tra loro. L’idea di dotarsi di un centro ricerca risale agli anni ’60, specificatamente al 1965, quando i Vivai Cooperativi Rauscedo, fino ad allora l’unica azienda privata a potersi definire” Costitutore Viticolo”, decisero di realizzare un centro viticolo avente come scopo non solo il perfezionamento delle tecniche vivaistiche, ma anche di avviare un programma di miglioramento genetico. Ciò in previsione delle nascenti difficoltà del cambiamento climatico e di una maggiore richiesta di sostenibilità ambientale da parte degli agricoltori e dei consumatori. Il complesso è disposto su una superficie di ben 2.000 metri quadri, con otto laboratori dedicati alla ricerca e sviluppo attrezzati con le più avanzate tecnologie, tutte visibili dall’esterno median te grandi vetrate. Inoltre, si trovano una cella frigorifera a umidità controllata e con un sistema di sanitizzazione ad azoto per la conservazione del materiale vegetale, una cella di stoccaggio, una screen house in cui sono conservate le piante madre capostipite delle linee clonali di VCR, unacantina di microvinificazione unica nel suo genere e la sala di degustazione, dove abbiamo assaggiato una ventina di vini in anteprima prodotti da varietà resistenti, alcuni più noti come Sauvignon Kretos e Sauvignon Rytos, altri ancora inediti. Durante questa esperienza di grande formazione, ho avuto l’impressione di intraprendere un viaggio nel tempo, seguendo l’evoluzione degli eventi umani e l’applicazione della tecnologia alla scienza, con tutte le sue moderne ramificazioni. Solo affrontando e cercando di superare le numerose sfide che emergono lungo questo percorso, si può comprendere appieno quanto tutto sia estremamente interconnesso. È, per tanto, fondamentale proseguire sulla via della ricerca, della sperimentazione e dell’innova zione, riconoscendo l’importanza di questi ele menti nel progresso scientifico e tecnologico».