Dono sacro e farmaco per anima e corpo, il vino è simbolo e rito prima di essere materia liquida in grado di appagare la sete così come di indurre all’ebrezza. In un viaggio dalla Preistoria all’alba del Cristianesimo, scopriremo i tanti significati di uno dei più gaudenti misteri dell’umanità
«Erano d’animo così pacifico e benigno […] che potevano ripetere quel detto di Isaia: Saranno dimenticate le tribolazioni antiche, saranno occultate ai miei occhi. Non è meraviglia. Avevano bevuto il vino della dolcezza dello Spirito di Dio, e quando lo si gusta perde sapore ogni carne. Perciò ai predicatori viene prescritto: Date bevande inebrianti a chi sta per perire e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore. Bevano e dimentichino la loro povertà e non si ricordino più delle loro pene». Con queste parole Fra Salimbene da Parma, nella sua Cronaca del XIII secolo, descrive l’opera dei predicatori nell’“Anno Alleluia”, quel 1232 di «giocondità e allegrezza», come lui stesso racconta, perché «riposte tutte le armi da guerra». Tra le righe del francescano, salta agli occhi la centralità della parola vino, contraddistinta, allo stesso tempo, da un significato immateriale quando è dolcezza dello spirito di Dio e uno più tangibile quando, da bevanda inebriante, diventa panacea per moribondi e consolazione per le persone tristi. Concreto e incorporeo, duale ma anche composito e “fluido” nei suoi impieghi così come nella sua simbologia, il vino e prima ancora la vite, rappresentano, dal Neolitico in poi, dei sostanziali costituenti dello sviluppo delle civiltà europee e mediorientali.
Lo scorso anno, sulle pagine de L’Assaggiatore avevamo raccontato le dinamiche del valore materiale del vino, quello basato sugli indici economici dell’uso e dello scambio delle merci. Una qualità sempre quantificabile e valutabile basata, nella sua prima interpretazione, sul concetto aristotelico di axìa: valore legato al consumo da parte dell’uomo, valore del prodotto sul mercato e sacrificio del venditore commisurato alla ricompensa in moneta ottenuta dalla vendita. Quest’anno percorreremo, invece, la strada per definire una sorta di aretè del vino: capacità di soddisfare a compiti alti che vanno oltre la sua ontologia di liquida materia. In poche parole, il suo valore sacro e quindi separato, dedicato e riservato a un’esperienza di dimensione altra, in grado di svelare all’uomo, sbigottito e ammaliato di fronte a esso, la sua inferiorità rispetto ai misteri del mondo e delle stelle.
La sete
«Il primo bicchiere è per la sete; il secondo, per la gioia, il terzo, per il piacere; il quarto, per la follia». Apuleio, nel suo aforisma dei Florida (II secolo), poneva quale primaria soddisfazione del consumo di vino, la “scomparsa” della sete: necessità, bisogno e meccanismo di compensazione per l’esaurimento dei liquidi.
In principio, quindi, fu la sete, occorrenza del tutto empirica che, nel Neolitico pre e post transizione agricola, raffigurava insieme a bisogni quali cibo, riparo, protezione e calore l’originario “pantheon” delle quotidiane sussistenze. Placare la sete significava approvvigionarsi di acqua potabile, quindi il più possibile pura, e poterla conservare. L’unica acqua sicura arrivava dal cielo, ma, verosimilmente, era arduo conservarne grandi quantità. Il resto delle riserve di acqua dolce era difficilmente valutabile, se non attraverso i sensi, per cui se l’acqua dei fiumi, dei ruscelli o dei laghi era insipida, incolore e insapore, allora, probabilmente era buona da bere. Da evitare sempre, invece, le acque stagnanti: più o meno colorate, quasi sempre fetide e dal sapore, spesso, deciso. Esperienza e osservazione costituivano, quindi, l’unica conoscenza in merito.
Ad alleviare un poco la situazione, la raccolta idrica delle grotte, primordiali cune di un’umanità che, dal Paleolitico in poi, riservò loro un valore materiale e simbolico prodigioso. La raccolta delle acque di stillicidio in contenitori ordinati sotto le stalattiti costituiva perciò una stabile, sebbene modesta, fonte di acqua potabile, così come la sistemazione di recipienti vicino alle pozze e ai laghi reconditi di queste “cripte” naturali. Tanti gli esempi in merito in Italia, come la Grotta dei Meri sul Monte Soratte, non lontano da Roma, dove è stato rinvenuto, in una zona profonda dell’antro, un orcio d’età neolitica, atto alla raccolta delle acque, oppure la Grotta di Pozzi della Piana nei pressi di Terni, in Umbria, dove, nelle fessure della roccia e vicino a un interno bacino naturale di stillicidio, sono stati ritrovati diversi vasi di foggia neolitica.
L’acqua pura, non facile da reperire, scarsa in quantità e mai semplice da conservare, assunse così un significato simbolico, traslando, come spesso accade nelle protoculture umane, dal piano materiale a quello spirituale. Nacque così il mito della purezza dell’acqua e l’associazione di questo elemento ai “prodigi” della nascita e della fertilità. Proprio irrigando i primi orti primitivi si rinnovava, di stagione in stagione, il “miracolo” dello sviluppo: nascita del seme, crescita della pianta e maturazione del frutto.
In questo contesto di bisogni materiali, cui vengono già date delle risposte pseudo-metafisiche, si sviluppano le prime esperienze di viticoltura, databili oggi intorno a 6.000 anni fa, ma forse anche prima, nella regione transcaucasica.
All’interno dei cosiddetti “immondezzai primitivi” (Dump-heap Hypothesis, The Archaeology of Farming Systems, W. F. Keegan), nei pressi di accampamenti post-wurmiani sempre più stanziali, i frutti della vite divengono oggetto di grande interesse da parte dell’uomo.
Contrariamente ad altri frutti, in quella casuale trasformazione in liquido fermentato (bevanda primordiale prodotta da un processo spontaneo e accidentale), l’uva era in grado di garantire, anno dopo anno, un prodotto dissetante, puro e inebriante: un’“acqua pura”, sicura e dalla prevedibile produzione, gradevole all’olfatto e appagante al gusto.
La vite, insieme a una trentina di altre specie vegetali, diventò una di quelle coltivazioni meritevoli di protezione all’interno di spazi dedicati (orti primitivi) che, in quel tempo fuori dalla storia, dovevano sembrare dei veri e propri paradisi. Lungi dall’accezione di regno dei cieli, la parola paradiso, che viene dalla latinizzazione (paradisum) del termine greco paradeisos a sua volta derivato dal persiano pairidaeza, significa “luogo recintato e protetto” o “giardino recintato”, qualcosa davvero di molto simile, quindi, ai primi orti del Neolitico in cui videro la luce l’agricoltura e la viticoltura.
Potremmo ironicamente dire, quindi, che la vite adorna il “paradiso” ben prima della sua redazione nelle sacre scritture. Senza alcun sarcasmo, tuttavia, è plausibile che, sin dal Neolitico, il frutto fermentato della vite, capace di alterare le coscienze (invero come altri quali funghi allucinogeni, bevande fermentate da cereali e altra frutta, decotti di erbe ecc.), contribuì al nutrimento dei culti della circolarità del tempo e della fertilità. Inoltre, vite e vino, arricchirono tali devozioni con l’idea di rinascita, nutrendo quel primordiale alveo della religiosità primitiva legato al culto della dea madre e all’idea che il mondo, nella sua totalità, fosse il risultato della morte e della decomposizione di un essere ancestrale.
Prima della storia con la maiuscola, quindi, il vino ha già una serie di ruoli nel consorzio umano: materiali, commerciali, simbolici e rituali. «Con la sua morte apparente, d’inverno, – scrive Tim Unwin (Storia del vino, Donzelli editore, Roma, 1993) – divenne simbolo molto pertinente della morte e della rinascita del dio e di tutto il ciclo dell’agricoltura; di conseguenza i prodotti della vite finirono per assumere una rilevanza simbolica e rituale perché contenevano il segreto della rinascita […] inoltre il vino con la sua virtù inebriante e “ultraterrena” forniva alla gente un modo per mettersi in contatto con gli dei […] infine il ciclo si chiudeva col ritorno alla fertilità umana, grazie alla capacità del vino di spezzare la ragione».
L’originale sete venne così placata e, persino, innalzata a desiderio. Le radici della vite, così come quelle delle altre piante domesticate, erano vegetali viluppi nutriti dalla linfa di una giovane madre terra; tuttavia, quando si beveva l’“acqua pura” dei suoi frutti spremuti, sorso dopo sorso, pupille e testa ruotavano e prima di spegnersi nel sonno, fissavano il cielo, per capire da dove venisse questo dono.
Il dono
«Non rinfacciarmi di Ciprigna i doni, ché, qualunque pur sia, gradito e bello sempre è il dono d’un Dio; né il conseguirlo è nel nostro volere». Così Omero, nel III libro dell’Iliade, per bocca di Paride ammonisce gli uomini ad accettare sempre con benevolenza qualsiasi dono degli dei, interpretati, nel passo, da Ciprigna, alias Afrodite.
Nella saggezza ellenica, ma ampliando il concetto potremmo azzardare nella psicologia sociale degli antichi popoli del Medio Oriente e del Mediterraneo, il reperimento e l’uso di alcune risorse strategiche ed
essenziali per la vita quotidiana delle comunità non possono essere “raccontati” esclusivamente come una “conquista” dell’uomo.
La domesticazione della vite e la successiva produzione di vino, in quanto atti di asservimento della natura ai bisogni (sete) dell’uomo, devono essere alienati all’intervento di entità sovrannaturali per garantirne controllo di legittimità e continuità di approvvigionamento. In poche parole, nella cultura greca, l’uomo nella sua dipendenza da forze e soggetti solo in parte comprensibili, non può arrogarsi in toto il merito dell’“invenzione” del vino. Pena, l’incorrere nel peccato di hybris (tracotanza), un’aberrazione che fa ignorare la condizione mortale dell’individuo, inducendolo a oltrepassare i confini dell’autocontrollo (sophrosyne) e del pudore (aidós).
Una colpa che scaturisce dall’eccesso nel controllo degli eventi, da un’esplosione smodata di felicità, da una manifestazione boriosa di forza o un’eccessiva sicurezza nelle proprie conoscenze. Comportamenti, quest’ultimi, che rendono l’uomo nemico degli dei e inviso a essi.
L’“invenzione” del vino e il vantarsi di ciò non è, quindi, al di sopra di tale rischio, così solo la creazione di un mito o la descrizione di fatti e di circostanze creatrici dello stesso, potranno superare un tale azzardo, risolvendone contraddizioni ed effetti.
Prima ancora dei Greci, già nella civiltà sumero accadica, così come in quella egizia, il vino è dono esclusivo degli dei, ma è nella cultura e nella religiosità ebraica che questo concetto assume forme articolate e complesse, al punto da condizionare tutti gli orientamenti successivi, incluso quello della stessa civiltà ellenica.
Secondo la Torah a diffondere la viticoltura nel mondo fu Noè. Tuttavia, la trasmissione di queste conoscenze viene anticipata e seguita da circostanze in grado cambiare per sempre la vita degli uomini e il loro rapporto con Dio; vite e vino assurgono a simboli di una serie di cambiamenti epocali nella storia dell’umanità.
Nel libro di Bereshit (Genesi), parashà (sezione) Noah (Noè), alla fine del diluvio, prima del passo sulla messa a dimora della vite e dell’ubriachezza del patriarca, si legge che Noè uscì dall’arca «e con lui i suoi figli, e la sua moglie, e le mogli de’ figli suoi come pure tutte le bestie [...] fabbricò un altare al Signore, e prese di tutti i quadrupedi mondi, e di tutti gli uccelli mondi, e ne fece olocausti sull’altare. Il Signore, gradito l’odore propiziatorio, disse tra sé: Non voglio più maledire la terra a cagione dell’uomo [...] Da qui innanzi, per tutta la durata della terra, seminagione e messe, e freddo e caldo, estate e inverno, e giorno e notte, non cesseranno. Iddio benedisse Noè e i figli suoi, e disse loro: Prolificate, moltiplicatevi, ed empite la terra». Queste parole sanciscono l’Alleanza tra Dio e gli uomini: una promessa di vita. Subito dopo si legge:
«Noè, uomo agricolo, incominciò, e piantò una vigna. E bevuto del vino, si ubriacò, e si denudò entro la sua tenda». Il passo appena citato ha senso se legato al precedente. Solo attraverso la sincretica interpretazione dei due momenti si riesce a cogliere il valore della vite e del vino nella cultura ebraica. Tralasciando gli aspetti dell’ubriachezza di Noè, che tratteremo in un altro servizio di copertina de L’Assaggiatore, il vino si fa suggello del patto di alleanza: «una sorta di associazione tra scoperta del vino e promessa di vita, che fa della bevanda introdotta da Noè un dono», come scrive Massimo Donà in Filosofia del vino (Bompiani, 2003, Milano).
Il racconto dell’Alleanza e del dono del vino da parte di Dio implica una serie di considerazioni sul mito, la ritualità e la stessa storia della vite e del vino. Cominciando da quest’ultima, è singolare come la collocazione geografica dell’approdo dell’arca coincida con il primo centro di domesticazione della vite. L’imbarcazione del patriarca si “arenò” sulle vette dei Monti dell’Urartu, un’area che coincideva con l’omonimo stato sovrano dell’Asia Minore, tra il IX e il VI sec. a.C., e includeva i rilievi dell’Armenia in cui si trovava, all’epoca del diluvio (3.400-3.200 a.C. secondo gli scavi dell’archeologo Léonard Woolley), anche la cima dell’Ararat dell’Antico Testamento.
Proprio in queste lande collinari e montuose del Caucaso, fino ai Monti Zagros a sud e in Siria a ovest, è opinione concorde, oggi, che dall’Età del bronzo si sarebbe sviluppata la domesticazione della vite selvatica (vitis vinifera sylvestris). La zona coinciderebbe, infatti, con quella della prima “rivoluzione agricola”, avvenuta tra il 9.500 e l’8.500 a.C. e che vide, nell’ordine, la domesticazione delle capre e del fumento (9.000 a.C.), delle lenticchie e dei piselli (8.000 a.C.), dell’ulivo (5.000 a. C.), dei cavalli e delle viti (4.000-3.500 a.C.). In veste di agricoltori e stanziali, come sapiens abbiamo trascorso circa 550 generazioni (calcolando 20 anni per generazione), mentre in qualità di nomadi cacciatori e raccoglitori ne abbiamo vissute poco meno di 9.500; inoltre, negli ultimi duemila anni, non abbiamo prodotto alcuna domesticazione di specie animale o vegetale, con il risultato che, a tutt’oggi, il 90% del nostro nutrimento proviene dagli effetti di quella prima domesticazione, includendo, ovviamente, quella nei continenti asiatici e americani (riso, patate e mais), databile non successivamente al 3.000 a.C.
L’Alleanza tra Dio e Noè al termine del diluvio, se teniamo conto delle ricerche di Woolley, è databile intorno al 3.400-3.200 a.C. e coinciderebbe con il consolidamento della viticoltura nel suo primario centro di domesticazione, di cui il patriarca, già agricoltore, si erge a diffusore nel mondo. Quest’ultimo aspetto sembra essere dimostrato da documenti storici, indirettamente collegati alla Torah, che fanno supporre come Noè abbia, a sua volta, donato il vino ad altre genti già presenti sul luogo dell’approdo dell’arca.
A suffragare tale tesi è il racconto di Giuseppe Flavio, storico ebreo-romano del I secolo che, nell’opera Antichità giudaiche (UTET, Milano, 2018), in riferimento al diluvio, riporta il resoconto di Nicola di Damasco (storico e filosofo greco): «nell’Armenia sopra Miiade, dove c’è un grande monte chiamato Bari ove si dice che al tempo del diluvio si rifugiarono molti e furono salvati e che un tale, condotto da un’arca, vi approdò sulla cima e che per lungo tempo si conservarono i resti di quel legno. Forse costui può essere quello stesso di cui scrisse Mosè, il legislatore dei giudei».
Concreto ed “ecumenico”, il vino di Noè, a buon diritto uno dei primi vignaioli della storia, è un dono divino dal valore materiale e spirituale: come evidente nel suo costante impiego nei riti dell’Ebraismo.
Altrettanto concreta, infine, doveva essere, sempre nel Vecchio Testamento, quella bevanda alcolica, molto cara a Dio, denominata shakar, presenza costante, insieme al fumo della carne arrostita, durante i sacrifici in suo onore. A porre l’accento sull’importanza di questa parola è Mauro Biglino, cultore di religioni antiche ed ex traduttore di ebraico biblico per le Edizioni San Paolo. Secondo lo studioso torinese, la radice SH-K-R, alla base dei termini shekar, shakur, shikaron e shakar, viene tradotta dai dizionari ebraici con le parole “bevanda alcolica”, “bevanda forte”, “bevanda intossicante”, “ubriachezza” e in molti passi è identificata con il vino. Tanti gli esempi in tal senso, con il vino (bevanda inebriante) quale ingrediente fondamentale, gradito a Dio, durante i sacrifici. Nel parashà Pinchas del Libro dei Numeri (Bemidbar), al capitolo 28, versetti 4-8, si legge: «Un agnello sacrificherai la mattina, e l’altro agnello verso notte. Con un decimo d’Efà (36,6 litri, N.d.R.) di fior di farina, per offerta farinacea, intrisa con un quarto d’Hin (6 litri, N.d.R.) d’olio vergine. È questo l’olocausto quotidiano, che fu già fatto nel monte Sinai, in odore propiziatorio, sacrificio da ardersi al Signore.
E la sua libazione sarà un quarto d’Hin, si verserà in luogo sacro una libazione di pretto vino, al Signore». Il connubio tra vino e fumo di carni bruciate è presente anche in diversi sacrifici in onore degli dei dell’antica Grecia, in una sorprendente continuità culturale e rituale. Grano, vino e olio (triade essenziale delle colture mediorientali e mediterranee post Neolitico), infine, rappresentano i doni del privilegio dell’Alleanza con Dio, così come si legge, tanto per fare un altro esempio, nel Libro dei Salmi, Salmo 104 (Inno al Dio creatore), versetto 15: «Egli rallegra il cuor dell’uomo col vino, gli fa risplendere la faccia con l’olio e sostenta il cuor dell’uomo col pane».
Nella terra di Omero il dono della vite e del vino si palesano attraverso molteplici racconti, talvolta non collegati tra loro, dalla forma più fiabesca rispetto a quelli della tradizione ebraica.
Alle radici della classicità troviamo un mito della vite e uno o più miti del vino, legati questi ultimi alla figura di Dioniso. Una distinzione fondamentale per comprendere non solo la simbologia dei due elementi, ma anche la liturgia del vino e il suo valore in una società perennemente divisa tra componente razionale (spirito apollineo) e irrazionale (spirito dionisiaco).
L’introduzione della viticoltura è spiegata da Ateneo di Naucrati (192-195 d.C.) nel Deipnosofisti (II secolo d.C.): «Ecateo di Mileto (geografo e storico greco vissuto tra il 550 e il 476 a.C., N.d.R.) – scrive – assicura che la vite fu scoperta in Etolia e dice quanto segue. “Oresteo, il figlio di Deucalione, si recò in Etolia per ricevere il governo reale, e una sua cagna partorì un ceppo. Egli ordinò di interrarlo e da questo nacque una vite abbondante in uva; per questo chiamò suo figlio Phytios, il piantatore. Da questo nacque Eneo, che ricevette il suo nome dalla vite, oine”».
Oresteo, che significa “uomo delle montagne” è un cacciatore, rappresentante, quindi, di un’attività, quella venatoria, preagricola, originaria per i sapiens e autenticamente umana: mai ascrivibile, nelle culture del Medio Oriente e del Mediterraneo, a un dono divino.
Il cane rappresenta la stella di Sirio, che Omero chiamava il cane di Orione, costellazione che al suo sorgere, nell’area geografica della Grecia, tra luglio e settembre, coincide con la maturazione e la vendemmia dei frutti della vite.
A tal proposito Esiodo (VIII–VII secolo a.C.) in Opere e giorni scrive: «Quando Orione e Sirio son giunti a mezzo del cielo, e Arturo può esser visto da Aurora dalle dita di rosa, o Perse, allora tutti i grappoli cogli e portali in casa».
Sempre secondo il mito raccontato da Ecateo di Mileto, Oresteo sarebbe figlio di Deucalione, a sua volta figlio di Prometeo e unico sopravvissuto, insieme alla moglie Pirra, al grande diluvio voluto da Zeus, grazie alla costruzione di un’arca. Secondo Ovidio, nelle Metamorfosi, i due diedero vita a una nuova generazione di esseri umani lanciando le ossa della madre terra che, subito, si trasformarono in donne e uomini pronti a ripopolare il pianeta. L’aspetto intrigante di quest’ultimo mito sta nel racconto, condiviso tra Medio Oriente (racconto di Noè) e Mediterraneo, della nascita della viticoltura in un periodo antico, post apocalittico e concomitante con la genesi di “uomo nuovo”, in armonia con Dio o gli dei sia esso figlio dei figli di Noè o di Deucalione.
Per comprendere come il mito dell’introduzione della vite si connetta con quello dionisiaco del vino, ivi comprese le ripercussioni sociali ed esoteriche di questo legate all’ebrezza e all’entusiasmo, dobbiamo introdurre dalla Tessaglia la leggenda di Oineo, un racconto più concreto sull’origine della viticoltura, rispetto a quello di Oresteo. Anche qui, tutto inizia con un animale, nella fattispecie un caprone, che, sovente, si allontanava dal gregge per perdersi nella boscaglia. Una volta tornato nel gregge, il caprone spiccava per un comportamento bislacco e un andamento dinoccolato. Seguito un giorno da Stafilo, uno dei pastori di Oineo il cui nome significa “grappolo d’uva”, l’animale venne scoperto masticare degli acini d’uva sulle sponde del fiume Acheloo.
Stafilo raccolse queste bacche, verosimilmente già parzialmente fermentate, per consegnarle a Oineo. Costui le schiacciò e ne mescolò il succo con l’acqua producendo il “primo” vino della storia. Il “salto evolutivo”, nel mito greco, tra vite e vino sta nell’inserimento del concetto di techne (perizia, saper fare) accanto a quello di doron (dono divino). «Un albero di vite, carico di fogliame e di grappoli – scrive l’archeologa Cornelia Isler Kerényi, nel libro Dionysos nella Grecia arcaica.
Il contributo delle immagini (Ist. Editoriali e Poligrafici, Pisa-Roma, 2001) – è innanzitutto un dono, anzi un dono miracoloso, della natura; mentre la fabbricazione di un vino richiede tempo, sapere e sforzi fisici – cioè techne – ed è dunque simbolo di cultura».
Questo è il “regno” di Dioniso, il cui dono non si esaurisce nella bevanda in sé ma si amplia con i costumi, ossia quelle regole e non regole del bere che coinvolgono dello stesso dio il temperamento. Una natura, quest’ultima, che, sebbene possa apparire irrazionale e caotica nell’esaltazione dell’ebrezza, impone, per la prima volta nel Mediterraneo, un cerimoniale e un codice: era nato del vino, il rito.
Il rito
«I riti sono regole di condotta che prescrivono come l’uomo debba comportarsi con gli oggetti sacri». Le parole di Émile Durkheim nel libro Le forme elementari della vita religiosa (Booklet, Milano, 2005) spiegano, indirettamente, la traslazione, dal reale al rituale della trasformazione dell’uva in vino operata con l’introduzione del mito di Dioniso.
Il primo rito del vino consiste nella sua mera produzione: atto ab origine, in una interpretazione storico-materialistica dello stesso mito. Tuttavia la ritualità del vino nella cultura mediorientale e occidentale va oltre la sua stessa ontologica natura, abbracciando ogni singolo aspetto della sua funzione cerimoniale. Il rito del vino (produzione, consumo, effetti), come qualsiasi altro rito, è un’attività straordinaria (extra ordinaria), caratterizzata dalla codifica di gesti reiterati (ripetizione) nel tempo in modo da produrre delle conseguenze, materiali e immateriali, su coloro i quali prendono parte al cerimoniale, da cui ne escono sempre e comunque rinnovati.
Posteriore all’introduzione della vitis vinifera sativa nella Grecia continentale e alla produzione di vino, il culto di Dioniso inizia a diffondersi su larga scala solo dopo l’VIII secolo a.C.
Nei poemi omerici, a fronte di molti riferimenti sul vino, troviamo ben poche testimonianze del dio. Nell’Iliade ci sono tracce nel VI canto, quando Licurgo, dopo aver cacciato Dioniso, viene accecato dagli dei, e nel XIV in merito alla genìa stessa del dio quale figlio di Zeus e Semele. Nell’Odissea le citazioni divengono ancora più scarse: nel passo dell’XI canto, nella circostanza della morte di Arianna, figlia di Minosse, e nel XXIV in riferimento al dono, da parte di Dioniso ed Efesto, di un’urna d’oro in cui porre le ossa di Achille.
Così il primo documento storico-letterario che attesta la presenza, già da qualche decennio (la prima comparsa del dio nell’arte greca è databile intorno al 580 a.C.), dei culti dionisiaci è rappresentato dalla tragedia Le Baccanti, scritta da Euripide tra il 407 ed il 406 a.C. durante il soggiorno di questi alla corte del re di Macedonia Archelao. In breve, la tragedia narra la storia di Penteo, re di Tebe, che, dopo aver rifiutato il culto di Dioniso, fu fatto a pezzi dalle baccanti (componente femminile del corteo del dio appena tornato dalle vittorie militari in India), con la complicità della stessa madre del re, Agave, che si era unita alle schiere del dio.
Tanti i concetti all’interno del testo, che delineano i fondamenti della cultura enoica occidentale. Dapprima la metamorfosi dell’intesa con il dio attraverso il vino, filtro magico e medium per la comunione/unione con la divinità. Poi la mania, ovvero la follia dionisia, l’entusiasmo: non solo ispirazione divina ma, dalla radice del termine greco, essere en theos, letteralmente “nel dio”, quindi invasi dalla sua forza e dal suo furore, gioioso e terrificante al tempo stesso, da cui la dualità e l’ambiguità della figura del dio del vino.
«La religione di Dioniso – scrive Albin Lesky in Storia delle Letteratura Greca Volume secondo (Il Saggiatore, Milano, 1991) in merito a Le Baccanti – non fu mai rappresentata così suggestivamente nella sua enigmatica polarità. Ci sono quadri di profonda pace, che il dio offre all’uomo. Quando le donne del tiaso dionisiaco si abbandonano a un pacifico sopore nel bosco, offrono il seno ai cuccioli degli animali selvatici e col tirso fanno scaturire dal terreno una bevanda ristoratrice, è superata ogni ostile contrapposizione fra l’uomo e la natura e si tocca la beatitudine di quel congiungimento di cui il Nietzsche parla in linguaggio ditirambico. Ma le stesse donne rispondono con furia bacchica a chi disturba il loro incanto, devastano con violenza primordiale gli abitati della valle, fanno a brani gli armenti e compiono prodigi di forza selvaggia. In questa polarità di pace e di esaltazione, di grazia sorridente e di distruzione demoniaca, Euripide vede il culto dionisiaco
come specchio della natura, e anzi come specchio di tutta la vita».
La tragedia di Euripide, in realtà, parla poco di vino e molto, invece, degli effetti di questo sugli uomini. Soprattutto, mostra la potenza di Dioniso al di là del suo stesso dono, anch’esso ambivalente nella sua essenza di pharmakon (medicina e veleno). Come scrive il filologo classico irlandese Eric Robertson Dodds in Euripides’ Bacchae (Clarendon Press, Oxford, 1960) la potenza di Dioniso non si manifesta solo «sul fuoco liquido dell’uva, ma anche sulla linfa che stilla dai giovani alberi, il sangue che pulsa nelle vene dei giovani animali, tutti i cicli misteriosi e incontrollabili che fluiscono e rifluiscono nella vita della natura».
Tutta la tragedia, passo dopo passo, è la descrizione di un rituale di libertà e irrazionalità: cerimoniale ambiguo che mostra gli effetti di un dono incontrollabile se non istituzionalizzato da ulteriori e più “terrene” regole. Al di là della forza delle tragiche immagini, quello che, nell’opera Le Baccanti, Euripide ci racconta è un Dioniso già “intrappolato” nella rete delle istituzioni di Atene, con i rituali dei sacrifici umani delle celebrazioni dionisiache della Creta micenea, della Beozia, di Chio e di Lesbo ormai ricordo di un passato alquanto remoto.
La potente e poliedrica natura (benevola, ostile, spensierata, vendicativa, irridente e dissimulatrice) di Dioniso espressa da Euripide lo trasformerà, a ogni modo, da “dio portatore” del dono del vino a “dio dei misteri” e, infine, con l’ingresso del suo culto nel misticismo orfico (movimento religioso greco del VI secolo a.C.), in “dio dell’aldilà”.
L’orfismo è il più importante movimento mistico-religioso che la Grecia classica abbia mai conosciuto, contemporaneo (VI scolo a.C.) degli insegnamenti di Lao-Tse, Buddha Siddhartha Gautama, Confucio, Zarathustra e del profeta Ezechiele.
Alla base dell’Orfismo c’erano idee come l’immortalità dell’anima, la necessità di credere negli dei, una colpa originaria che ha causato la corruzione dell’anima immortale e la necessità della metempsicosi per redimersi da tale “vizio”, provocato, a loro dire, dai Titani che hanno divorato Dioniso nella sua prima incarnazione.
Il mito orfico si riferiva al Dioniso Zagreo (cacciatore di selvaggina), figlio di Zeus e Persefone, ed erede del dio dei fulmini per il dominio del mondo. I Titani, istigati da Era e, da sempre, nemici di Zeus, catturarono Dioniso fanciullo, lo uccisero smembrandolo e dopo averlo bollito prima e arrostito poi, lo divorarono. Delle carni rimase solo il cuore, che Era, pentita, consegnò a Zeus. Costui, dopo aver fulminato i Titani, ingoia il cuore del Dioniso fanciullo e lo fa rinascere a Tebe, generando, insieme a Semele, il Dioniso Tebano. Da qui in poi la mitologia orfica combacia con quella raccontata da Euripide, e l’ultima parte della gestazione del “nuovo” dio che si svolge nella coscia di Zeus, essendo Semele stata uccisa, erroneamente, dallo stesso padre degli dei.
Nel mito orfico Zeus, dalle ceneri dei Titani, dà vita a una nuova generazione di uomini che porteranno in sé sia il “peccato originale” dei Giganti sia il soffio divino di Dioniso da loro precedentemente divorato.
Nel sacrificio e nella rinascita del Dioniso Zagreo c’è la descrizione del rito della vinificazione: vendemmia (smembrare il dio), fermentazione (bollire le parti del dio), maturazione del vino (arrostirne le carni) e consumo (mangiare il dio). Il vino stesso, quindi, si fa dio e il sacrificio di questo, nella sua rinascita, è un dono duplice: pericoloso nell’ebrezza sfrenata e corroborante nella regolata moderazione.
Se nel mondo ellenico, così come in quello ebraico, il vino dono divino assume una prima embrionale ritualità, sebbene articolata nelle forme, è con il Cristianesimo che la cerimonia del vino, nella sua concretezza così come nel suo simbolismo, assume un valore talmente alto da mettere in secondo piano l’idea stessa di dono.
A prima vista sembrerebbe che il Cristianesimo, anche nel vino, mutui concetti, valori e simboli sia dall’ebraismo che dalla cultura classica. «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo», si affretta a dire Giovanni nel suo Vangelo e prosegue: «io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla.
Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano».
Tim Unwin in Storia del vino (op. cit.), citando questo passo del Vangelo di Giovanni sottolinea che «la rappresentazione simbolica di Cristo sotto forma di vite ha molti punti in comune con quella di Dioniso e può darsi che sia questo il motivo per cui l’autore del Vangelo sottolinea che Cristo è la vera vite». È evidente che, nella “battaglia del proselitismo”, il Cristianesimo primitivo usi tutti i mezzi, anche retorici, per comunicare la sua “rivoluzione”, presentandosi come novità assoluta nel panorama religioso del IV secolo d.C.
Il vino del Cristianesimo, citato poche volte nel Nuovo Testamento, è essenzialmente simbolico e rituale (medium), giacché quando, viceversa, ritorna materiale, il più delle volte ha dei significati negativi legati all’ebrezza.
L’identificazione tra croce, albero della vita e pianta vite è uno dei simboli più fecondi nell’iconografia cristiana, così come il giudizio
universale-vendemmia, con cernita, direbbero oggi gli agronomi, tra grappoli sani (uomini di fede) e uve corrotte. La rottura con la tradizione ebraica è altrettanto evidente. Nel Vangelo di Luca (5,37-39) si legge che «nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi. Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è buono!”». Il vino vecchio è la religione del Dio degli ebrei e quello nuovo il messaggio cristiano, talmente forte, secondo l’evangelista, da spaccare le vecchie otri.
Il vino diventa, quindi, anche simbolo e rituale di conversione, un cambiamento comunque non facile perché, come si legge nell’ultima parte del testo citato, abbandonare le sicurezze del “vecchio culto” (il vino vecchio) crea incertezza.
Rispetto alla tradizione ebraica il vino del Cristianesimo perde sicuramente concretezza e, forse, anche un po’ di quella giovialità quotidiana che è rito in sé per i figli di Israele; sebbene, allo stesso tempo, i sacerdoti cristiani avessero delle regole meno severe sul consumo di vino rispetto a quelle degli omologhi ebraici (Levitico 10, 8-9; Timoteo 3, 2-3 ecc.). Cristo, inoltre, non si astiene dal vino, anzi, il suo primo miracolo, durante le nozze di Cana è la trasformazione di acqua in vino. Lo strappo dalla tradizione dionisiaca, invece, è apparentemente più forte, benché nella vita liturgica appare meno definitivo.
Il rito eucaristico, nella forma, mostra diversi elementi di contatto con i riti orfici e mitraici. Nei primi il divino dionisiaco veniva liberato non solo da comportamenti orgiastici ma anche con il consumo di carne di toro e, contestualmente, di vino. Nei culti mitraici (I secolo a.C. - V secolo d.C.) pane e vino erano elementi essenziali del banchetto rituale, come nell’ultima cena di Mitra insieme ai suoi fedeli, prima dell’ascesa al cielo sul carro del sole. ù
Così, nella simbologia e nella ritualità del vino, la novità assoluta del Cristianesimo sta nell’identificazione di questo con il sangue di Cristo, allegoria di vita e di salvezza. L’eucaristia dell’ultima cena diventa il fulcro della liturgia cristiana e il vino, come il pane, ne è strumento e fondamento. Molteplici le implicazioni di questa scelta.
Innanzitutto, come fa notare Paolo Nencini nel libro Ubriachezza e sobrietà nel mondo antico (Gruppo Editoriale Muzzio, Monte San Pietro, 2009), «l’inclusione di una sostanza psicotropa in una liturgia implica in genere la sottrazione della sostanza stessa dall’uso voluttuario: la sperimentazione degli effetti psicofarmacologici deve essere infatti riservata agli iniziati […]
Il vino cristiano si differenzia radicalmente da questo stereotipo sciamanico, poiché il suo uso liturgico non mira a indurre uno stato di alterazione psicologica, una possessione divina (la mania del rito dionisiaco che porta all’entusiasmo, N.d.R.) ma vuole essere esclusivamente simbolico nel mimare la comunione con la divinità».
In secondo luogo, il vino eucaristico è un vino di sobrietà e, per questo, viene bevuto con misura e diluito con acqua. Un vino che, seguendo anche l’ambivalente tradizione greca nella contrapposizione tra spirito apollineo e dionisiaco, è antitesi di quello puro, strumento, al contrario, dell’ira divina nell’Apocalisse di Giovanni, in cui si legge (14, 9-10): «se uno adora la bestia e la sua immagine e ne prende il marchio sulla sua fronte o sulla sua mano, berrà anch’egli il vino dell’ira di Dio, versato puro nel calice della sua ira e sarà tormentato con fuoco e zolfo».
Va da sé che anche l’uso quotidiano di vino soggiace i canoni (rituali) della sobrietà, aspetto invero condiviso con i dettami della tradizione ebraica. L’ubriachezza, quindi, è sempre condannata perché, come scritto nella Prima Lettera di Pietro, è una delle passioni del paganesimo.
In terzo luogo, ed è forse la quintessenza del “paradosso cristiano” rispetto alla simbologia precedente, l’identificazione del vino non tanto con le membra e il corpo della divinità (Dioniso) ma con il sangue, esclusivamente sangue sacrificale.
Il sangue, nella cultura prescientifica e nell’immaginario umano, dalla preistoria a oggi, è la “cosa” più preziosa che può essere versata, ossia irrimediabilmente perduta: il sacrificio più grande. Nel Vangelo di Matteo (26, 27-28), ma non solo, si legge che Gesù «prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati”».
«Un dogma è dato ai cristiani – spiegherà poi Tommaso d’Aquino nella preghiera Lauda Sion Salvatorem – il pane si trasforma in carne e il vino in sangue». Era avvenuto il “miracolo” della transustanziazione, una conversione di sostanze dal materiale allo spirituale. Il mito si era decifrato in rito superando la teofagia dionisiaca attraverso la comunione (condivisione) e la trasformazione del liquido più prezioso del pianeta. Gesù è un agnello che, prima del sacrificio, assimila il mondo diventando pane e vino, riversandosi poi in esso, attraverso la fede, pezzo dopo pezzo e goccia dopo goccia.
L’associazione metaforica tra sangue, vino e vite è l’elemento del culmine della passione di Cristo, così come spiegato da San Bonaventura da Bagnoregio in La Vite Mistica (a cura di Mario Spinelli, Pia Unione Preziosissimo Sangue, Roma, 1994) dove, partendo dalla frase «Io sono la vera vite», associa le foglie di vite con le parole di Gesù sulla croce e, come spiega Andrea Di Maio della pontificia Università Gregoriana «da questa Vite avviene una vendemmia con sette effusioni di sangue, a partire dalla circoncisione poco dopo la nascita, attraverso le cinque effusioni nella Passione (l’essudazione al Getsemani, gli strappi alla barba, la coronazione di spine, la flagellazione, l’inchiodamento alla croce), per finire con la trafittura del costato appena dopo la morte».
Alla luce di questi elementi, ancor più dell’atto di bere vino nell’ultima cena, è la presenza del vino sulla tavola il rito supremo (sacramento), giuramento solenne e rinnovamento di quel patto della Genesi tra Noè e Dio: alleanza sottoscritta, ancora una volta, col sangue (vino), per essere un “patto di sangue”.
In questa condivisione di intenti (comunione) tra Dio e uomo per il raggiungimento della salvezza, che supera sia il puro dono divino sia la mera fusione mistica, si inserisce nel rito cristiano l’importanza del contenitore, quella coppa che scongiura l’inutile versarsi del sangue-vino. Il calice offertorio è, quindi, grembo che accoglie il sangue (vino) del Re dei Re, un sangue reale che apre, anche solo per etimologia e lessico alle suggestioni sui vari significati del Santo Graal: non solo coppa, non solamente simbolo, ma forse il vino stesso. Questa, però, è un’altra storia.
Il vino nella liturgia ebraica
di Giada Piper
Nella liturgia ebraica il vino è molto importante, sebbene da bere sempre con moderazione. Lo Shabbat, il giorno più sacro per la vita di ciascun ebreo, è il tempo in cui il vino assume uno degli aspetti più importanti. Le donne cucinano molte vivande, a partire dalla challot, il pane a forma di treccia che viene preparato per la consacrazione della sera del venerdì, dove iniziano i festeggiamenti con la benedizione delle candele. Di quel momento in poi ci si riposa, anzi, si mangia ma soprattutto si beve per santificare lo Shabbat. In questo giorno si recita il Kiddush, che benedice la ricorrenza in cui D. smise di creare il mondo. Nella stessa benedizione viene ricordato l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto. Durante la cena, ogni commensale maschio riempie fino all’orlo un calice di vino rosso Kasher (permesso) e il Capo famiglia comincia a santificare questo giorno. Quindi ci si lava le mani e si recita un’altra benedizione per l’amotzì, la glorificazione del pane challot, che viene suddiviso tra i presenti. Solo ora può cominciare il pasto, sempre molto ricco di cibi locali delle differenti comunità. Il vino dello Shabbat deve essere rigorosamente rosso: è un mitzvah (regola). Tante le spiegazioni al riguardo, una delle più diffuse si riferisce a Mosè che, inviando due dei dodici capi delle tribù a esplorare la terra Canaan, e chiedendo loro di portargli notizie sulla fertilità di quella terra, si vide recare melograni, fichi e un grappolo d’uva rossa.
Oltre allo Shabbat, il vino è protagonista in molte altre ricorrenze come, ad esempio, il Brit Milà, la circoncisione rituale dei neonati maschi. Durante l’attesa, infatti, la sera precedente al rito, mentre tutti i familiari vegliano il piccolo di 8 giorni, si consumano vino e dolci.
Al compimento dei 13 anni, poi, lo stesso ragazzo, arrivando all’età della maturità religiosa (12 anni e un giorno per le bambine) festeggia il suo Bar mitzvà. Per la prima volta canterà la Torà in sinagoga e diventa responsabile nei confronti della halakhah (insieme delle norme ebraiche). Anche qui, d’obbligo è il consumo di vino, meglio se rosso.
Si arriva, infine, al giorno del matrimonio, un altro mitzvah per l’unione tra il Chatan, lo sposo, e la Challà, la sposa. Il rito viene celebrato, in presenza dei Rabbini, dapprima in una stanza separata dall’altare dove viene firmata la ketubà (contratto di matrimonio) e poi davanti all’altare (Tevà). Qui, dopo essersi aperto l’Aaron a Kodesh (armadio santo in cui sono custoditi i rotoli della Torà) gli sposi, sotto la kuppà (baldacchino) ascoltano le regole e cantano la Santificazione. Successivamente, avvolti dal tellet (telo a quattro lembi con tre nodi ciascuno) gli sposi ricevono il birchat a cohanim (beatificazione del sacerdote) durante il quale viene sistemato un calice di vetro sotto il tallone dello Sposo che, con il tacco, lo deve ridurre in frantumi: più pezzi ci saranno, più prolifica sarà l’unione.
Ma è a Pesach (Pasqua ebraica) che il vino è il protagonista assoluto. La narrazione di questa festa è scritta sull’Haggadà, il Racconto della schiavitù in Egitto. Durante il Seder (ordine) di Pesach, ovvero la cena della prima sera di Pasqua, al centro del tavolo si posiziona un grande piatto che contiene tre pani azzimi (matzàh), le uova sode (betzàh), un coscio di agnello (zeròah), erbe amare e il Charòset, un impasto di noci, mele, miele e vino. Durante il pasto vengono bevuti 4 bicchieri di vino che rappresentano le altrettante promesse di redenzione così come scritto in Esodo, 6, 6-5: «Vi sottrarrò ai gravami degli egizi, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi. Io vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio».