Arte, ospitalità e vini di parcella sono le coordinate di una famiglia che è storia contemporanea del vino italiano, capace di “esportare” stile e passione ben oltre quella Valpolicella che le ha donato natali e vigneti
Nei primi anni del Novecento, Verona e la campagna circostante emanavano tutto l’avventuriero fervore del secolo appena nato. Le fantasie letterarie di Emilio Salgari regalavano esotici brami a buon mercato, i colori, ora sgargianti ora pallidi, dei dipinti di Guido Alberto Trentini anticipavano le dure forme del futurismo interventista e l’applicazione nell’economia locale, rurale e non, dell’umanesimo liberale di Angelo Messedaglia erano l’ossigeno di una delle più attive province di una Italia ancora fanciulla.
In questo clima elettrico e iridescente, nel 1902, Giacomo Battista Tommasi, vignaiolo e mezzadro, iniziò a pensare e a produrre vino fuori dagli schemi del tempo, non più solo bevanda ma piacere, proiettando progenie e cognome nella storia del vino italiano.
«Sebbene la cantina nacque nei primi del Novecento – racconta Pierangelo Tommasi – l’imprinting imprenditoriale si consolidò nel secondo dopoguerra, con la terza generazione, quella di mio padre per intenderci, che ha proiettato produzione e brand nei successivi 50 anni. A metà anni Sessanta poi – prosegue – osservando anche altre aziende italiane più strutturate e, all’epoca, più famose di noi, iniziammo a organizzarci per l’export.
Gli anni Novanta, infine, soprattutto dalla fine del decennio quando alla guida del gruppo subentrammo noi della quarta generazione, videro un’ulteriore accelerazione nell’acquisizione dei vigneti, non solo in Valpolicella, e la “metamorfosi” in Tommasi Family Estate».
Vignaioli, produttori ma anche pionieri dell’ospitalità e dell’enoturismo: questo è, oggi, la famiglia Tommasi, forma polifunzionale di azienda vinicola per antonomasia. «Ciò che nel 2022 ci distingue, e ancor più vent’anni fa, – spiega Tommasi – è la lungimiranza.
Per prima cosa c’è la forza della famiglia: di generazione in generazione siamo sempre stati uniti e mossi da altrettanta armonia d’intenti. In secondo luogo, abbiamo sempre lavorato nelle aziende del Gruppo, in Valpolicella così come in quelle acquisite nel resto d’Italia.
Questi due aspetti hanno nutrito quella lungimiranza cui accennavo prima: una qualità ereditata dai nostri padri, giacché furono loro a capire che l’ospitalità avrebbe aiutato il settore vino. Proprio da questa lungimiranza è nato il progetto Villa Quaranta e il nostro mondo hospitality, che non si esaurisce nel territorio veronese ma “sconfina” nelle altre tenute come, ad esempio, l’agriturismo in Maremma nell’azienda Poggio al Tufo e un’altra di cui daremo presto notizia».
Oltre a ciò, la ricchezza, intima e irriproducibile, di Tommasi è rappresentata dai vigneti. Tralasciando le tenute al di fuori del Veneto, in Valpolicella, così come nel Garda e nella zona del Lugana, la famiglia conta oltre 242 ettari vitati, di cui 115 nella zona della Valpolicella Classica, 17 nella Valpolicella-Valpantena, 55 nelle denominazioni del veronese e sul Lago di Garda e il resto nel Lugana.
In Valpolicella Classica fa bella mostra di sé il vigneto La Groletta, nel comune di Sant’Ambrogio di Valpolicella, sulla collina Grola, a 250 metri di altitudine. Eccellenza assoluta delle tenute veronesi, (6.500 ceppi per ettaro e una resa media di 60 quintali) su questi terreni calcarei ricchi di fossili, sono coltivate le uve Corvina, Corvinone, Rondinella e Oseleta utilizzate per la produzione dell’Amarone Riserva De Buris, vino iconico del territorio.
Non lontano da La Groletta c’è il vigneto Conca d’Oro, dove oltre alle tradizionali uve della zona, che danno vita all’Amarone Classico e al Ripasso, sono allevate piante di Cabernet franc, protagonista, insieme a Corvina e Oseleta, del vino Crearo. A San Pietro di Cariano, invece, c’è il vigneto Rafaèl, il più antico della famiglia, acquisito dal bisnonno Giacomo, fondatore dell’azienda.
Qui le uve sono crescono in pergola sulle tradizionali terrazze rette dalle marogne, muretti a secco tipici della Valpolicella e patrimonio UNESCO. Attigui al Rafaél troviamo i vigneti Ca’ Florian e Fiorato, anch’essi storici e forieri, nel caso del Ca’ Florian, di un cru di Amarone tra i migliori dell’areale. Tornando a Sant’Ambrogio della Valpolicella troviamo, infine, la Tenuta Prunea, un singolo vigneto di 54 ettari dove sono coltivati Merlot e Pinot grigio. A chiudere il quadro della provincia di Verona, la tenuta il Sestante a Grezzana, la Tenuta Le Fornaci nel Lugana, dove regna la varietà Turbiana, Fossa Granara a Castelnuovo del Garda per la produzione di Bardolino, Chiaretto e Custoza e i vigneti orientali di Volpare e di Monte Croce: il primo nella zona vulcanica del Monte Foscarino, nel Soave Classico, e il secondo nel comune di Monteforte d’Alpone.
Vini di tenuta, quindi, frequentemente da singola parcella, e mai di metodo o tecnica quelli di Tommasi; annoso dilemma, quest’ultimo, che coinvolge i prodotti di punta della Valpolicella come l’Amarone e il Ripasso.
«L’equivoco che in Valpolicella si producano dei vini di metodo o tecnica – riflette Pierangelo Tommasi – sta, probabilmente, nel fatto che l’evoluzione compiuta dai bacan (contadino in dialetto veneto, N.d.R.) a imprenditori è, a tutt’oggi, ancora recente. La Valpolicella non è stata capace di trasmettere al mondo quanto la bontà e lo stile dei propri vini dipendano dalle zone e dalle sottozone del territorio. Girando il mondo – chiarisce – mi sono accorto che paragonare l’Amarone al Brunello o al Barolo non aiuta; quella sensazione di morbidezza del nostro vino, nel confronto, viene spesso percepita come un limite. Il carattere dello stile quindi, aspetto che vale anche per il Ripasso, mette in secondo piano la genesi dello stile, ossia il territorio. Lo stile dei nostri vini non è un metodo ma una necessità imposta dall’ambiente e dalla storia della Valpolicella. Sotto i 4 grammi di zucchero residuo, mediamente, sull’Amarone non si riesce a stare, perché è un Passito prodotto da uve tradizionali adatte, tutte, compresa la oggi sempre più abbandonata Molinara, all’appassimento».
La sintesi di questo modo di essere e pensare della famiglia Tommasi trova forma e sostanza nel progetto De Buris, non solo un grande Amarone della Valpolicella Riserva, non solo il recupero della villa più antica (XIII secolo) della zona, ma soprattutto un progetto volto alla valorizzazione del tempo, della storia e del patrimonio culturale del territorio.
«De Buris – spiega Tommasi – è l’unione di due aspetti: la volontà di fare un grande vino da vigneto vocato e un disegno imprenditoriale fuori dagli schemi. Tutto nacque nel 2000, quando acquisimmo La Groletta, all’interno della quale, nella parte più elevata, trovammo delle vecchie vigne da cui, subito, pensammo di ricavare un vino molto importante. Con l’acquisizione, poi, di Villa De Buris scattò l’idea di farlo diventare uno Château, con la futura realizzazione di un vero e proprio Relais & Château per l’accoglienza.
Con De Buris vogliamo raccontare il tempo, attraverso un grande vino e una residenza unica». Uno stock minimo quello della Riserva De Buris, corpo a sé rispetto alla Tommasi, sebbene gioiello di famiglia, che ha registrato, nelle tre annate prodotte, circa 7.500 bottiglie l’anno, testimoni, tutte, di un sogno che si realizza attraverso le generazione; quella visione allo stesso tempo concreta e utopistica di un bacan della Valpolicella che, nei primi del Novecento, a saputo immaginare il futuro e trasmettere questa suggestione a una progenie esperta e appassionata come poche altre, nel mondo del vino italiano, sanno essere.