Continua il nostro viaggio alla scoperta dei vini passiti d'Italia, scrigni poco noti che custodiscono un immenso valore culturale, prima che enologico, e che meritano di essere riscoperti
Il nostro viaggio alla scoperta dei Passiti d'Italia prosegue alla volta della Toscana. Qui, si apre una parentesi importante, ai limiti del misticismo, potremmo azzardare. Incontria mo, infatti, il Vin Santo, una delle famiglie di passiti più leggendarie e preziose che esistano al mondo. Questo particolare gioiello enoico viene prodotto in pochissimi luoghi d’Italia (un raro esempio si è visto a Gambellara, ma possiamo trovarne qualcun altro in Emilia-Romagna e in Umbria), e la Toscana è senza dubbio il luogo in cui più si è radicato, tanto che è diventato iconico e molto dibattuto l’abbinamento con i tradizionali cantucci. Sebbene si chiami Vin Santo Toscano, tuttavia, pare trovi i propri natali in Grecia: c’è chi afferma sull’isola di Santorini. Una delle ipotesi etimologiche più accreditate, accanto a quelle più comuni che lo riconducono ad aspetti religiosi legati al rito della Santa Messa cristiana e al consumo liturgico nelle festività pasquali, è invero quella che lo vede legato al termine Ξανϑός (xanthos) “giallo”. L’uva bianca Trebbiano è affiancata da vitigni aromatici e semiaromatici come Malvasia e Grechetto; i grappoli migliori vengono ovviamente selezionati e fatti appassire in cassette, su graticci, oppure intrecciati e appesi. Si tratta di lunghi appassimenti (anche fino a 6 mesi) che portano a concentrazioni zuccherine elevatissime, tanto che la fermentazione talvolta fatica addirittura ad avviarsi. Quando parte è poi lentissima: il mosto fermenta in piccoli caratelli di legno (50-100 litri), tradizionalmente posizionati nei granai e nei solai delle case. E qui viene il bello. In primo luogo, i caratelli stessi apportano quella che è comunemente conosciuta come “la madre”, un vero e proprio inoculo di microrganismi, indigeno e unico nel suo genere, spesso tramandato da generazioni. In secondo luogo, il “metodo” impone, arrivati a questo punto, di dimenticarsi del Vin Santo che sta nelle botti, almeno per qualche anno. L’alternarsi delle stagioni e il continuo saliscendi delle temperature (sbalzi tipici, ad esempio, nella produzione del Madeira), uniti all’ambiente ossidativo dato dalla scolmatura dei vasi, determina stress per i lieviti che, oltre ad avere a che fare con una gran mole di zucchero da lavorare e dalla tossicità dell’alcol che si sviluppa, sono costretti a interrompere e riprendere ciclicamente il loro lavoro. In terzo luogo, queste condizioni fanno sì che vi sia lo sviluppo di acidità volatile, imprescindibile componente caratterizzante di un Vin Santo. Tutto questo, si badi, è opposto a quanto avviene durante le normali vinificazioni, e per certi versi ad alcuni dogmi dell’enologia moderna. Sarà per questo che il risultato finale è magicamente diverso dall’ordinario, intrigante, raro, mistico anche nelle sensazioni. È doveroso a questo punto menzionare – una nicchia nella nicchia – la tipologia di Vin Santo denominata “Occhio di Pernice”, espressione che può legarsi a Vin Santi prodotti in differenti aree toscane e includersi nelle rispettive Denominazioni. Non è, infatti, la zona a fare da discriminante, ma l’uvaggio (non più bianco) che deve contemplare almeno il 50% di Sangiovese. Il colore di questo vino, in base all’affinamento, non sarà perciò dorato-ambrato ma assumerà sfumature dal rosa al mattonato, retaggio dell’ossidazione degli antociani dell’uva rossa e poeticamente simili all’iride di un occhio di pernice. Come detto, di santità non ce n’è molta in giro. Per trovare un altro esempio interessante, bisogna fare un balzo addirittura in Trentino. Solo che qui si chiama Vino Santo Trentino, e quella “o” finale è importante. Non è solo questione di tecnica: alla base di questo vino c’è l’unica uva autoctona del Trentino, la Nosiola. Uva neutra a bacca bianca, predilige suoli magri e climi asciutti: in Valle dei Laghi, sui terreni in prossimità del Lago di Toblino, la Nosiola pare avere la sua culla esemplare. Ha grappoli piuttosto spargoli, perfetti per essere riposti in appassimento. Un aspetto curioso di questa varietà è che fu gradualmente abbandonata perché a vendemmia tardiva, e quindi non garantiva una maturazione ottimale ogni anno in un clima di montagna: ciò sarebbe oggi – in tempi di cambiamenti climatici e frequenti anticipi fenologici – oggetto di ben altre valutazioni. In ogni caso, le vigne più mature della manciata di ettari rimasti generano le uve per il Vino Santo Trentino. L’appassimento è lento, lungo (fino alla Pasqua, o in ogni caso non prima del 1° marzo), e spinto fino a una perdita di peso anche di 2/3. Come ogni passito, anche questo ha un tratto specifico e romanticamente unico: il vento, in questo caso. Ma non un vento qualunque. L’Ora del Garda inizia a spirare ogni pomeriggio dal Lago di Garda, con un soffio intenso e costante. Quando le uve sono ancora in vigna, le accarezza ed evita un’eccessiva umidità, mitigando anche le temperature; quando invece i grappoli sono ad appassire nei fruttai (tradizionalmente con finestre utilizzate per regolare il flusso d’aria), l’Ora è essenziale per determinare corrette condizioni di temperatura e umidità permettendo un appassimento dolce e senza forzature. Solo sette produttori si avventurano a produrre il Vino Santo, con diverse interpretazioni che portano comunque al consumo longevo e centellinato di questa rarità di straordinaria ricchezza e lunghezza sensoriale. Tornando nei pressi della Toscana, un altro grande passito ha il proprio regno nientemeno che su un’isola: l’Elba. Anche qui, come può immaginare chiunque abbia fatto anche solo una vacanza in questo paradiso, la conformazione del territorio rende eroica la viticoltura, che è la risultante di terrazzamenti su pendenze elevate, suoli poveri, e la costante ventilazione che accomuna tutti i luoghi costieri ed è così preziosa per l’appassimento delle uve. Non si può parlare d’Elba, ovviamente, senza tirare in ballo l’Aleatico. Si tratta di un vitigno rosso noto anche in altre regioni d’Italia (Puglia, Lazio), ma che qui rappresenta l’autoctono per eccellenza e conta una superficie vitata pari a circa un terzo del totale della DOC Elba. Varietà semiaromatica e piuttosto riconoscibile a livello sensoriale, ha bassa produttività e rapidi accumuli zuccherini in maturazione. I grappoli si prestano bene ad appassimenti fuori pianta in locali idonei, senza forzature; al contrario degli esempi visti finora la perdita di peso si svolge in tempi relativamente brevi. In questa panoramica lungo il Belpaese, si inizia ora a notare come al Nord sono spesso più diffuse varietà adatte a lenti appassimenti e trasformazioni postraccolta, mentre al Sud e nelle regioni più calde la tendenza è di avere varietà grandi accumulatrici di zuccheri in brevi lassi di tempo, adatte ad appassimenti più rapidi. Quest’ultimo caso prevede che accanto all’ovvia concentrazione di zucchero resti pressoché inalterato il corredo aromatico varietale, che dopo l’asciugatura è quindi del tutto simile a quello dell’uva fresca. Lo stile, di conseguenza, è quello di un passito dai tratti freschi, che affina tendenzialmente tra acciaio e bottiglia e che viene consumato giovane, anche per esaltarne l’aromaticità. C’è infatti chi sostiene che questa uva straordinaria derivi da una mutazione del Moscato. Menzionare il Moscato apre la stura a una doverosa parentesi sul concetto di aromaticità, che coincide poi con una carrellata nella carrellata di vini passiti che si sta qui affrontando. Non si parla infatti di un vitigno, ma di una famiglia di uve che origina ovunque in Italia vini dolci, secchi, fermi e mossi. Si tratta di uve aromatiche: tali si definiscono le varietà i cui profumi sono concentrati, riconoscibili, e si mantengono intatti anche dopo la vinificazione. I Moscati, nella fattispecie, palesano spiccate note floreali dovute a elevate concentrazioni di terpeni: se appassiti, quindi, esaltano questi aromi e li portano a un livello di piacevolezza estrema. Il membro più noto di questa famiglia è il Moscato bianco, che ad Asti ha scritto pagine indelebili dell’enologia italiana, ma è molto diffuso anche il Moscato giallo e alcune varianti in rosso e in rosa; varietà antichissima, ha subìto nel tempo mutazioni alla base delle odierne, diverse, colorazioni. Se si facesse una ricerca online sui passiti da uve Moscato, se ne troverebbero ovunque, e si incontrerebbe sia il caso di aziende che ne hanno mezzo filare e fanno il proprio soggettivo vino dolce, sia il caso di intere Denominazione legate al nome di questo vitigno. In Sicilia si trova sotto diverse forme, dal Moscato di Siracusa al Moscato di Noto, a quello che prende il nome di Zibibbo per dare il celebre Passito di Pantelleria. E ancora, in giro per l’Italia, altri esempi sono il Moscato di Trani, il Moscato di Scanzo, il Moscato giallo Fior d’Arancio dei Colli Euganei comunemente detto Fior D’Arancio. Chiusa parentesi, si balza ora in un’altra regione costiera – la Romagna – terra del meraviglioso passito bianco afferente alla denominazione Romagna Albana DOCG basata sull’omonimo vitigno. Coltivato principalmente fra le province di Ravenna, Forlì-Cesena e Bologna, il vitigno Albana ha un’etimologia piuttosto palese, legata alla radice latina albus che significa bianco, candido. In vigneto ha una peculiarità congenita: i grappoli di una stessa vigna, infatti, non maturano in modo omogeneo: questo comporta la pratica della raccolta scalare, cioè in due o più passaggi per portare in cantina solo i grappoli perfettamente maturi. Ciò ha storicamente influenzato anche la partica di cantina: vini freschi e leggeri dai primi passaggi, vini più dolci e pregiati dagli ultimi passaggi. Si apprezzano diverse tecniche di concentrazione zuccherina: appassimento in pianta, sviluppo di muffa nobile quando possibile, selezione scalare anche dei grappoli appassiti o muffati, appassimento in solai o appositi locali ventilati. Il disciplinare di produzione è molto specifico in merito all’appassimento fuori pianta: non può finire prima del 15 ottobre dell’anno di vendemmia, né protrarsi oltre il 30 marzo dell’anno successivo. Cosa rara, c’è uno specifico comma per l’appassimento in pianta con muffa nobile: questo, infatti, è uno dei pochi luoghi in Italia dove si producono tradizionalmente vini muffati, la cui genesi è notoriamente difficile perché soggetta a condizioni pedo-climatiche infrequenti. In poche parole, quando lo decide la natura. Trattandosi di qualcosa di particolarissimo, si rende forse necessario un breve memento. La muffa nobile, che sporadicamente si sviluppa durante l’appassimento per la produzione di molti passiti senza esserne caratterizzante, è invece ricercata e tipica solo di pochissimi (e peraltro famosissimi) vini al mondo. Botrytis cinerea, si sa, è una delle malattie fungine più dannose per l’uva. La sua versione nobile si ha quando la muffa non si sviluppa all’esterno degli acini con il consueto micelio grigio seguito dalla marcescenza, bensì solo all’interno degli acini (che vengono detti “infavati”). La buccia si fa più sottile e porosa, e il metabolismo respiratorio del fungo velocizza la traspirazione e il tasso di evaporazione dell’acqua dagli acini. Ciò comporta disidratazione, e quindi una sorta di appassimento per il quale gli acini imbruniscono gradualmente lungo il grappolo, rendendo necessaria una vendemia scalare, acino per acino. Aumenta la concentrazione zuccherina, si abbassa l’acidità, e si ha sintesi di glicerolo, acido gluconico, acido saccarico e botriticina, oltre ad esteri, polialcoli e lattoni, che danno al vino profili aromatici unici e ampi: note elaborate di mandorla e zafferano, sentori “biologici”, sensazioni di scorrevolezza e untuosità davvero affascinanti. Come detto, un vino muffato è difficile da ottenere: non si può fare ovunque, non si può fare in tutte le annate e non si può fare con tutte le varietà d’uva. Alcuni dei canoni ubiquitariamente riconosciuti sono l’avvicendamento di bagnatura e asciugatura dei grappoli (giornate soleggiate e ventilate alternate a notti fresche e umide adatte all’insorgere della muffa), escursioni termiche, buone esposizioni e vicinanza a fiumi e specchi d’acqua.
In Italia, oltre all’Albana di Romagna, vale la pena senz’altro di citare un altro caso em blematico: quello dei Muffati Orvietani. La Denominazione Orvieto DOC, baluardo dell’enologia umbra, è l’unica che prevede legalmente la tipologia “Muffa Nobile”. Qui, nei luoghi dove il Paglia e il Tevere si uniscono, e soprattutto attorno al bacino artificiale di Corbara, sussistono le perfette condizioni per lo sviluppo della muffa nobile. La Botrite è frequentemente presente a causa dell’elevata umidità notturna dei mesi autunnali, ma l’ottimale ventilazione giornaliera inibisce l’effetto dell’umidità creando un’alternanza giornaliera che lascia il fungo sempre a uno stadio di sviluppo limitato. Il Disciplinare prevede per la tipologia “muffa nobile” la stessa base ampelografica delle altre tipologie, e cioè almeno un 60% dei locali Grechetto e Trebbiano toscano (localmente detto Procanico); c’è anche chi persegue il proprio particolare stile inserendo nel blend anche altre uve, soprattutto aromatiche, come Sauvignon e Traminer, ma anche Sémillon e Malvasia. Il risultato è sempre sorprendente, e lascia la piacevole soggezione di trovarsi di fronte a un vino meravigliosamente insolito. Rimanendo in Umbria (ma cambiando colore) è inevitabile pensare a un passito senza parlare del Sagrantino e della famosa Denominazione Montefalco Sagrantino DOCG che lo vede protagonista. Vitigno rosso autoctono straordinario, fra i più tannici del mondo, il Sagrantino pare essere coltivato in queste zone da tempo immemore e utilizzato nelle funzioni religiose come vino consacrato (il nome stesso, da “sagrestia”, indica questa radice etimologica): la versione passito contemplata dal disciplinare, in particolare, ebbe proprio questa funzione per secoli e oggi rappresenta una nicchia di minore entità commerciale in seno alla produzione totale della DOCG. L’uva raccolta, con rese molto basse, viene fatta disidratare in cassette o sui tradizionali graticci di legno detti “Camorcanne”, in appositi locali ventilati. Viene ammesso l’appassimento naturale, ma anche il controllo dell’umidità tramite deumidificazione, purché non si ricorra al riscaldamento. Essendo una varietà dalla buccia coriacea che impedisce agli acini di marcire, il Sagrantino sopporta lunghi appassimenti arrivando a ingenti concentrazioni zuccherine. Il passito esalta le note varietali di mora, frutti rossi e spezie dolci, regalando anche piacevoli terziari e delicate derivazioni terrose e minerali. Proseguendo il viaggio verso le Marche, si noterà che non vi sono denominazioni dedicate esclusivamente a un vino passito ma ve ne sono varie che ammettono tale tipologia. Prendendo come esempio le due Denominazioni più famose della Regione, Verdicchio dei Castelli di Jesi e Verdicchio di Matelica, prevedano di quest’uva prodigiosa la declinazione in ottimi passiti bianchi, con una regolamentazione piuttosto specifica che ne fissa la resa, il contenuto zuccherino e il limite temporale minimo per l’immissione al consumo. Il Verdicchio Passito è strutturato, materico, di sostanza ma aggraziato. Conserva la salinità della terra e del mare con spiccata tensione sapida in contrasto con la dolcezza. È elegante e complesso, delicato e mai sopra le righe, recando accanto ai frutti delle affascinante percezioni officinali, rocciose e di macchia mediterranea. Da segnalare nelle Marche è anche l’accezione passita della Vernaccia nera: più conosciuta per vini secchi di corpo o per le particolarissime bollicine di Serrapetrona, anche nella versione dolce non si esime da grandi soddisfazioni. Più a sud, la DOC Abruzzo prevede sia la tipologia passito bianco (per cui sono consentiti Malvasia, Moscato, Passerina, Pecorino, Riesling, Sauvignon, Traminer e altri vitigni minori), che la tipologia passito rosso, alla cui base c’è il Montepulciano, vitigno più rappresentativo della Regione. Anche i vitigni più famosi della Campania, sia i bianchi che i rossi, danno grandi risultati con l’appassimento in pianta, consentito dallo splendido clima delle loro terre native. L’Irpinia ha una storia viticola millenaria, ed è infatti patria di vini molto conosciuti come il Taurasi, il Fiano di Avellino e il Greco di Tufo. È proprio da questi stessi vitigni che si ottengono i passiti contemplati dalla DOC Irpinia. I passiti di Aglianico, innanzitutto, sono piccoli gioielli prodotti attraverso l’appassimento naturale direttamente in pianta; la grande carica tannica varietale dona struttura anche ai vini dolci e ne compensa le componenti sensoriali morbide. Considerato uno dei più importanti vitigni rossi del Sud Italia, già conosciuto nell’antica Roma e addirittura nell’antica Grecia (sembra trarre origine il proprio nome da “Elleanico” o “Ellenico”), rende splendidamente sulle colline Irpine perché l’altitudine lo tiene lontano da temperature estive troppo alte, cui è un po’ insofferente. Anche il vitigno bianco Greco ha un nome che ne indica chiaramente l’origine; dotato di caratteristiche fenoliche tali da produrre vini adatti anche a invecchiamenti importanti – qualità piuttosto rara per un’uva bianca – ha una buona aromaticità che viene esaltata dall’appassimento in pianta o su graticci. Il Fiano, per citarne un terzo, è un vitigno bianco coltivato un po’ in tutto il Sud Italia ma che in Irpinia ha trovato un ottimo habitat grazie alle temperature mai altissime e alle escursioni termiche, oltre che ai suoli perfettamente compatibili con le sue esigenze. La buccia spessa lo rende adatto all’appassimento, e la buona acidità permette di ottenere passiti longevi e ben tesi in bocca, con un bouquet raffinato. Spostandosi dall’Irpinia e giungendo nell’antichissima zona viticola del Sannio Beneventano, si incontra – oltre a quelle già menzionate – un’altra varietà di uva che dà espressioni passite molto intriganti: la Falanghina. A questo vitigno bianco è dedicata una specifica DOC che include anche una versione passita, anche se è prevalentemente utilizzato per vini fermi e spumanti. Ampiamente coltivato nell’antichità e poi abbandonato, fu riscoperto nel XX secolo essendo resistente alla Fillossera e palesando, se lavorato in purezza, pregevoli qualità organolettiche ed enologiche. La Falanghina non è particolarmente aromatica ma può dare grandi emozioni se appassita, sia in pianta che dopo la raccolta: le impressioni sbarazzine e leggere che si trovano nei vini freschi virano a note di frutti maturi e mieli aromatici, in vini passiti di elevata levatura, struttura e alcolicità. È interessante proseguire esplorando, nelle meravigliose regioni del Meridione italiano, alcuni altri esempi di Denominazioni che prevedono versioni passite molto affascinanti. La DOC Matera in Basilicata contempla le tipologie passite Matera DOC Primitivo Passito e Matera DOC Bianco Passito. Quest’ultima si compone principalmente della varietà bianca Malvasia Bianca di Basilicata (minimo 85%). La famiglia delle Malvasie pare trarre il suo nome alla roccaforte di Monemvasia sul Peloponneso, ove si producevano vini dolci celebri nell’antichità; vi sono molte Malvasie in giro per tutta l’Italia (Valle d’Aosta, Lipari, Sardegna, per nominarne qualcuna), che grazie all’innata aromaticità hanno attitudine a produrre vini dolci da appassimento legati anche a un consumo popolare e festaiolo. La Malvasia appassita, di norma, regala sensazioni mielate, fruttate ma anche officinali, con buona sapidità e spalla acidica se ben lavorata. La DOC Terre di Cosenza in Calabria ammette molti vitigni anche in versione appassita, da quelli internazionali fino a quelli più tipici come Greco Bianco, Montonico e Magliocco. La tipologia Terre di Cosenza DOC Magliocco Passito, basata sull’omonimo vitigno, merita senz’altro qualche parola per le peculiarità di questo vitigno solo recentemente riscoperto. Il Magliocco è infatti una varietà da sempre presente sulle colline di Donnici, ma mai molto valorizzato probabilmente a causa di alcune sue caratteristiche che non lo rendono semplicissimo da coltivare, come la difficoltà nel giungere a maturazione e la compattezza dei grappoli. Il Magliocco più diffuso oggi è il cosiddetto Magliocco dolce, geneticamente diverso dal più raro Magliocco canino. Uva molto versatile che ha sia una grande ricchezza di profumi esaltata nelle versioni fresche, sia un grande potenziale in polifenoli che può dare grande struttura e longevità. Il passito è rosso intenso, dolce e vellutato, dai profumi di confettura e frutta disidratata. Avvolgente in bocca, ha tannini setosi che perdurano a lungo integrando la dolcezza. In Puglia, è inevitabile apprezzare – fra gli altri – il Primitivo di Manduria Dolce Naturale DOCG. Capolavoro ormai purtroppo raro da assaggiare, rappresenta un’interpretazione divina del vitigno Primitivo, molto conosciuto e rappresentativo della regione, così chiamato per la sua precocità di maturazione: nelle sue zone di più antica coltivazione (Manduria, Sava, Torricella e Maruggio) storicamente era il primo ad essere vendemmiato. In agosto, a inizio raccolta, negli acini vi era già un accumulo zuccherino tale da toccare la surmaturazione o addirittura l’appas simento in pianta; la vinificazione avveniva tradizionalmente a livello familiare, nelle cantine interrate delle case, e le artigianali fermentazioni spontanee lasciavano normalmente dello zucchero non svolto che rendeva il vino piuttosto dolce. Il disciplinare di produzione ammette oggi sia l’appassimento in pianta che all’aperto su graticci o in cassette, e anche in locali dotati di sistemi per il controllo di temperatura, umidità e ventilazio ne. In ogni caso, la resa massima dell'uva in vino non deve superare il 60%, e il Primitivo di Manduria Dolce Naturale non può essere immesso al consumo con un residuo zuccherino inferiore a 50 g/l. Vino poeticamente arcaico, ha radici romantiche sin dal vigneto: il tradizionale sistema di allevamento del Primitivo è l’Alberello Pugliese, basso e senza sostegni, la cui filosofia è quella di lasciare libera la vigna perseguendo un’espansione equilibrata e tendenzialmente ridotta a causa degli scarsi apporti idrici e nutrizionali. La produzione è scarsa, e la meccanizzazione è impossibile. Il Primitivo di Manduria Dolce Naturale è di colore violaceo scuro, impenetrabile, e ha profili olfattivi improntati sui frutti neri maturi, talvolta in sciroppo, non senza mediterranee impressioni terrose. Pieno, avvolgente, morbido, caloroso come solo un abbraccio pugliese può essere.
Pare sia giunto il momento, nell’esplorazione dei principali passiti italiani, di abbandonare la terraferma per addentrarsi di nuovo in qualche isola. La Sicilia è la più grande del Mediterraneo e può considerarsi un paradiso fatto di molti scenari a livello culturale, storico, e anche viticolo; fra i grandi vini della regione sono ovviamente annoverati anche alcuni passiti di grande pregio e fama. Già si è accennato ad alcuni esempi di Moscato passito lungo la costa orientale dell’isola (Noto, Siracusa), ma arrivando fino all’arcipelago delle isole Eolie si incontra un altro profumatissimo passito, la Malvasia delle Lipari DOC. Uva aromatica, si è visto, la Malvasia bianca può essere affiancata dalla varietà Corinto nero per dare vita a siffatto dolce ricamo, intrigante espressione di questi suoli vulcanici incorniciati da scorci marini fra i più belli del Mediterraneo. Ed è poi su un’altra isoletta, dalla parte opposta della Sicilia, che prende vita il vino che probabilmente più di ogni altro ha reso la parola “passito” famosa e utilizzata: il celebre Passito di Pantelleria, afferente alla DOC Pantelleria. Celebre non solo perché è un’autentica delizia per i sensi, ma anche perché il contesto in cui si genera è fatto di elementi unici e di una bellezza fuori dal comune. Un’isola bellissima al centro del Mediterraneo, siccitosa d’estate e battuta dei venti marini; suoli neri di matrice vulcanica, muretti a secco fatti a mano con scure rocce laviche; viti coltivate ad Alberello Pantesco (Patrimonio UNESCO dal 2014) senza sostegni, striscianti a pochi centimetri dal suolo, in conche scavate nella terra con potature corte per proteggersi dal vento incessante. Se tutto questo non bastasse, c’è anche un’uva eccezionale. Lo Zibibbo, conosciuto anche come Moscato di Alessandria, è originario del Nord Africa, e anche la sua etimologia pare ricollegarsi alla parola “Zabīb”, che significa “uva passa”. Nonostante le origini, tuttavia, in Sicilia mostra un’espressività unica per la sua aromaticità di Moscato, sia in vini secchi molto profumati, sia in vini dolci da uve passite. E a tal proposito, l’appassimento che si fa qui è particolare da conoscere e da ammirare, in quanto esempio di tecnica antica dettata dalle condizioni del territorio. Le uve vengono vendemmiate con un leggero anticipo a mano e lasciate appassire al sole e al vento per un tempo variabile dalle tre alle quattro settimane. A quel punto i grappoli appassiti vengono “sgrappolati”, separati cioè dal raspo, e aggiunti a mosto da uve fresche per avviare la fermentazione: questo assemblaggio è fondamentale, perché le uve appassite hanno un tenore zuccherino talmente alto da inibire l’azione fermentativa dei lieviti: diluendolo nel mosto di uve vendemmiate fresche, si crea un ambiente più adatto a cinetiche microbiologiche efficienti. Condizioni uniche anche in cantina, quindi, oltre che nell’uva, nella terra, nell’aria stessa. Con questi presupposti, è lapalissiano che il calice dorato che risulta sia qualcosa di stra ordinario: frutti, fiori, mieli, sali, mari fanno tutti parte del prodigio aromatico del Passito di Pantelleria. Per volgere al termine, anche nella splendi da Sardegna si scopre che eccezionali uve autoctone come Malvasia, Nasco e Cannonau trovano con l’appassimento inaspettate espressioni, non così comuni da trovare e da assaporare. Il Cannonau non ha bisogno di presentazioni. Diffuso in molte parti del mondo sotto diversi nomi (Grenache, Garnacha, Tai Rosso, Gamay del Trasimeno, Guarnaccia, per dirne alcuni) è talmente diffuso in Sarde gna da esserne divenuto a livello viticolo in simbolo e l’autoctono per eccellenza, coprendo circa un terzo dei vigneti della regione. La DOC Cannonau di Sardegna prevede diverse tipologie di vino, fra cui il Passito: per ottenerlo è consentito sia l’appassimento delle uve sulla pianta, sia su graticci in locali appositamente ventilati o condizionati. La resa in vino non può superare il 55% e l’immissione in commercio deve avvenire a partire dal 1° novembre dell’anno successivo alla vendem mia. A livello enologico, per quanto si arrivi già in maturazione a interessanti aromaticità e ottimi accumuli zuccherini, colore, acidità e polifenoli spesso non sono a livelli importanti, e l’appassimento consente in qualche misura di compensare tali lacune, affiancando anche una dolcezza che rende insolito e intrigante il profilo varietale. Profilo che nel passito diventa pura poesia sarda: dalla frutta matura al mirto, dalle amarene ai mieli scuri e non mancano note balsamiche verdi e sottili a enfatizzare qualche traccia di freschezza. Altro vitigno interessante è il Nasco. Il nome particolare deriva dalla versione arcaica “Nascu” (talvolta sinonimizzato come “resu” o “ogude arrana”), derivante a sua volta da “Muscus” che significa muschio. La nota muschiata è infatti un aroma varietale caratteristico di quest’uva bianca, trasmesso anche ai vini, insieme ad altre note officinali e di macchia mediterranea di tale intensità da poterlo senz’altro comprendere fra i vitigni aromatici. Di antica diffusione sull’isola soprattutto a sud e sud-ovest, viene valorizzato in modo multiforme dal disciplinare della DOC Nasco di Cagliari che prevede varie tipologie cui il vitigno si presta: dai vini bianchi secchi a quelli passiti, grazie alle ottime performance zuccherine soprattutto in caso di surmaturazione. Il passito è ottenuto dopo leggera disidratazione delle uve in pianta o su stuoie. Infine, si cita la piccola ma ricercatissima DOC Malvasia di Bosa, a base dell’omonimo vitigno che arrivò in Sardegna, si crede, alla fine dell’Impero Romano attraverso i porti di Cagliari e Bosa nei cui comprensori si è poi maggiormente diffuso. L’areale di maggiore diffusione della Malvasia è quello della Planargia, su basse colline calcaree e in un clima molto secco che favorisce la surmaturazione e la concentrazione aromatica. Si parla di qualche decina di ettari e una manciata di bottiglie prodotte, ma di qualità ed eleganza impensabili. Il passito contemplato dal disciplinare è ottenuto facendo disidratare l’uva su pianta o in locali idonei fino a raggiungere un contenuto zuccherino minimo di 272 g/l, anche con l’ausilio di ventilazione forzata o impianti di termocondizionamento. La Malvasia di Bosa passita è dolce e calda, tradizionalmente destinata a essere conservata per ospiti importanti e legata a occasioni di festosa convivialità. Una sintesi, insomma, dello spirito racchiuso in ogni vino passito.