Al netto dei vari nomi locali, quando si parla di Grechetto si accomunano dentro un’unica grande famiglia due biotipi diversi tra loro: il G109, tipico dell’Orvietano, e il G5, diffuso nel tuderte ma ancor più in Romagna. Conosciamoli meglio

«Gli scienziati hanno spiegazioni plausibili per quei gemelli identici che […] risultano molto simili, poiché ora sappiamo che la maggior parte delle caratteristiche e dei tratti distintivi è influenzata, almeno in parte, dai nostri geni. In compenso, non abbiamo alcuna idea del perché persone che condividono gli stessi geni e ambienti simili possono risultare, come in effetti risultano in certi casi, molto diverse tra loro (o discordanti, per usare il termine scientifico)». Tim Spector (Uguali ma diversi, 2013), che da oltre vent’anni conduce in Gran Bretagna il più grande studio sui gemelli mai fatto, ha creato una nuova disciplina, l’epigenetica, che sta rivoluzionando quello che sappiamo sui geni e sull’eredità biologica. Lo studio dei gemelli ha infatti convinto lo scienziato che la cosa più interessante a livello genetico non sono le somiglianze, ma le differenze, e che queste sono il risultato di un dialogo continuo tra ambiente e DNA, in parte ereditabile: quindi i comportamenti e le esperienze modificano il patrimonio genetico e sono in parte ereditati da figli e nipoti. Un discorso analogo potrebbe essere fatto per un’uva, il Grechetto, anzi i Grechetto, che condividono nome e talvolta zone di produzione, rimanendo due biotipi vicini, ma non identici.
Una
reductio ad unum che sortisce ancora effetti confusi nella letteratura ufficiale, nei disciplinari e nei vigneti, sebbene nel frattempo il processo di distinzione dei due “gemelli” sia andato avanti. Le prime ricerche ampelografiche, chemiotassonomiche e molecolari, esaminando diverse cultivar, avevano già ristretto il campo a due soli biotipi, il G109 e il G5, riconducendo a quest’ultimo (clone G5 ICA-PG, detto Grechetto gentile o di Todi) anche i vitigni Ribolla riminese e Pignoletto (clone CAB3) (Filippetti et al., 1999). Ma un ulteriore ampliamento del set di dati, a 11 loci microsatellite, ha evidenziato in seguito che i due biotipi di Grechetto, condividendo un allele per locus, avrebbero un legame di parentela diretto del tipo genitore-figlio (Costacurta et al., 2004), benché, almeno per ora, non sia stato possibile determinare chi sia il progenitore dell’altro. Quindi chi è Grechetto? Entrambi. Ma non sono la stessa cosa. Un amalgama di zone e di nomi, per indicare quello che è, a tutti gli effetti, uno stretto legame di parentela tra due biotipi uguali, G109 e G5, ma diversi.

Si annidano sotto il nome di Grechetto (clone G109) le cultivar di alcune zone dell’Umbria (“Grechetto nostrale” o “Greco spoletino” a Spoleto, “Greco bianco” di Perugia e “Grechetto bianco” in altre zone); “Stroppa volpe”, “Pulcinculo bianco”, “Pulce” e “Greco” nella provincia di Siena; “Pizzinculo” e “Strozzavolpe” in provincia di Macerata; “Occhietto”, “Montanarino bianco” e “Grecherello” in provincia di Ancona; infine “Pistillo” nelle province di Ascoli Piceno e Teramo.

Sono invece stati ormai ricondotti invece al clone G5, le varietà con grappoli serrati oppure spargoli, come il Grechetto di Todi, il Greco gentile, la Rebola riminese e il Pignoletto (anche detto Alionzina); infine altri che presentano acini sub-rotondi e anche rotondi invece che ovali, come il “Montanaro” e l’“Uva di San Marino” delle Marche. Altri ancora sembrano avvicinarsi anche al Greco del Vesuvio, al Greco di Tufo e all’Uva Greca del Piemonte.

Area di massima diffusione del vitigno per entrambe le declinazioni sono quindi le regioni del centro-nord d’Italia – dall’alto Lazio e bassa Toscana, a Umbria, Emilia Romagna e Marche – dove il tradizionale sistema di coltivazione della vite era quello etrusco, con la pianta maritata allo “stucchio” (acero). Una pratica resa possibile dall’elevata vigoria che accomuna entrambi i cloni, che facilmente si lasciavano allevare in “trecciaie” e tirate (tralci lunghi, anche di piante diverse, raccolti in due/tre e curvati ad arco), utili a metterle a riparo dall’umido e dal freddo del suolo, oltre che a lasciare il terreno libero per altre colture o per il pascolo. In un contesto di vino quotidiano, il Grechetto, in particolare il G109, fino agli anni ’60, si divideva la scena con il produttivo Trebbiano toscano, al quale aggiungeva, in vinificazione, complessità e struttura.
L’avvento della viticoltura moderna e di qualità, tuttavia, se da una parte decreta il ridimensionamento del Trebbiano a favore del Grechetto, guida progressivamente anche a una contrazione dei vigneti destinati al Grechetto G109 – passaggio ben visibile a Todi (PG) – a tutto beneficio del biotipo G5, ritenuto più regolare e resistente in vigna e più raffinato in cantina: “gentile”, appunto. 

Origini e territori

Il Grechetto G109 rimane quindi circoscritto a quell’area di confine tra Lazio e Umbria, la Valle dei Calanchi, un territorio caratterizzato a livello geomorfologico da fenomeni di calanchismo naturale ed erosione dei tufi originatisi dalle eruzioni del complesso vulcanico di Vico e dei monti Cimini, gli stessi che riguardano la vicina e nota Civita di Bagnoregio, per tale ragione detta “la città che muore”. Epicentro e presidio della coltivazione del Grechetto è Civitella d’Agliano, piccolo borgo medievale affacciato sulla valle del Tevere, già nota agli Etruschi per la sua vocazione alla produzione di vini (nel museo cittadino sono raccolte numerose tracce archeologiche, tra cui anche di anfore da vino). Qui si colloca, sin dal 1963, l’azienda di Sergio Mottura, cui si deve il merito di aver valorizzato, lanciandolo su palchi internazionali, il Grechetto G109, non ultimo l’aver intrapreso con il ricercatore del CNR Stefano Del Lungo un progetto di ricerca sul vitigno, per indagarne le origini. Per la sua etimologia, a lungo si era pensato dapprima che si trattasse di un’uva greca, una aminea, poi di una greacula, ovvero analoga per profumi a quelle elleniche, seppur non necessariamente greca d’origine. Di essa si è detto che, assieme al Greco di Tufo, potesse far parte della famiglia delle Amineae descritte da Catone il Censore, dal nome dal popolo degli Ammei, originari della Tessaglia, che le avrebbero introdotte in Italia. Una storia, quella delle Amineae, che è in realtà molto più complicata di quanto si pensi, come ci spiega il ricercatore del CNR: «per gli archeologi e per gli storici francesi, le Amineae sono varietà alle quali in epoca classica (soprattutto i Romani) non si diede alcun peso. Il Greco non ha elementi per essere una aminea, mentre la coppia Grechetto-Pignoletto va per i fatti suoi e ancora non si è riusciti a definire un periodo preciso nel quale collocare il suo viaggio da Sud verso l’Umbria e le regioni centro-settentrionali né quale sia stato il vettore o la ragione del nome. Ma certamente non sono Amineae».

Secondo Del Lungo, le origini del Grechetto sarebbero, piuttosto, da ricondurre, attorno al IX-X secolo, a una forte matrice genetica irpina. Studi recenti l’assimilerebbero infatti al Santa Sofia, vitigno recentemente riscoperto, che occupava storicamente l’area irpina, lucana e pugliese di competenza bizantina e longobarda (come suggerisce il nome della varietà) fino alla conquista normanna. Alcune testimonianze storiche riportano che Federico II di Svevia fosse un grande bevitore di Grechetto, informazione che ci riporta immediatamente agli Agliano, signori del nord Italia discendenti della gens degli Allii, a lui imparentati attraverso la famiglia dei Lancia. In particolare, a Giordano Agliano, vissuto nel XIII secolo, che fu per anni al servizio dell’imperatore al sud, prima di diventare vicario di re Manfredi in Toscana, Umbria e ad Ancona, durante gli scontri tra Guelfi e Ghibellini, che coinvolsero anche Civitella. Ancora non si hanno prove dirette del nesso tra gli Agliano e Civitella, ma il sospetto che il toponimo sia legato alla famiglia, proprio come altri centri da essa governati nell’astigiano (Agliano Terme), è molto forte. Il Grechetto sarebbe quindi giunto nel Centro Italia dalla Puglia seguendo le vie appenniniche della transumanza, dove avrebbe viaggiato in parallelo con il suo parente G5 (Grechetto gentile o di Todi, Pignoletto o Alionzina), che si sarebbe invece indirizzato più verso la costa adriatica. Come abbiamo visto per l’uva Pecorino nel numero 15 della rivista L’Assaggiatore, sui tratturi non circolavano infatti solo pecore, ma anche beni commerciali. Il possesso di greggi era infatti appannaggio delle famiglie più ricche (pecunia, denaro, deriva dal latino pecus, bestiame) per le quali la transumanza si rivelava un’ulteriore occasione per fare reddito: lungo i tratturi, nei secoli diventati sempre più attrezzati di servizi per i viaggiatori e addirittura regolamentati da dazi doganali (la Regia Dogana della mena delle pecore fu istituita dagli aragonesi a metà del ‘400 in Puglia e circa un secolo dopo fu estesa anche all’Abruzzo), si svolgevano infatti anche i commerci, movimentando beni tra i centri abitati di pianura e di montagna. Al centro di questi scambi vi erano prodotti artigianali, alimentari e, ovviamente, sementi e barbatelle di vite, e molti sono i vitigni entrati a far parte di questa “cultura degli Appennini”. 

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Quindi, a un certo punto, nel centro Italia, le strade dei due Grechetto si dividono, con il biotipo G109 che si stabilizza in Umbria e nell’alto Lazio e il G5 che prosegue verso l’Adriatico, colonizzando le Marche e la Romagna. Come abbiamo visto, la sua presenza è però forte anche a Todi, dove il gentile, noto come Grechetto di Todi, è protagonista nell’omonima DOC. Nel disciplinare, dove si dà ormai per consolidata l’equivalenza tra il Grechetto ivi conosciuto con il Pignoletto diffuso in Emilia Romagna e la Ribolla Riminese, il legame del G5 con la zona è comunque dimostrato dalle citazioni di alcuni ampelografi: «l’Acerbi nel 1825 descrisse un’uva “Greca” con fioccine verde-giallastro e con il punto pistillifero marcato, che fa pensare al Grechetto G5; il Molon, nel 1906, descrisse brevemente il Grechetto insieme ad altre varietà che portano il nome di “Greco”. Il Pasqualoni nel 1954 così menzionò il Grechetto biotipo di Todi: “vitigno ben conosciuto in tutta l’Umbria, vigoroso, di grande espansione, dal grappolo piuttosto piccolo, di produttività media e qualità fine”. Il Baldeschi nel 1983 scriveva a proposito del vino prodotto in Umbria dal “Greco Bianco” si ottengono mosti migliori per elevato grado gleucometrico e per più moderata acidità; riesce un vino limpido, un tantino verdognolo, abbastanza armonico e con delicato aroma di frutta, che ricorda la pera».

La componente fruttata/floreale caratterizza anche i vini ottenuti da clone G5 nei Colli Bolognesi, localmente detto Alionzina piuttosto che Pignoletto, dal momento che gli sono dedicate due denominazioni omonime: la DOC Pignoletto e, soprattutto, la DOCG Colli Bolognesi Classico Pignoletto che prevede almeno l’85% del vitigno e fino al 95% nelle versioni Spumante e Classico Superiore. Una denominazione che abbraccia la zona pedecollinare e di media collina compresa tra la vallata della Val Samoggia e dall’ampia vallata del fiume Reno e da quelle minori dei torrenti Samoggia, Lavino e Idice. 

La comparsa del G5 in quest’area, dove veniva coltivato in collina, facendolo maritare ad alberi di Acero o di Olmo, è documentata da diverse fonti. Nel 1300, Pier de’ Crescenzi, nel Ruralium commordorum - libro XII descrive le caratteristiche organolettiche di un vino frizzante e piacevole che chiama “pignoletto”. Agostino Gallo ne Le venti giornate dell’agricoltura del 1567, sollecitava di piantare le uve pignole, perché ricercate e per la loro notevole produzione, in grado di garantire floridi commerci. Andrea Bacci, medico e botanico di Papa Sisto V, nel personale trattato del 1596 De naturali vinorum historia, ne declamava le «rare et optime» qualità, così come il Soderini, agronomo fiorentino, e, in seguito, nel 1726, il Trinci. In ultimo, un’uva pignola coltivata sulle colline a sud di Bologna, con caratteristiche del tutto analoghe al Pignoletto odierno, è descritta nel Bullettino Ampelograficho del 1881.

Conclude le più significative declinazioni del G5, la Rebola che appare nella DOC Colli di Rimini, dove è presente per almeno l’85%, anche nelle tipologie secco, amabile, dolce, passito. La sua presenza è attestata al 1378, col nome di “Ruibola o Greco”, mentre la sua zona di coltivazione si estende nella parte più meridionale della Pianura Padana, caratterizzata da un insieme paesaggistico movimentato, con il mare a est, i crinali del subappennino a sud ovest e i declivi ondulati degradanti verso il mare e le pianure sul lato a nord.

Un profilo aromatico che fa parlare di sé

Nel disciplinare del Todi DOC Grechetto, dove la compresenza dei due biotipi nei vigneti è piuttosto ricorrente, viene fatta «una chiara individuazione e tipicizzazione legata all’ambiente geografico» e si legge che «il G5 è capace di evidenziare un profilo sensoriale caratterizzato da una maggiore componente floreale e fruttata, rispetto a quello ottenibile nelle medesime condizioni pedo-climatiche e tecniche con il G109; emergono inoltre interessanti note agrumate e una maggiore percezione al palato sia generica sia degli attributi fruttato e corpo. Il vino di Grechetto G109 si dimostra invece interessante soprattutto per il colore, l’acidità, la freschezza e la serbevolezza».

Il profilo aromatico del Grechetto è da diversi anni al centro dell’interesse dei ricercatori, per via della sua ricchezza e freschezza aromatica e per il fatto che ricordi in molti aspetti i vini ottenuti da uve Sauvignon blanc. Una prima ricerca (Qualitative data analysis for an exploratory sensory study of grechetto wine, Esti, 2010), attraverso uno studio sensoriale qualitativo (condotto su 16 vini, diversi per annata, Indicazione Geografica Tipica e clone, raccolti da 7 cantine, utilizzando un panel formato in isolamento che faceva riferimento a un glossario di 133 descrittori di vini bianchi) notava come il clone, la zona geografica di provenienza, l’annata e il produttore avessero effetto sugli attributi sensoriali. 

Dalla ricorrenza di alcuni attributi sensoriali, si identificavano poi diciassette termini comuni a tutti i campioni, decretandoli quindi come “caratteristici” del vino Grechetto; di questi, i 10 olfattivi erano: fruttato, mela, fiore d’acacia, ananas, banana, floreale, erbaceo, miele, albicocca e pesca. In particolare si era notato che nei vini giovani predominavano le note di zolfo, lievito, frutta secca, burro, unite a note erbacee fresche e fruttate tropicali (melone, pompelmo), ammettendo quindi la possibilità che nei vini da uve Grechetto si riscontrassero sentori tiolici. Aspetto, quello dei tioli, approfondito in uno studio successivo, Tioli volatili in vino da uve grechetto di Cerreti, Ferranti ed Esti, portato avanti in collaborazione con l’Università degli studi della Tuscia. Qui si è andata a verificare la presenza e l’eventuale impatto olfattivo dei tre principali tioli aromatici (4MMP, 3MH e 3MHA), in vino ottenuto da uve Grechetto (clone G109 della Tenuta Mottura di Civitella di Agliano), allevate a cordone speronato o Guyot. Quello che è emerso è che i tre tioli (4MMP, 3MH e 3MHA), caratteristici dell’aroma tipico dei vini da uve Sauvignon blanc, sono stati riscontrati, al di sopra delle rispettive soglie di percezione, per la prima volta in vino ottenuto in purezza da uve Vitis vinifera L. var. Grechetto, prodotte nel territorio della Tuscia viterbese. Si legge nelle Conclusioni dello studio: «essendone nota la bassa resa di conversione per attività β-liasica dei lieviti durante la fermentazione alcolica, si può presupporre un’apprezzabile presenza nelle uve Grechetto dei relativi precursori cisteinici o glutationici.
In ragione della bassa concentrazione del 3MH determinata, il profilo aromatico del vino Grechetto, risulterebbe, tuttavia, discostarsi qualitativamente da quello del Sauvignon b. per l’assenza della nota odorosa di pompelmo. La forma di allevamento (Guyot vs cordone speronato) non ha influenzato il contenuto totale di tioli volatili nei rispettivi vini».

Infine, in uno studio ancora successivo (Evolution of S-cysteinylated and S-glutathionylated thiol precursors during grape ripening of Vitis vinifera L. cvs Grechetto, Malvasia del Lazio and Sauvignon Blanc, Cerreti, 2015), stavolta nato da una collaborazione tra le Università della Tuscia e di Napoli, in cui si comparavano Sauvignon, Grechetto e Malvasia del Lazio, sono stati addirittura identificati negli acini d’uva di Grechetto i precursori aromatici di molecole odorose di natura tiolica, ossia solfurea, caratteristici dei vini ottenuti da Sauvignon blanc. «In particolare – riporta Luigi Moio (Il respiro del vino, 2016) – è stato dimostrato che i precursori d’odore del Grechetto aumentano durante la maturazione dell’uva, raggiungendo il massimo accumulo quando la concentrazione zuccherina degli acini è tra il 16 e il 22%. Questi risultati dimostrano che […] se la gestione della maturazione e della raccolta dell’uva è attenta, oltre alle consuete molecole odorose della base fermentativa è possibile far esprimere durante la fermentazione alcolica le note varietali di frutto della passione».

Un altro elemento da tenere sotto controllo in vigna, evidenziato già nello studio del 2010, è poi, per entrambi i cloni, la già evidenziata vigoria che, in caso di squilibrio tra parte vegetativa e parte fruttifera, potrebbe generare nei vini una componente gustativa erbaceo-amara non positiva, come sperimentato in alcune prove di vinificazione di Grechetti di Umbria e Alto Lazio. Tuttavia, una piccola presenza di sentori erbacei-amaricanti è da ritenersi caratteriale e specifica di questa cultivar, pertanto la sua presenza, se in quantità moderata e ben integrata con il resto dei descrittori (quali acidità, gradazione alcolica, sapidità-mineralità e componente aromatica) è da definirsi positiva. Quel che è certo è che, per entrambi i biotipi, non bisogna mai aspettarsi vini banali: se da una parte, per il G5, abbiamo un corredo aromatico più marcatamente fruttato, con la frutta a polpa bianca in evidenza, che lo rende anche nei fatti, oltre che nel nome, “gentile”; dall’altra, per il G109, quella certa spigolosità “minerale” si fa più evidente ed è accompagnata al gusto da un piglio tannico, dovuto alla tenacia delle bucce: elementi che nella moderna viticoltura non spaventano più come in passato, ma assurgono a garanti di longevità e complessità dei vini. Prerogative richieste ai grandi vini bianchi, ai quali, senza indugio, il Grechetto appartiene.


Le uve

Il clone G109 presenta tronco di medio vigore, tralcio legnoso di media lunghezza con sezione trasversale rotonda e superficie liscia, con corteccia di colore marrone; il tralcio erbaceo è invece a sezione trasversale ellittica, contorno quasi liscio, glabro, di colore verde sfumato di bronzo.
La
foglia è di media grandezza, allungata, pentagonale, trilobata e più raramente quinquelobata e anche intera; il seno peziolare è a V-U o a lira, più o meno aperto, mediamente profondo; i seni laterali superiori sono ellittici, semi chiusi e poco profondi, quelli inferiori, se presenti, a V, aperti, poco profondi; la pagina superiore ha colore verde carico ed è bollosa o rugosa; la pagina inferiore è glabra; il lembo è ondulato e la dentatura mediamente regolare, con denti di media grandezza. Il grappolo è medio, cilindrico con o senza ali oppure cilindro-conico, serrato o semi serrato, con peduncolo verde di media lunghezza e grossezza. L’acino è ovale e di media grandezza, con buccia mediamente pruinosa, di colore giallastro, sottile, consistente e semitrasparente; la polpa è sciolta, di sapore semplice e dolce. I fenomeni vegetativi avvengono in epoche variabili: ordinaria il germogliamento, precoce la fioritura e intermedia l’invaiatura, mentre è precoce la maturazione. La vigoria medio-elevata richiede in vigna potature di media lunghezza oppure lunghe nel caso (ormai raro) si scelga di maritare la vite all’acero. La produzione è medio-abbondante, ma non costante. La durezza della buccia degli acini garantisce alta resistenza alla peronospera e alla Botrytis, ma la pianta subisce il freddo invernale e primaverile e gli attacchi dell’oidio. Non ha particolari esigenze in fatto di clima e di terreno, ma si adatta bene a quelli argilloso-calcarei dell’Italia centrale.

La pianta del clone G5 ha tronco robusto, tralcio legnoso di media lunghezza e robustezza, elastico, a sezione rotondeggiante, liscio e di colore nocciola scuro tendente al rossastro; il tralcio erbaceo ha sezione ellittica e contorno angoloso, con peluria aracnoidea, colore verde con nodi rossastri. La foglia è pentagonale, trilobata (talora quinquelobata o di rado intera), più lunga che larga, con lembo a gronda, contorto, piuttosto spesso, flessibile; seno peziolare a V aperto (raramente stretto); seni laterali superiori a V stretto o a bordi sovrapposti; seni laterali inferiori, se presenti, a V stretto; la pagina superiore è aracnoidea, di colore verde chiaro, piuttosto lucida e con nervature verdi-giallognole; quella inferiore glabra o con rada pubescenza aracnoidea, con nervature verdi e sporgenti; i lobi sono a gronda, contorti, con angolo acuto alla sommità di quello terminale; la dentatura regolare e abbastanza pronunciata, con denti laterali medi e grandi, irregolari, arcuati e uncinati, a base larga. Il grappolo è lungo, cilindrico, piuttosto serrato, di rado con un’ala, con peduncolo grosso e semi-legnoso. L’acino è di grandezza media e forma ellissoidale, con buccia pruinosa, spessa, di colore giallo dorato-verdognolo o verde-ambrato, con ombelico molto evidente; la polpa è piuttosto sciolta e il succo incolore, di sapore semplice e dolce. I fenomeni vegetativi hanno tutti luogo in epoca media, quindi seconda decade di aprile il germogliamento; prima decade di giugno la fioritura; terza decade di agosto invaiatura e seconda decade di ottobre la maturazione. La pianta ha buona vigoria e produttività costante, seppur contenuta in termini di peso per via dei grappoli piccoli. Resiste bene alla siccità e alle crittogame.