Le terre dell’Erbaluce di Caluso DOCG coprono una parte del territorio del Canavese racchiusa dall’Anfiteatro Morenico di Ivrea. Laddove un vitigno avvolto nella leggenda incontra una sapiente tecnica viticola tutto diventa possibile: prodigiosi vini bianchi, grandi spumanti e passiti di leggiadra raffinatezza
Sin dagli albori della cultura l’uomo s’è compiaciuto nel voler personificare elementi naturali e geografici. I fiumi, immancabilmente, sono sempre stati fra gli iconemi più “umanizzati” – da Virgilio a Kierkegaard, da Ungaretti a Tolo da Re, tanto per fare qualche nome – poiché invero molto calzanti al paragone fra il proprio corso e la vita di un uomo. La Dora Baltea, il più importante fiume delle Alpi Occidentali cui Carducci e Manzoni pure hanno riferito pittoreschi appellativi, non meno d’altri fiumi si presta a tale ruolo. Se per giuoco volessimo porci dal suo punto di vista, affronteremmo un percorso a dir poco avventuroso di quasi 170 chilometri: dal massiccio del Monte Bianco scenderemmo fra dirupi e cascate passando per Morgex, Aosta, Chambave, Saint-Vincent, Pont-Saint-Martin per giungere poi in Piemonte. Avremmo nel frattempo raccolto l’acqua di molti torrenti e saremmo ormai – giungendo alle porte di Ivrea – un fiume ben pasciuto; da qui in poi, dopo tutto quel saltare fra gole e roccaforti, ci godremmo il meritato riposo d’un corso più placido nel Canavese, prima di sfociare nel Po a valle di Chivasso. Nel documentario radiofonico La cerulea Dora del 1959, il compianto Mario Pogliotti proprio a questo punto sentenzia: «e qui per me la nobile Dora delle leggende e dei miti ha la sua foce, riducendosi dopo Ivrea a un onesto fiume provinciale, campagnolo, non diverso da tanti altri disseminati lungo la pianura Padana ad accrescere la maestà del Po». Ma a distanza di tanti anni, qui è cambiato molto. Fossimo quel fiume, in questo territorio che ci si spalanca davanti agli occhi parrebbero ora riflettersi tutti i vigneti scoscesi che abbiamo visto sinora scorrerci a fianco – Morgex et La Salle, Arvier, Donnas, Carema – ma con qualche grado di calore e luminosità in più, quasi il sole li abbracciasse intimamente. Queste sono le terre in cui le leggende accadono, tanto fra gli uomini quanto fra le vigne. Queste sono le terre dell’Erbaluce di Caluso DOCG: luoghi di frontiera e di saggezza in cui sia la cultura che la viticoltura ricalcano l’eredità di memorie molto antiche, spesso legandosi fra loro.
Il Canavèis – dall’estinto villaggio di Canava, sull’Orco – è un luogo in cui da sempre si fa viticoltura. Prima ancora che i Romani colonizzassero il territorio, i celtici Salassi – fondatori fra l’altro della città di Ivrea (già Eporedia) cinque secoli prima di Cristo – già praticavano virtuose tecniche viticole d’influenza etrusca. Reperti archeologici testimoniano inoltre che qui già allora si utilizzavano botti di legno per il vino, al tempo ignote agli stessi romani che utilizzavano invece le anfore. Si narra che quando questi ultimi riuscirono con fatica a conquistare il Canavese, abbiano prosciugato i vini di numerose cantine della zona e ne abbiano gradito il carattere più secco rispetto a quello dolce cui erano avvezzi. Dopo l’Impero Romano queste terre passarono per molte mani, dai longobardi a re Arduino per poi essere continuamente contese da molte famiglie nobiliari, facendo da palcoscenico a numerosi conflitti: su tutte la rivolta dei rurali Tuchini contro i potenti feudatari, ma non mancarono nemmeno di palesarsi qui le lotte fra Impero e Chiesa. E mentre scorreva il sangue, scorreva anche il vino.
La vigna incessantemente si espandeva nei secoli soprattutto intorno ai castelli dell’ampio comprensorio, per arrivare all’alba del Risorgimento – nell’aura dei Savoia – a contare qualche migliaio di ettari, secondo un censimento del 1819. Proprio in questo periodo i vini del Canavese ebbero probabilmente il loro maggior lustro ricevendo numerosi riconoscimenti internazionali, non essendo il rampollo scarlatto Barolo ancora asceso al trono enoico del Piemonte. Ma pur vedendosi sbocciare attorno molte altre gemme, tale prestigio sopravvisse saldamente fino al riconoscimento della DOC Canavese e soprattutto, per quanto qui ci riguarda, della DOC Erbaluce di Caluso nel 1967, poi divenuta DOCG nel 2010. Una storia affascinante, che dura da millenni. Anzi, se si parla della terra sotto le vigne, a dire il vero, da molto di più.
Geologia di sfinimento
Certo, arrivare nel Canavese con la rapidità di un fiume (e di quelli piuttosto veloci, per giunta) ci è stato decisamente più comodo che farlo al passo d’un ghiacciaio. Eppure, il substrato orografico in cui dimora l’Erbaluce non è un’opera alluvionale, bensì morenica, compiuta in un tempo che non si misura quindi in anni, ma in eoni.
La parte più vitata di questo territorio (proprio perché più adatta ad esserlo) è quella abbracciata dall'Anfiteatro Morenico di Ivrea, una formazione semicircolare di colline moreniche che racchiude un’area di circa 600 km quadrati, retaggio del paziente lavoro del Ghiacciaio Balteo che più di 100mila anni fa iniziò a intaccare senza sosta quelle colline, plasmandole e muovendo lentamente a valle i detriti strappati alla roccia. Questi detriti, delle dimensioni più varie, caratterizzano buona parte dei suoli vitati della regione con un’importante presenza di scheletro che si affianca alla rilevante frazione sabbiosa dei terreni più meridionali, e a componenti più pesanti nelle parti nord-orientali. I frammenti più grandi sono addirittura di proporzioni titaniche: giganteschi massi erratici disseminati soprattutto in prossimità del braccio occidentale dell’anfiteatro, a guisa di altari naturali che hanno alimentato nei secoli numerose leggende del luogo. Il braccio orientale, d’altro canto, è altrettanto suggestivo e mastodontico: la Serra d’Ivrea è infatti il più esteso massiccio morenico d’Europa, che con la sua dorsale rettilinea affiora dalla pianura per più di 25 km. Un’ipotesi folcloristica – non confermata dagli studiosi ma non meno affascinante – è che la pianura abbracciata dall’anfiteatro accogliesse anticamente un gigantesco lago; una leggenda narra che le sue acque furono fatte defluire dalla perfidia della potente sacerdotessa Ypa, che fece aprire una breccia in un argine per vendicarsi del suo giovane amante. Ma questa è un’altra storia.
Tornando alla geologia, l’azione principale del ghiacciaio – si potrebbe dire banalmente – è quella di aver creato bellezza, dando fascinose fogge al territorio e cospargendolo di are selvagge e laghi glaciali (Viverone, Candia, i Cinque laghi di Ivrea). Al resto ci ha pensato l’uomo, creando (oltre che storiche aree industriali) vigneti così belli da attirare i turisti a passeggiarci, fornendo un’alternativa più tranquilla al trekking d’alto livello che si può praticare in questo incredibile paradiso naturalistico. Camminare sempre è il segreto, quindi, lentamente o velocemente che sia: non per niente da queste parti – dove le orme degli uomini da sempre ricalcano quelle del ghiaccio – passa anche la Via Francigena.
Il Ghiacciaio Balteo, tuttavia, con la sua calma e inesorabile erosione ha inconsapevolmente sortito anche altri effetti, come quello di creare suoli perfetti per produzioni viticole di qualità, soprattutto grazie alla fisiologica scarsità di sostanza organica e azoto nel terreno che determina rese basse in vigneto. Più sciolti che pesanti (fino al 90% di sabbia, ma con argille in profondità), questi substrati garantiscono un buon drenaggio idrico superficiale e apporti ottimali di elementi minerali come i fosfati e il potassio, essenziali per ottimizzare la regolazione dell’accumulo zuccherino e della dotazione biochimica dell’acino. Se a questo si unisce un’ottima esposizione e un clima mite e regolare durante l’anno, l’eleganza nel calice è assicurata: occorre solo un’uva capace di trarne il massimo.
Una varietà ricca e versatile
L’Erbaluce è un vitigno a dir poco prodigioso. Già noto ai romani come Alba Lux per via della consonanza cromatica dei suoi acini maturi con il colore caldo del sole che albeggia, pare che l’etimologia del suo nome si leghi anche ad un’altra leggenda inscenata proprio sulle rive di quel fantomatico lago estinto. La ninfa Albaluce, nata dall’amore disperato fra il Sole e l’Alba con l’intervento della Luna, era talmente bella e venerata da ricevere in dono dall’uomo ogni sorta di frutto; nel tentativo di bonificare nuove terre grazie a un grande canale, a causa della già citata alluvione indotta dalla regina Ypa l’uomo si trovò in miseria e distruzione. Le lacrime di Albaluce, triste per l’accaduto, nel cadere al suolo diventarono così tralci carichi di grappoli dolci e succulenti.
Tornando con i piedi per terra, troviamo nell’Erbaluce una vigna vigorosa e molto legata al suo territorio (poco adattabile altrove). Di maturazione media, ha una fertilità basale contenuta e dà il massimo su suoli ricchi di scheletro e calcare e in grado di trattenere il calore. Con tali caratteristiche, questa varietà predilige sistemi di coltivazione piuttosto espansi come la pergola canavesana (legata alla tradizionale “topia”), di altezza intorno ai 2 m e a falda piatta; in potatura si lasciano solitamente tre capi a frutto di diverse età con una decina di gemme ciascuno. È un sistema costoso e totalmente manuale che però consente di esaltare la spiccata acidità del vitigno. Quest’ultima caratteristica, fra l’altro, è alla base dell’attitudine – piuttosto rara – dell’Erbaluce di esprimersi bene in vini di tipologie molto diverse fra loro: l’acidità consente infatti di produrre ottime basi spumante, ma anche di strutturare in modo rampante i vini fermi e di evitare la stucchevolezza nei passiti. Inoltre, è un’uva ricca di precursori aromatici (anche se il basso tenore di aromi immediatamente disponibili ne danno un profilo piuttosto neutro nei vini d’annata) e di estratto, portando ad elevati potenziali organolettici che emergono nel tempo. La buccia, infine, è spessa e abbastanza resistente a sortite crittogamiche; il suo spessore permette di ottenere ottimi risultati in fase di appassimento, tanto più considerando che i grappoli stessi sono ottimamente spargoli.
Per essere onesti, il carattere e la versatilità dell’Erbaluce non sono cosa d’oggi, ma sono anzi già noti molto tempo. Lorenzo Francesco Gatta, nel 1833, descriveva ampiamente questa varietà come «vite di mediocre cacciata, sarmenti piuttosto rigogliosi, legno duro, ben colorito, poco midollo, nodi frequenti, viticci grossi, duri, raspo compatto, cilindrico… peduncolo grosso, forte, tenace… acini agglomerati, di color d’ambra, lucidi… di polpa piuttosto duracina… dolce. Vite feconda, robusta, precoce; ama il colle, ma si adatta al piano. Uva mangereccia, alquanto serbatoia; vino dolce, spiritoso, sottile, delicato». Molto prima di lui, addirittura nel 1606, il gioielliere di casa Savoia Giovan Battista Croce ne scrive «Erbalus è uva bianca così detta come alba perché biancheggiando risplende: ha li grani rotondi, folti e copiosi, ha il guscio o sia scorza dura; matura diviene rostita e colorita, e si mantiene in su la pianta assai. È buona da mangiare, et a questo fine si conserva; fa i vini buoni e stomacali». Possiamo, dopo secoli, trovare descrizioni più belle ed eloquenti di queste?
Le denominazioni
La DOCG “Erbaluce di Caluso” o “Caluso” incide su una parte del Canavese e tocca le province di Vercelli (comune di Moncrivello), Biella (comuni di Roppolo, Viverone, Zimone) e Torino (comuni di Agliè, Azeglio, Bairo, Barone, Bollengo, Borgomasino, Burolo, Caluso, Candia Canavese, Caravino, Cossano Canavese, Cuceglio, Ivrea, Maglione, Mazzè, Mercenasco, Montalenghe, Orio Canavese, Palazzo Canavese, Parella, Perosa Canavese, Piverone, Romano Canavese, San Giorgio Canavese, San Martino Canavese, Scarmagno, Settimo Rottaro, Strambino, Vestignè, Vialfrè, Villareggia, Vische). Il Disciplinare prevede quattro tipologie di vino, che debbono essere prodotte esclusivamente da varietà Erbaluce, a testimonianza della versatilità enologica di questo vitigno: la versione ferma, lo spumante, il passito e il passito riserva.
Partiamo dalla fine. La versione passita del vitigno Erbaluce è la più antica e apprezzata: dopo qualche mese di appassimento dei grappoli in appositi locali arieggiati chiamati “passitaie”, si ha la vinificazione che avviene tradizionalmente nel periodo del famoso Carnevale di Ivrea con la sua Battaglia delle arance. La fermentazione è lunga, e l’invecchiamento che segue deve durare almeno 36 mesi prima dell’immissione in commercio (48 mesi nel caso di Passito Riserva), solitamente in botti di legno. Il risultato è un vino caratteristico, pieno e vellutato, con elevato potenziale di longevità. La versione ferma, pura espressione fresca del vitigno e del terroir, è un vino leggero, giovane e di gran beva ottenuto da una semplice vinificazione in bianco con (di solito) una breve maturazione solo in acciaio. Abbiamo infine l’ottima versione spumante, di diffusione meno antica, che deve essere prodotta da Metodo Classico con almeno 15 mesi di permanenza sui lieviti (solitamente si arriva a 24 o 36 mesi). Le caratteristiche del vitigno, in particolare la naturale acidità e l’aromaticità compatta, lo rendono perfetto per la spumantizzazione e questa nicchia sparkling sta mostrando di avere molto appeal sia in Italia che all’estero.
Nel complesso si tratta di una Denominazione di piccole dimensioni, ma con ottime prospettive: negli ultimi 20 anni si è registrata una progressione del 77% nelle superfici vitate ad Erbaluce per produrre la DOCG, che attualmente si attestano intorno a 250 ettari. Un trend simile è stato quello della produzione di uva e di conseguenza della quantità imbottigliata: al momento, secondo l’ultimo report dell’organismo Valoritalia, l’imbottigliato per il 2020 è pari a 359.479 bottiglie, e per il 2021 pari a 935.611 bottiglie.