Il vino nella letteratura italiana da Dante al Bacco in Toscana di Francesco Redi

Un rapporto, quello tra vino e letteratura, che di secolo in secolo ha proposto molteplici chiavi di lettura. La produzione letteraria italiana non si sottrae a tale relazione anzi, sin dalla sua origine, ne svela tutta la forza creativa

«Dal simbolico al simbolico, ovvero buono da bere se buono da pensare». Così Paolo Scarpi, storico delle religioni e professore ordinario all’Università di Padova, immagina il vino nel titolo della sua prefazione al volume Il desiderio del vino di Jean-Robert Pitte (Edizioni Dedalo, Bari, 2010). Nel momento in cui si consuma vino, pensare è da considerarsi atto propedeutico al bere stesso e quest’ultimo, effetto sì di un bisogno, è da ritenersi, in maniera più lasca, il risultato dello sviluppo di un umano sapere. Il vino, quindi, con la sua storia, le sue tecniche di produzione, le sue tradizioni e il suo mutevole linguaggio è, senza dubbio, un sapere, magari precario, sicuramente ambiguo, finanche sensibile, ma in quanto tale coessenziale all’uomo. Tale immedesimazione tra uomo e vino fa sì che quest’ultimo si intercali in ogni forma d’arte e della creatività umana, dispiegandone tutta la sua misteriosa forza simbolica, estetica e materiale. 

Che il vino sia una presenza nella letteratura italiana di ogni tempo è cosa nota, oggetto di attenzione e curiosità non soltanto di carattere specialistico, ma anche grand public. Che questo rapporto tra vino e letteratura sia poi spesso trattato con grande superficialità è poi questione, se non altrettanto nota, certamente di pari evidenza. Basta fare una semplice ricerca in rete per avere dei risultati chiarissimi in merito a ciò a cui comunemente si riduce la letteratura quando viene messa in relazione al mondo del vino: un repertorio pressoché inesauribile di aforismi enoici, una collezione di motti in versi, utilissimi da mandare a memoria per esibirli al momento giusto, in ogni specie di banchetto. Si va dall’abusato motto latino «in vino veritas», che compare nella Naturalis Historia di Plinio – anche se con una significativa variante rispetto alla versione tràdita (Plinio scriveva «volgoque veritas iam attributa vino est») – adatta per un contesto godereccio e non troppo impegnato, alla più elegante massima leopardiana, tratta dallo Zibaldone, secondo cui «il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore», perfetta per darsi un tono da bello e dannato durante un brindisi erudito. Come resistere alla tentazione di ostentare il proprio spirito intellettuale di fronte a un convitato che si dichiara astemio, senza apostrofarlo con la celebre citazione tratta dai Paradisi artificiali di Baudelaire, secondo cui «un homme qui ne boit que de l’eau a un secret à cacher à ses semblables» (un uomo che non beve che acqua deve avere qualche segreto da nascondere)? E come non sfoggiare a una cena romantica, ordinando una bottiglia più o meno pregiata – a seconda dell’impressione che si vuole fare sul partner – le parole con cui Robert Louis Stevenson, nel diario di viaggio The Silverado Squatters, resoconto del suo viaggio di nozze nella Napa Valley, definiva il vino «bottled poetry»?

Se attingere a rubriche di citazioni “vinose” è legittimo, e spesso aiuta a fare bella figura, questa pratica non può ovviamente esaurire – anzi, probabilmente neppure minimamente illustra – il senso di una connessione larga e complessa, quella tra letteratura e vino, che è bene sondare in questa sede con altri strumenti. Il vino compare nella letteratura mondiale, di secolo in secolo, con svariate funzioni e molteplici significati: come medicina ed elisir di lunga vita, così ancora Plinio parlava del Pucinum, il vino prodotto nella zona triestina di Prosecco, che aveva garantito all’imperatrice Livia 86 anni di splendida salute; come un generatore di quell’ebbrezza che permetteva di entrare in contatto con la divinità, a partire dalle Baccanti di Euripide; come elemento di distinzione sociale, in particolare nelle particolareggiate descrizione dei banchetti letterari che fioriscono nell’Europa del Cinquecento, dove tutti bevevano vino, ma non tutti ne bevevano della medesima qualità; come un mezzo per potenziare la propria creatività, in particolare in epoca romantica: non soltanto Baudelaire, ma anche Leopardi nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare pubblicato nelle Operette morali ritrova nel vino non soltanto un consolatore, ma un dispositivo per isolarsi dalla confusione del mondo esterno entrando in contatto con la parte più intima di sé stessi; infine, come essenza di un territorio, un elemento che fa parte di una cultura locale che va esplorata con gli strumenti della geografia letteraria, disciplina fondata da un maestro degli studi letterari come Carlo Dionisotti: questa è l’interpretazione del vino che danno ad esempio Fenoglio e Pavese del vino nelle Langhe. 

Una presenza così massiccia e pluri-prospettica del vino nelle opere della nostra storia della letteratura non può e non deve lasciare indifferenti, e impone di andare oltre alla ricerca della frase ad effetto. Critici letterari illustri si sono occupati della funzione del vino nella letteratura, ritenendolo – è il caso di Piero Gibellini nel Calamaio di Dioniso (2001) – uno «strumento per penetrare nel cuore delle opere letterarie, per sondare attraverso i segnali enoici la visione e lo stile degli scrittori». Studiare il vino nella letteratura aiuta a comprendere la letteratura stessa, quindi: tale strada, aperta appunto da Gibellini, merita indubbiamente ulteriori approfondimenti. Ma ancora meno si è fatto sull’altro versante, per nulla secondario, ossia lo studio di come la letteratura ha un impatto decisivo nella storia del vino. Tale impatto supera di gran lunga gli scarsi e spesso imprecisi riferimenti letterari contenuti nei disciplinari dei singoli vini, su cui, in altra sede, sarebbe necessaria una riflessione; in molti casi è la letteratura a determinare in primo luogo la fortuna del vino. Si pensi ad esempio a quanto abbia inciso il verso del poeta Francesco Redi, contenuto nel suo ditirambo Bacco in Toscana («Montepulciano d’ogni vino è il re»), nella fortuna del Montepulciano, oppure a quanto la fama del Marzemino ancora oggi si debba alla rima baciata con cui il Don Giovanni del libretto di Lorenzo Da Ponte, musicato da Mozart, chiede al fidato Leporello di servirgli il vino («Versa il vino. / Eccellente Marzemino!»). 

Per avventurarsi in tali percorsi di ricerca, è perciò imprescindibile mappare le pagine della nostra storia letteraria in cui si affacci una menzione del vino: la scelta che si è qui fatta è quella di opporre, attraverso i secoli, visioni del vino di volta in volta diversa, per mostrare come il vino sia, nella storia della letteratura italiana, non tanto una natura morta, ma una presenza vitale, oggetto di continua rinegoziazione culturale.

Il presente sondaggio – che sarà di necessità parziale – si interrompe sul finire del diciassettesimo secolo, quando il già citato Bacco in Toscana (1685) cambia in maniera significativa la storia di questo rapporto, spostando la discussione letteraria sul vino dal terreno principalmente morale, a quello più propriamente geografico, legando indissolubilmente il vino alla sua zona di produzione. 

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Il Trecento di Dante, Petrarca
e Boccaccio

«La fede è la più alta passione di ogni uomo. Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano fino a essa, ma nessuno va oltre». Le parole di Søren Kierkegaard, tratte dal saggio Timore e tremore, se traslate in una logica puramente storica riescono a chiarire l’idea di quel principio, o meglio di quel motore immobile, cui si deve l’intero sviluppo culturale, politico, filosofico e letterario del Medioevo occidentale: dalle attività quotidiane come l’agricoltura, il commercio o le arti fino all’esercizio del potere, dalla giustizia alla guerra. 

La fede, identificata al tempo con la Chiesa e quest’ultima con la dottrina cristiana, guida o “incatena”, sempre parafrasando Kierkegaard, un’epoca lunga, fluida e cangiante in cui ogni produzione culturale veniva declinata in termini teologico-religiosi e soltanto all’interno di questi, al netto delle eresie o delle interpretazioni dottrinali, trovava un palese chiarimento. 

Non è esente da tale schema la letteratura e all’interno della sua produzione il vino è raccontato e interpretato talora in veste simbolica, talaltra in forma più o meno materiale. Una contrapposizione che, nelle opere tra Duecento e Quattrocento, rivela almeno tre “tipologie” di narrazione del nettare di Bacco: simbolico, estetico e corporeo. 

Partendo da Dante, nonostante si abbia contezza documentale che il poeta fiorentino sia stato un cavaliere combattente (partecipò in prima schiera nella battaglia di Campaldino l’11 giugno 1289 tra guelfi e ghibellini), con tanto di lancia in pugno, cotta di maglia, spada al fianco e stendardi di famiglia, viceversa non si ha certezza alcuna che sia stato vignaiolo e men che meno un appassionato di vino. Nei due poderi di famiglia, il Randone a Pontassieve e quello di Fiesole, in cui erano coltivati uva, olivi e foraggi, Dante ricopriva il ruolo di amministratore contabile, sebbene non gli fossero affatto oscure le basilari tecniche agricole e vitivinicole. Da questo particolare però, ipotizzare un Dante vignaiolo si rivela un esercizio di stile dal taglio squisitamente romanzesco. 

Studiando la vita quotidiana del poeta risulta, infatti, impossibile immaginare per lui qualsivoglia occupazione agricola giacché Dante era, profondamente, uomo di lettere e di potere. Priore delle arti e delle corporazioni, più che agiato dal lato delle finanze ed erede di una famiglia di cavalieri, fatta misura per l’attività politica, l’Alighieri non ha mai “lavorato” un giorno in tutta la sua vita. 

Così come emerge dal libro Dante di Alessandro Barbero (I Robinson Laterza, Roma, 2020), Dante era sicuramente un appassionato di cavalli, armi, cavalleria, ma non altrettanto entusiasta del vino. L’amore, tipico nel Medioevo, per le arti della guerra e i bellici orpelli emerge in molti passi della produzione dantesca come, solo per fare un esempio, nella lettera del 1304, durante l’esilio, ai signori Guidi di Romena, nobili dell’Appennino toscano e alleati dei Guelfi bianchi. Nella missiva il poeta si duole per non poter partecipare al funerale dello zio Alessandro dell’aristocratica famiglia di Pratovecchio a causa della «improvvisa povertà che l’esilio ha determinato […] persecutrice crudele mi ha ormai cacciato nell’antro della sua prigionia, privato d’armi e cavalli». 

In un immaginario elenco di priorità tra i bisogni quotidiani, grande importanza rivestono il possesso e la cura dei cavalli, la qualità delle vesti, sempre adatte al suo rango, la molteplicità degli scritti e altri desiderata, tra cui potremmo annoverare anche le armi e, sicuramente, l’amore per le donne, ma non troviamo né cibo né vino, relegati, da quanto emerge dai suoi scritti ma anche dalle cronache dei suoi primissimi studiosi, tra cui c’è anche il Boccaccio, a una dimensione di mera necessità corporale. 

Ciò detto, non significa che Dante fosse stato astemio, se non altro perché, ai suoi tempi, bere acqua era talvolta molto pericoloso e il vino aveva funzione di bevanda idratante oltre che conviviale e inebriante, tuttavia nella letteratura dantesca, così come nella vita del celebre fiorentino il vino assunse un significato quasi esclusivamente simbolico-metaforico e quando trasaliva oltre tale funzione veniva utilizzato come esempio della debolezza umana se non addirittura del peccato. 

La ragione culturale di tale atteggiamento risiede nella presenza di molteplici spunti inerenti le dottrine di Sant’Agostino nel pensiero e nell’opera dantesca. Il santo di Ippona appare quasi come un convitato di pietra nella Commedia, la cui aura, tuttavia, si avverte palese in gran parte dell’opera, così come nei componimenti minori del poeta. Il viaggio verso dio della Commedia, dalla selva oscura all’empireo, non è molto diverso dall’ascesa alla città celeste dell’Agostino delle Confessioni, testo quest’ultimo in cui il vino, ma anche altri elementi della liturgia cristiana e della tradizione contadina occidentale, assurge in maniera esclusiva a un significato simbolico-metaforico.

Nel libro Nono delle Confessioni, capitolo IV, quando Agostino racconta la sua nuova dimensione spirituale, si legge: «se potessero vederla questa luce eterna che è dentro noi, che io, avendola gustata, fremevo di non poter loro mostrare […] non volevo più disperdermi nei beni della terra, divorando il tempo e divorato dal tempo, perché nella semplicità eterna avevo ora altro “frumento”, altro “vino”, alto “olio”». Il vino di dio è altro, quindi diverso da quello dell’uamana quotidianità. 

Tornando a Dante, nella Commedia il vino è citato quattro volte, tre nel Purgatorio e una in Paradiso. Nel canto XIII del Purgatorio (28-30) il poeta scrive che «la prima voce che passò volando / “Vinum non habent” altamente disse, / e dietro a noi l’andò reïterando». Ci troviamo nella Cornice dove è punita l’invidia, con i penitenti appoggiati su nuda roccia e con gli occhi, mezzo di tale specifico peccato, cuciti con fil di ferro. Le voci che avvertono Dante e Virgilio, prodotte da spiriti non visibili, sono inviti alla carità e, nella fattispecie la locuzione “Vinum non habent” (non hanno più vino) è la frase che Maria pronuncia durante le nozze di Cana nella rievocazione del primo miracolo di Gesù, la tramutazione dell’acqua in vino.

Il significato di vinum è perciò indelebilmente immateriale, con la citazione evangelica a supporto di una interpretazione affatto ambivalente. Nel canto XV del Purgatorio, cornice degli iracondi, ai versi 118-123 è scritto: «Lo duca mio, che mi potea vedere / far sì com’om che dal sonno si slega, / 120 disse: “Che hai che non ti puoi tenere, / ma se’ venuto più che mezza lega / velando li occhi e con le gambe avvolte, / 123 a guisa di cui vino o sonno piega?”». Qui Dante, procedendo malfermo e a occhi chiusi perché colto da visioni, viene destato da Virgilio che, parafrasando il testo “rimbrotta” al poeta fiorentino: «che hai che non riesci a reggerti in piedi, hai camminato per più di mezza lega con gli occhi annebbiati e con le gambe legate come fossi un uomo vinto dal vino o dal sonno»?

Una metafora anche questa ma del vino vero, motivo secondo il passo, al pari della mancanza del sonno, di un handicap motorio e quindi espresso in veste non positiva. Nel canto XXV del Purgatorio (76-78), quello dei lussuriosi che camminano tra le fiamme, leggiamo: «E perché meno ammiri la parola, / guarda il calor del sol che si fa vino, / giunto a l’omor che de la vite cola». Questa è forse la terzina dantesca più abusata nel mondo del vino e utilizzata, senza cognizione alcuna del contesto letterario in cui si trova, per affermare che già Dante avesse capito l’importanza del legame tra vino e territorio. Nulla di più errato, invece, se non una delle tante idiozie dell’ormai logoro storytelling enoico. Anche qui non c’è alcun richiamo al vino in senso materiale, men che meno a un rapporto tra vino e ambiente di produzione. Il passo, invero tra i più intriganti del Purgatorio, attraverso le parole di Publio Papinio Stazio, poeta latino vissuto tra il 45 e il 96 d.C. e noto ai tempi di Dante, è la chiosa dell’articolata spiegazione sulla generazione dell’amina che lo Stazio accetta di esporre dinanzi alla richiesta di Virgilio. Nella fattispecie, la terzina è un esempio per far capire a Dante come dio infonda nell’uomo un nuovo spirito (anima razionale) affinché la già presente anima vegetativa e sensibile si elevi a intellettiva. Il «calor del sole» è la metafora di dio che instilla l’anima razionale e questa, assorbendo in sé la “virtù informativa”, ossia l’umore «che de la vite cola», è capace di generare un’anima unica (vegetativa, sensibile e intellettiva) simboleggiata, nei versi, dal «vino». 

L’ultimo riferimento al vino nella Commedia è poi nel Paradiso, canto X (quarto cielo degli spiriti sapienti), versi 82-90, in cui Dante scrive: « E dentro a l’un senti’ cominciar: Quando / lo raggio de la grazia, onde s’accende / verace amore e che poi cresce amando, / multiplicato in te tanto resplende, / he ti conduce su per quella scala / u’ sanza risalir nessun discende; / qual ti negasse il vin de la sua fiala / per la tua sete, in libertà non fora / se non com’acqua ch’al mar non si cala». A parlare è San Tommaso d’Acquino che sostiene come tutti i sapienti siano, nei fatti, pronti a soddisfare le richieste di sapere di Dante, uomo avvolto da grazia divina e, per questo, capace di assurgere al cielo. Il concetto espresso in questo passo con la metafora del vino, parafrasando il testo, è molto semplice: chi rifiutasse di donare il vino della propria coppa (la conoscenza dei sapienti) per estinguere la tua sete (quella di conoscenze di Dante) non sarebbe libero, a mo’ di un’acqua che sia incapace di gettarsi in mare. 

Non mancano, poi, nella Commedia, dei riferimenti alla vigna e al vignaio, anch’essi comunque sempre metaforici e con riferimento esplicito alla comunità cristiana (intesa come la vigna) e al Papa (identificato con il vignaio). Unico riferimento, infine, a un preciso vino dell’epoca in cui venne redatta la Commedia, lo troviamo nel canto XXIV del Purgatorio, dove si racconta della pena che Papa Martino IV doveva scontare per i suoi peccati di gola legati al consumo di anguille di Bolsena e Vernaccia.

In tutti i riferimenti al vino Dante esprime un simbolismo allegorico-religioso e, talvolta, un afflato quasi spirituale, ma mai una dimensione materiale, al contrario di quello che accadrà, successivamente, con Petrarca o con Boccaccio, confermando una distanza dal vino “corporeo” che, quasi sicuramente, si riflesse nella vita quotidiana del poeta fiorentino.

Se di Dante non possediamo neppure una firma manoscritta, di Petrarca abbiamo una tale mole di documenti autografi da permetterci di ricostruire non soltanto la genesi e la progressiva costituzione delle sue opere letterarie, ma anche molta parte della sua vita privata. Il poeta aretino raccolse infatti in diversi libri oltre cinquecento lettere scritte di suo pugno in latino, in grado di documentare non soltanto la sua formazione intellettuale, ma anche momenti della sua quotidianità.

Un sondaggio sui non radi accenni alla sfera del cibo e del vino contenuti in queste epistole permette di investigare le abitudini alimentari dell’autore, e di cogliere una svolta nella biografia di Petrarca dopo il suo trasferimento dalla Provenza – la Valchiusa delle «chiare, fresche et dolci acque» – al Nord Italia, fra Milano, Padova e il borgo di Arquà, dove morì nel 1374. Nella prima parte della sua vita, trascorsa intorno ad Avignone, dove il padre lavorava per la corte pontificia, Petrarca conduce una dieta ascetica, ispirata ai principi di quel Sant’Agostino che è maestro di vita oltre che di stile – va ricordato che la svolta intimistica che permea il Canzoniere deriva proprio dalla lettura appassionata delle Confessioni agostiniane. Il giovane Francesco ripudia il vino, a cui preferisce l’acqua di fonte, mangia pochissima carne e si nutre soprattutto di frutta fresca e di verdura cruda. I primi tempi trascorsi in Lombardia sono difficili per il poeta, che non riesce ad abituarsi né alle zanzare che popolavano già allora la pianura Padana né alla cucina grassa e al vino come bevanda pressoché unica, prescrittagli anche dal dottore come medicina contro i fastidi della vecchiaia incipiente.
Le lettere del periodo padovano testimoniano tuttavia una progressiva svolta nella biografia e nell’alimentazione di Petrarca, che si invaghisce piano piano della florida bellezza dei campi padani, che soddisfano la sua passione agricola, tanto da spingerlo a fare pace con quella dieta a base di carne, formaggio, verze e vino: non soltanto progetta, con Francesco da Carrara, un’opera di bonifica dei
Colli Euganei che permetta di valorizzare la fertilità di quell’area, ricca del frutto di Minerva e di Bacco, ma si cimenta anche nella coltivazione della vite – probabilmente un Moscato – e nella cura di una piccola cantina sotterranea presso la casa di Arquà. 

Ancora diverso è il caso della terza corona della poesia italiana trecentesca, Giovanni Boccaccio, nel cui Decameron il vino è una presenza costante, sulla quale non gravano diffidenze di ordine moralistico. Al contrario, nell’epopea di mercanti che Boccaccio allestisce, il vino ha principalmente due funzioni: da un lato esso è uno strumento attraverso il quale i protagonisti delle varie novelle riescono a raggiungere i propri scopi; dall’altro esso è considerato un medicinale, capace di ristorare ammalati e prigionieri. Un esempio della prima tipologia di impiego del vino nel Decameron si trova nella celebre novella di Alatiel (II, 7), che racconta le vicissitudini di una principessa babilonese la quale, inviata dal padre in sposa al re del Marocco, subisce un naufragio e poi una serie di peripezie che la portano a giacere con nove diversi uomini, prima di giungere finalmente in Marocco, dove, creduta ancora vergine, celebra le nozze con lo sposo che le era stato destinato. All’interno di questa rocambolesca storia è incentrato sul vino l’episodio di Pericon da Visalgo, il quale, a tutta prima, non riesce a ottenere i favori di Alatiel nonostante un serrato corteggiamento, ma dopo aver notato che «alla donna piaceva il vino», alla quale era poco abituata per via della sua religione, prepara per lei una cena sontuosa, ordinando ad un servo «che di vari vini mescolati le desse da bere». Pericon è il perfetto esemplare dell’eroe boccacciano, che non trionfa attraverso la forza, ma con l’ingegno, ottenendo ciò che si era proposto con arguzia e spirito di osservazione: attraverso il vino riesce a far cedere Alatiel, la quale, alla fine della serata, entra nel suo letto «più calda di vino che d’onestà temperata». Speculare è l’uso del vino nella novella di Ghita (VII, 4): in questo caso i ruoli di genere sono però invertiti, e a tessere la propria trama è proprio Ghita, la quale, insofferente per la gelosia immotivata del marito Tofano di Arezzo nei confronti di un bel giovane che le ronzava intorno, decide di ubriacare il consorte e di consumare alle sue spalle quel tradimento che egli tanto aveva temuto. 

Eppure, oltre a essere ministro di Venere, il vino nel Decameron è anche una potente medicina; al vino non soltanto si attribuisce la virtù di migliorare le abilità virili di Landolfo Rufolo, curato dalla propria amante a forza di vino e confetti (II, 4), ma è anche un eccezionale rigenerante. Anzi, proprio Boccaccio introduce per la prima volta uno specifico vino nella novella di Ghino di Tacco (X, 2), in cui il brigante protagonista ristora l’abate di Clignì, che aveva appena catturato, con pane arrostito e un bel bicchiere di Vernaccia di Corniglia. Questa Vernaccia delle Cinque Terre è il primo vino a essere citato in un’opera letteraria, e gode di una certa fortuna nel Trecento italiano, dal momento che esso è al centro anche di un altro racconto, la novella 177 delle Trecento novelle di Franco Sacchetti (1330-1400), in cui si narra di un prete - il piovano - che truffa un messere fiorentino che aveva l’ambizione di bere «alcuno nobile vino straniero», rubandogli le costose barbatelle di Vernaccia di Corniglia che si era fatto spedire da Portovenere.

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Tra Quattro e Cinquecento, classicismo, letteratura popolare e dramma pastorale

Il Quattrocento è il secolo dell’umanesimo, in cui si consolida la passione per i classici latini (e ora anche greci) che aveva già caratterizzato l’opera di grandi autori avanguardisti del Trecento, come Petrarca e Boccaccio. I letterati italiani puntano a riprodurre la poesia classica non soltanto recuperandone testi e motivi, ma anche riprendendone la lingua: la letteratura italiana del Quattrocento, è in gran parte costituita di opere scritte in latino. Il campione di questa poesia classicista è indubbiamente il raffinatissimo Angelo Poliziano (1454-1494), nativo di Montepulciano, filologo straordinario, ed elegante poeta, tanto in italiano, quanto in latino. Nonostante provenga da territori di grande tradizione enoica, Poliziano non dimostra nelle sue opere una grande simpatia per il vino: nella Favola di Orfeo (1480), tra i primi esempi di letteratura teatrale profana in volgare italiano, Poliziano riscrive il mito di Orfeo ed Euridice, evocando una molteplicità di modelli antichi, da Euripide a Virgilio. Il vino irrompe nel finale dell’opera come una forza potenzialmente distruttiva: le Baccanti, insultate da Orfeo che rifiuta le loro profferte, in preda ai furori del vino uccidono il poeta protagonista, scandendo versi che sottolineano il loro stato di profonda ebbrezza: «Ognun segua, Bacco, te! / Bacco, Bacco, euoè! / Chi vuol bevere, chi vuol bevere, / venga a bevere, venga qui. / Voi ’mbottate come pevere: / i’ vo’ bevere ancor mi! / Gli è del vino ancor per ti, / lascia bevere inprima a me. / Ognun segua, Bacco, te! / Bacco, Bacco, euoè! / Io ho voto già il mio corno: / damm’un po’ ’l bottazzo qua!».

Una diversa e più positiva considerazione del vino nella letteratura quattrocentesca andrà ricercata non tanto nella poesia classicistica, quanto piuttosto sul versante, altrettanto fiorente, della letteratura popolare e burlesca, che si sviluppa, soprattutto nella seconda metà del secolo, in area toscana. Il prototipo di questa filiera è senz’altro Il Morgante (1478) di Luigi Pulci, poema in ottave che mette alla berlina la tradizione cavalleresca dei cantari d’Orlando, incentrate sulle eroiche gesta dei paladini di Carlo Magno. Nel Morgante, viceversa, quei paladini sono radicalmente umanizzati secondo il registro parodico, tanto che il protagonista eponimo è un gigante armato del battaglio di una campana, accompagnato nelle sue imprese dal meschino semigigante Margutte, scudiero che si dedica principalmente ad abbuffate e ruberie. Pulci eleva, nel suo poema, la quotidianità a oggetto narrativo: torna ad esempio a descrivere in versi quei banchetti che erano pregiudizialmente esclusi dalla poesia classica perché ritenuti indegni di essere narrati – benché non mancassero opere antiche, come il Satyricon di Petronio, ad essi precisamente consacrati. Il ruolo del vino, in queste gozzoviglie, è centrale, al punto da diventare l’elemento centrale attorno al quale il cinico miscredente Margutte, né cristiano, né “saracino” costruisce il proprio Credo, così professato a Morgante, con un’aperta parodia delle formule religiose del tempo: «A dirtel tosto / io non credo più al nero ch’a l’azzurro / ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto; / e credo alcuna volta anco nel burro / nella cervogia, e quando io n’ho nel mosto, / e molto più nell’aspro che il mangurro; / ma sopra tutto nel buon vino ho fedo / e credo che sia salvo chi gli crede; / e credo nella torta e nel tortello: / l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; / e ’l vero paternostro è il fegatello, / e posson esser tre, due ed un solo / e diriva dal fegato almen quello». Se il Don Giovanni di Molière, nel Seicento, assicurerà, in pieno spirito cartesiano, di credere soltanto nella religione dell’aritmetica, questo Margutte ha fede soltanto nel cibo e nel vino, ma non senza distinzioni, preferendo mosti asprigni a quelli dolci (mangurri), e affidando al prodotto fermentato dell’uva una potenza redentrice che replica, caricaturalmente, quella cristianamente assegnata allo Spirito Santo.

Nella tradizione del Morgante si inserisce, oltre mezzo secolo più tardi, il Baldus (1552) del poeta mantovano Teofilo Folengo, che narra, in un irresistibile latino maccheronico, le vicende del fortissimo brigante eponimo: anche in questo poema i riferimenti al vino si sprecano, configurando tale bevanda non più come perno di un credo materialista, ma come elemento di distinzione sociale. Al lauto banchetto della corte di Francia, descritto nel primo libro, si contrappone quello umilissimo del secondo libro, nella casa del contadino mantovano Berto Panada: in entrambi i casi sono protagonisti i genitori di Baldo, convitati di nobile origine alla mensa del re, trovatisi poi, in seguito a una fuga d’amore, in un umile ostello nella pianura Padana. I due banchetti non divergono soltanto per il rango sociale dei commensali, ma anche per la qualità delle pietanze e del vino: a bagnare le sontuose portate che si assiepano sulla tavola pantagruelica del sovrano nel primo libro ci pensano la Malvasia, «gloria dei vini», i vini opulenti del Vesuvio, il rosso Mangiaguerra del regno di Napoli, la vernaccia dolce di Volta mantovana e quella bresciana, nonché il trebbiano di Modena, un moscato perugino e altri vini da Cesena e dalla Corsica. Nell’umile dimora di Berto Panada, invece, si mangiano uova fresche, qualche scardovella pescata nel Mincio e un paio di ranocchi, conditi da un’insalatina dell’orto. Non vini pregiati con specifica denominazione d’origine compaiono su questo desco, ma un semplice antenato del Lambrusco: un vino spumeggiante, spillato direttamente dalla botte, che non conosce i veleni della muffa, che viene maneggiato con grande cura affinché non macchi di rosso la povera tovaglia. Eppure, nonostante le differenze – cibi e vini internazionali contro pietanze e vini locali, di evidente minor pregio – la cena dei tre è molto più soddisfacente e felice in questo umile contesto, che non in quello sontuoso della corte regale.

Un’altra filiera di testi letterari tra Quattro e Cinquecento, in cui il vino ha un ruolo da protagonista, è quello della pastorale. Questo genere, anch’esso di origine classica – vi si erano esercitati Teocrito e Virgilio – viene rilanciato all’inizio del Cinquecento dal napoletano Jacopo Sannazaro, autore del famoso romanzo pastorale intitolato Arcadia (1504), in cui si narra del viaggio immaginario di un nobile napoletano che, per curare le proprie pene d’amore, attraverso un tunnel ipogeo arriva nella regione greca dell’Arcadia, popolata da pastori che sfogano con il canto le proprie sofferenze. In quest’opera il vino è presente in duplice veste: da una parte è lo strumento di consolazione dei pastori, che si struggono per i propri amori non corrisposti; dall’altra esso è un elemento indispensabile delle cerimonie funebri (egloga V) e latamente religiose, che si susseguono nel testo, e prevedono banchetti a base di carne arrostita di vitello, latte appena munto e libagioni con «vini generosissimi e per molta vecchiezza odoriferi», capaci di controbilanciare la mestizia dei cori rituali.

Quando la pastorale, nel corso dei decenni successivi, si sposta dal campo del romanzo a quello del teatro, l’interesse nei confronti del vino da parte degli autori che esplorano questo genere di poesia non viene certo meno. Se rimane l’evocazione di un uso cerimoniale del vino – è così nel Pastor Fido (1590), uno dei testi più rappresentativi di questa tradizione, del ferrarese Battista Guarini – esso diventa ancor più centrale quando si affaccia sulla scena di questi drammi la figura del satiro, grande consumatore e spesso intenditore di vino. 

Nell’Egle (1545-1547) di Giovan Battista Giraldi Cinzio, altro poeta ferrarese, viene messa in scena la vicenda di una ninfa, Egle appunto, la quale, innamoratasi del satiro Sileno, cerca di convincere le compagne ad accettare le profferte dei satiri, accogliendo le gioie dell’amore, anziché passare la propria vita in castità, dedite soltanto alla caccia. Ma l’invito di Egle alle compagne è un’esortazione a non denigrare il piacere dei sensi: in questi termini va interpretato l’elogio del vino che la protagonista fa nel terzo atto, quando ammette che «non è dolcezza / perfetta in terra, né piacer perfetto / tolto che ’l vino sia fuori del mondo. / Egli dà forza al corpo e fa la mente / vigile e desta e con lei desta i sensi; / prudenzia aggiunge a’ savi e dà valore / a’ coraggiosi et è vero maestro / d’ogni vertù, d’ogni scienza buona, / serva la gioventù, leva gli affanni, / accresce la bellezza e per dir breve / è la felicitade de’ mortali / è l’ambrosia et il nettare de’ Dei». La lode sperticata del vino viene condita anche da un elemento di rivendicazione femminile: i Romani vietavano alle loro donne di bere del vino soltanto perché, sapendo che il vino accresce forza e valore, avevano paura di essere vinti dalle proprie mogli. 

L’attenzione al profilo sensoriale del vino è comunque una costante nel dramma pastorale dell’epoca: in un testo minore, quale l’Amaranta di Cesare Simonetti, stampata a Padova nel 1588, la lode del vino da parte del satiro si sofferma su tutti i sensi coinvolti nell’atto del bere. Rivolgendosi direttamente al vino si esprime così: «Tu formi il bevitore / vigoroso e gagliardo / allegri tutti i sensi; / l’occhio primiero, quando, / lo scorge nel bichiere / tutto tutto brillante / poi con soave odore / conforti l’odorato / e con grato sapore / poi finalmente il gusto. / Fai nascere in colui / che beve un color vivo, / allegro e rubicondo». Insomma, in questa letteratura bucolica del Cinquecento, che ebbe grande fortuna anche all’estero, tra Francia e Inghilterra, il vino assume un ruolo fondamentale: esso è lo specchio di una filosofia in cui il piacere dei sensi non diventa edonisticamente il fine di ogni azione, ma non viene neppure bandito come peccaminoso: nel giro di pochi decenni, con l’affermarsi della Controriforma, le cose cambieranno radicalmente, e l’elogio del vino sarà confinato alla letteratura sensualista barocca.

Il pieno e tardo Cinquecento: Ariosto e Tasso

All’interno di questa rinnovata centralità dell’uomo, tipica dell’Umanesimo e del Rinascimento, riemerge prepotente, nelle lettere così come nell’arte, un Bacco dal retaggio classico, capace di manifestare, attraverso il consumo del vino, sia una bucolica concordia che un’ebbra follia. Dualismo dicotomico quest’ultimo, nella rappresentazione letteraria del vino, che si accorda alle visioni, altrettanto incompatibili sull’argomento, che propongono Ariosto e Tasso: con il primo quasi ad avversarlo e il secondo, non solo ad amarlo ma, soprattutto, a studiarlo. 

Parva sed apta mihi, sed nulli obnoxia sed non sordida, parta meo sed tamen aere domus (piccola ma adatta a me, non sporca, non gravata da canoni e costruita col mio denaro). Recita così l’epigrafe sulla facciata della casa ferrarese di Ludovico Ariosto, una frase dall’umile e concreto equilibrio, in grado di riassumere tutto quello che, nella vita così come nelle opere letterarie, fu questo grande poeta, vissuto tra il 1474 e il 1533. Per comprendere il suo rapporto a dir poco travagliato con il vino, bisogna indagare la vita dell’Ariosto, le amicizie, gli incarichi lavorativi, ma anche le e quel disincanto di fondo, nei confronti delle corti e dello stesso spirito rinascimentale che, da uomo del suo tempo, ha saputo, tuttavia, rappresentare. 

Ariosto, è bene chiarirlo subito, non amava particolarmente bere vino, sebbene non fosse astemio. In realtà dovremmo affermare che non riuscì mai a instaurare un rapporto, per così dire, edonistico con questa bevanda. Il primo limite a tale mancato innamoramento è rappresentato dalle condizioni di salute del poeta ferrarese, afflitto, per tutta la vita, da continue enteriti, l’ultima delle quali lo condusse diritto ai Campi Elisi. Bere i vini cinquecenteschi, per lui, non doveva sempre essere un piacere. Ben lontani da quello che troviamo noi oggi in bottiglia, i vini del Rinascimento erano pieni di difetti, prodotti con lavorazioni approssimative, frutto di raccolte spesso stramature e sicuramente non sempre salubri. Nello specifico lasso di tempo della vita dell’Ariosto poi, la produzione di vino assistette a un forte incremento dal lato delle quantità, con conseguente ulteriore abbassamento della qualità. 

Tuttavia, al netto delle difficoltà “digestive” del poeta, a raffreddare il rapporto con il vino contribuirono anche una visione della vita e del lavoro che troviamo perfettamente riflessi nell’opera letteraria. Ariosto era una persona concreta, capace sì di grandi voli pindarici dal lato della fantasia, così come è evidente nell’Orlando Furioso, poema cavalleresco segnato da un afflato fantasy ante litteram, ma pur sempre realistico e attento alle esigenze economiche sue e della propria famiglia che, sfortunatamente, dovette provvedere a mantenere dal 1500, anno della scomparsa del padre. Ariosto anela alla tranquillità, alla sicurezza economica e all’equilibrio: aspetti evidenti non solo nella sua esperienza politica in qualità di governatore della Garfagnana dove, spedito dal duca Alfonso I d’Este, si distinse nella gestione del territorio per pietas e clemenza, ma anche nella sua intima aspirazione su cosa dovrebbe essere l’amore: sentimento che si sublima solo se slegato dalla sofferenza, malgrado la stessa sia stata fortemente patita in precedenza. Quest’ultimo è un aspetto cruciale anche per capire la poca utilità del vino quale strumento di stimolo per qualsiasi produzione letteraria o di temperamento di quella sofferenza spesso considerata maieutica nella creazione artistica.

Dalla sua amata Alessandra Benucci, che sposò segretamente nel 1527 dopo un amore folle come quello descritto per Orlando, pretese poi un sentimento basato sulla stabilità e la tranquillità, presupposti di quella lucidità che il poeta ha sempre considerato il motore di ogni creazione artistica, insegnandoci a comprendere come, in qualsiasi forma esse si manifestino, non nascano necessariamente dal dolore e dallo struggimento ma, molto più spesso, dalla cessazione di questi sentimenti. 

A tal proposito, nella seconda ottava del primo canto dell’Orlando Furioso leggiamo: «Dirò d’Orlando in un medesmo tratto / cosa non detta in prosa mai né in rima: / che per amor venne in furore e matto, / d’uom che sí saggio era stimato prima; / se da colei che tal quasi m’ha fatto, / che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, / me ne sará però tanto concesso, / che mi basti a finir quanto ho promesso». Ariosto, che contrariamente ai classici del passato, da Omero a Dante, non ha bisogno di una musa ispiratrice per realizzare il suo poema, afferma però che potrà portarlo a termine solo se colei che (Alessandra Benucci) l’ha reso pazzo d’amore come Orlando non gli consumerà tutto l’ingegno nell’assecondare la “follia” dell’amore.

Altro aspetto fondamentale del carattere di Ariosto è quello del rapporto di amore e d’odio nei confronti della corte estense e, di conseguenza, nei confronti delle cortigiane maniere, anche per quel che riguarda gli smodati consumi di vino e di cibo.
Nella sua prima Satira, il poeta, essendosi rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este per cui da anni lavorava, spiega le motivazioni di detta scelta adducendo, tra diverse ragioni, anche aspetti inerenti al vino e al cibo. Nel breve componimento, in forma epistolare, leggiamo: «E il vin fumoso, a me vie più interdetto / che ‘l tòsco, costì a inviti si tracanna, / e sacrilegio è non ber molto e schietto». In Ungheria, ci dice, si beve un vino denso che a lui, a causa dell’enterite, è proibito dai medici più del veleno. Inoltre, avverte nell’ultimo verso della terzina, è lì sacrilego non bere grandi quantità di vino puro. In passo successivo il poeta argomenta: «Tutti li cibi sono con pepe e canna / di amomo e d’altri aròmati, che tutti / come nocivi il medico mi danna / Qui mi potreste dir ch’io avrei ridutti, / dove sotto il camin sedria al foco, / né piei, né ascelle odorerei, né rutti; / e le vivande condiriemi il cuoco / come io volessi, et inacquarmi il vino / potre’ a mia posta, e nulla berne o poco». In breve, sta dicendo che si mangia troppo speziato per il suo stomaco e quindi pur potendo lui fare come vuole perché avrebbe l’autorità di farsi servire vini annacquati e cibi più leggeri, preferisce rimanere in Italia. A una lettura superficiale, quelle dell’Ariosto sembrano scuse per non andare lontano da Ferrara, ma proprio questo è il punto: Ariosto è un uomo che mette sopra ogni cosa il suo semplice, benché di nobili origini, benessere quotidiano, fuggendo l’attivismo, la ricerca di una ricchezza fine a se stessa, l’ostentazione, gli atteggiamenti eroici e quelli moralistici. L’ironia, anzi, è la chiave interpretativa dell’esistenza e retaggio intimo della sua letteratura fatta di opere puramente estetiche, ovvero senza velleità di insegnamento, come ad esempio in Dante, ma prodotte solo per far divertire. 

In questa cornice però, sembrerebbe difficile pensare a un Ariosto incapace di amare il vino. Sicuramente le sofferenze gastriche, come accennato in precedenza, ne hanno fortemente limitato le occasioni di consumo, ma la ragione fondamentale di questa distanza sta nel semplice fatto che ad Ariosto il vino, quello dei poeti così come quello dei guerrieri, non serviva e, inoltre, come vedremo a breve in diverse parti dell’Orlando Furioso, il poeta ferrarese ne temeva gli effetti. 

Il passo più significativo a riprova di quanto appena detto è nel canto XVIII, in cui viene raccontata la sorte di messere Grillo, combattente cristiano al fianco di Carlo Magno durante l’assedio di Parigi da parte dei Mori di re Agramante, dove nell’ottava 176 leggiamo: «Poi se ne vien dove col capo giace / appoggiato al barile il miser Grillo: / avealo voto, e avea creduto in pace / godersi un sonno placido e tranquillo. / Troncògli il capo il Saracino audace: / esce col sangue il vin per uno spillo, / di che n’ha in corpo più d’una bigoncia / e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia». L’antefatto è l’assassinio del comandante saraceno Dardinello, le cui spoglie, trattenute nel campo cristiano, i cavalieri Mori Cloridano e Medoro voglio recuperare. Così, col favore delle tenebre costoro penetrano nell’accampamento cristiano e fanno irruzione nella tenda in cui riposano i guerrieri Grillo, Andropono e i Conrado. Grillo dorme, profondamente, appoggiato a un barile di vino da lui totalmente scolato, e per questo viene facilmente decapitato. L’aspetto più macabro sta nel fatto che insieme al sangue del povero Grillo si riversa contemporaneamente anche il vino da questi bevuto. Il messaggio è chiaro: bere vino fino all’ubriachezza non fa bene alla guerra e non è un caso che Orlando, pur perdendo il senno per le pene d’amore, sarà sempre descritto sobrio, in quanto virtuoso cavaliere. 

In un altro passo del poema Ariosto fa riferimento al mito del vino di Icario che è il più triste fra tutti quelli che raccontano la diffusione di questa “bevanda” nel mondo. Nel canto XLI, ottava 2, è scritto: «L’almo licor, che ai metitori suoi / Fece icaro gustar con suo gran danno, / E che si dice che già Celti e Boi / Fe passar l’Alpi e non sentir l’affanno». Il mito racconta che Icario, cui Dioniso insegnò a coltivare la vite e a produrre vino, un giorno, viaggiando accompagnato dalla fida cagnetta Maira verso Maratona, col carro strapieno del nettare del dio, si imbatté in un gruppo di agricoltori cui fece assaggiare tale delizia. Bevendone questi una grande quantità e senza aggiunta d’acqua, alcuni caddero in un sonno profondo mentre altri, perfettamente desti, divennero iracondi nei confronti di Icario. Dopo averlo ucciso, lo seppellirono sotto un pino, quindi fuggirono. Non vedendo tornare il padre, Erigone, figlia di Icario, partì alla sua ricerca seguita dalla cagnetta Maira che, grazie al proprio fiuto, trovò il cadavere del padrone. Erigone, disperata, si impiccò al pino sopra il tumulo paterno, mentre la cagnetta Maira, ormai senza alcun padrone, si lanciò in un pozzo. La scelta di questo specifico e tragico mito sottintenderebbe una considerazione elevata dei pericoli legati al consumo di vino che Ariosto, nei versi successivi dell’ottava, sembrerebbe “addolcire” assegnandogli una funzione corroborante nell’alleviare la stanchezza dei Galli durante l’attraversamento delle Alpi. 

In un altro passo, infine, nel canto XLII, ottava 98, il poeta scrive: «Ora essendo la cena terminata, / ecco un donzello a chi l’ufficio tocca, / pon su la mensa un bel nappo d’or fino, / di fuor di gemme, e dentro pien di vino». Il testo racconta di una coppa magica (nappo), uno dei tanti oggetti magici dell’Orlando Furioso, capace di rivelare a chi provasse a bere da questa l’infedeltà della propria moglie. Chi non ha fiducia della propria amata corre a bere vino dalla coppa e se costei non è fedele il vino non si farà sorbire ma si verserà macchiando viso e petto dell’uomo; viceversa, solo chi ha una moglie fedele potrà dissetarsi del vino della coppa. Al di là del significato principale del passo, che invita a fidarsi della propria amata scegliendo di non bere dalla coppa, quello che a noi interessa è come il vino sia relegato a elemento palesante l’efficacia dell’incantesimo (si versa o si beve), non presentando in sé, come ad esempio nella tradizione medievale del vinage, alcuna proprietà né magica né mediatica nell’“architettura” del sortilegio. Ulteriore riprova quest’ultima, di come il vino in Ariosto sia un elemento secondario, quasi irrilevante, se non addirittura pericoloso nella letteratura così come nella sua stessa esistenza.

Per sondare il rapporto con il vino di Torquato Tasso (1544-1595) sarà invece necessario esplorare non tanto le grandi opere pubblicate in vita dal poeta sorrentino, come l’Aminta o la Gerusalemme Liberata, capolavori che pure si inseriscono all’interno di due generi, il dramma pastorale e la poesia epica, che solitamente accolgono, come si è visto, di buon grado riferimenti al nettare di Bacco.

Al contrario, se si esamina la sua scrittura privata, e in particolare il ricchissimo epistolario, le allusioni al mondo del vino sono numerose e dettagliate, al punto da restituire il profilo di un grande esperto, capace di distinguere la qualità dei prodotti e di metterli sulla bilancia. Tasso, ad esempio, si profonde in una dotta riflessione sul vino nella lettera 14 dell’edizione ottocentesca curata da Cesare Guasti, inviata da Parigi al conte Ercole de’ Contrari. Il poeta, nell’ottobre del 1570, si era recato in Francia per preparare, insieme ad altri membri della corte estense, il viaggio a Parigi del cardinale Luigi. La trasferta transalpina non è soltanto proficua dal punto di vista degli incontri letterari – conosce la poesia di Ronsard e dei poeti del circolo della Pléiade – ma è proficua anche dal punto di vista enogastronomico, dal momento che permette all’autore di farsi un’idea complessiva del modo di mangiare e di bere dei francesi. Nella lettera sopraccitata Tasso si profonde in un’ampia comparazione tra Francia e Italia, che si articola in vari punti, dalla fecondità del paese alla forza militare, fino alle risorse economiche. Una porzione non trascurabile della lettera è dedicata proprio al mondo del vino, parlandone da intenditore. Distingue ad esempio le qualità delle annate, commentando la negatività di quella precedente in Francia, che aveva fatto sì che non ci fosse, oltralpe, «vino che non fosse brusco o verde». I vini iconici italiani che egli cita sono i «chiarelli, i grechi e le lacrime», ma in generale non nasconde un debole per la produzione enologica francese, asserendo che i vini transalpini sono generalmente «più generosi, maturi e digestibili di quegli italiani». Eppure, nonostante la maggiore finezza di molti dei corrispettivi francesi, al poeta sorrentino, nel complesso, piacevano di più i vini italiani, capaci di restituire quel «non so che, che o lusinghi o morda la lingua e ’l palato, o faccia l’uno e l’altro insieme»: un qualcosa che può essere trovato soltanto nei vini «dolci e raspanti d’Italia», meno perfetti, ma a suo dire anche meno omologati dei migliori vini di Francia.

Nelle lettere di Tasso il vino diventa così uno dei tanti elementi che costituiscono il carattere di una nazione, l’identità di un popolo, che non è soltanto il riflesso di precise scelte politiche e di determinate strategie militari adottate dai governanti, ma l’erede di un patrimonio enogastronomico, di una cultura del mangiare e del bere, che fonda la sua singolarità. 

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Il Seicento: da Marino a Redi

Gli sviluppi della letteratura tardo-cinquecentesca, qui indagati in relazione al dramma pastorale e alla produzione tassiana, anticipano in qualche misura quella nuova interpretazione, di fatto edonistica – e anche decisamente moderna – che porta a considerare il vino una fonte di piacere essenziale nel raggiungimento della felicità. La letteratura barocca riproduce e amplifica questa concezione del vino, proponendo una visione del vino radicalmente sensualista: così accade nell’opera monumento del barocco italiano, il poema L’Adone (1623) del napoletano Giovan Battista Marino, in cui si narrano gli amori di Venere e Adone, trasferendo sul terreno dell’erotismo e dell’appagamento dei sensi quel poema eroico che aveva fino a qualche decennio prima raccontato principalmente gesta militari. Un poema di pace, l’Adone, in cui Venere introduce Adone nel giardino del piacere, diviso in sezioni dedicata ciascuna al piacere di un particolare senso. Nel fatato giardino del gusto non possono mancare «le feconde vigne, / dove in pioggia stillante il vin si sugge», che Marino descrive languidamente come una sorta di Eden in cui il vino scorre spontaneamente dalla pianta in purpurei ruscelli. E non manca una frecciata contro una cattiva abitudine dell’epoca: il poeta vieta severamente di mescolare l’acqua al vino, che si deve bere in purezza se non si vuole profanare la divina bevanda.

Tuttavia, non tutti gli autori seicenteschi condividono la svolta edonistica nella concezione del vino, e non è difficile trovare testimonianze che vanno controcorrente. È il caso di Traiano Boccalini (1556-1613), il quale, nei suoi Ragguagli di Parnaso (1612-1613), opera in prosa in cui l’autore si immagina che i maggiori letterati e principi dell’epoca vengano convocati da Apollo per discutere di questioni politiche, economiche, artistiche o semplicemente del vivere quotidiano.

Nel ragguaglio 24 della prima parte, Boccalini, con invenzione geniale, racconta di come, in Parnaso, il primo maggio sia un giorno lugubre, in quanto si commemora «l’infelice introduzione, fatta alle mense, delle sottocoppe». Questi ingombranti sottobicchieri, introdotti dai principi soltanto per ostentare una vacua e inutile raffinatezza, per trovare il proprio posto a tavola cacciano dal desco le bottiglie di vino, costringendo i poveri commensali ad attendere sino allo sfinimento che qualche svogliato o distratto servitore si accorga del bicchiere vuoto e lo rabbocchi. Il dover bere a discrezione altrui ha conseguenze tragiche per i convitati: «E per crudelemente dilaniar un galantuomo – tuona Boccalini – qual altro più insopportabile aculeo può immaginarsi, che allora fargli stentar il bere, che un saporito boccone ch’egli ha tra i denti, gli ha incitata una gagliarda sete?». La tragicomica parabola nasconde un preciso messaggio, che va letto nel quadro complessivo della nascente polemica tra antichi e moderni: Boccalini si schiera dalla parte degli antichi, più attenti alla sostanza delle cose – e anche del vino – che alle regole dettate dalla «vanità della bella creanza», a cui i moderni con frivolezza prestano troppa attenzione.

Con l’esaurirsi della poetica barocca, nella seconda parte del secolo, anche quel vino che la generazione di Marino aveva celebrato con entusiasmo, diventa oggetto di nuove polemiche di ordine moralistico e non è infrequente trovare, nella letteratura dell’epoca, considerazioni simili a quelle di Francesco Fulvio Frugoni (1620-1686), romanziere, poeta e critico genovese, il quale, nei suoi Ritratti critici (1669), conducendo un’aspra battaglia proprio contro l’edonismo seicentesco, considera il vino un vizio e l’ebbrezza un peccato mortale. Evocando le parole di Sant’Agostino, Frugoni demonizza il frutto della vite: «Se l’huomo per la gola si trova nudo, eccolo comparir dal vino macchiato. Macchia il vino così che non si può trovar più deforme oggetto del Vinolento, il quale rosseggiando nel bigoncio attuffato depone tutto il candore». E ancora: «il vino è un demonio, che se non porta le corna le genera; e tenta così profondamente che s’interna dentro le viscere, scioglie il cingolo della continenza, accende il fuoco dell’ira, con cui chi si scalda smoderatamente bevendo, farneticando pazzo delira».

Per superare questa fortissima riluttanza nei confronti del vino, di origine tanto religiosa quanto antibarocca, non si poteva ripercorrere la strada della valorizzazione sensualistica del piacere del vino: e infatti il percorso scelto dall’aretino Francesco Redi (1626-1697), medico e poeta, nel suo Bacco in Toscana (1685) è radicalmente diverso. Riprendendo le orme tassiane, Redi lega indissolubilmente il vino e la vigna al territorio di origine, facendo di esso un elemento di identità locale o regionale che permette di considerarlo a tutti gli effetti non una semplice bevanda, ma un oggetto culturale. Il Bacco in Toscana inaugura così un modo di scrivere del vino affatto diverso, ma per illustrare questa nuova stagione del rapporto tra letteratura italiana e vino, è bene rimandare a un’altra occasione: ebbri, a questo punto, di letteratura e vino, non si potrebbe apprezzare la portata di una simile svolta.