«Il vino è il canto della terra verso il cielo».
La definizione, poetica, persino spirituale, è di Luigi Veronelli e chiarisce bene, secondo me, che il vino non è semplicemente “qualcosa da bere”. E non è neanche soltanto un prodotto agricolo. C’è molto di più. C’è un valore immateriale molto importante, e la simbologia religiosa, la letteratura, l’arte che gli sono state dedicate ne danno ampia testimonianza. Ma c’è anche il prestigio di una cantina, di un produttore, ci sono le richieste del mercato che determinano talvolta dei prezzi molto più alti di quanto potremmo immaginare, visto che in quei casi la legge della domanda e dell’offerta domina su tutto. Poi, ve lo confesso, ogni tanto l’attitudine da ex professore di filosofia prende un po’ il sopravvento e mi fa fare considerazioni che vanno al di là della semplice letteratura “enoica”. Stavolta la cosa è stata scatenata dal fatto che qualche tempo fa una rivista online, inglese, mi pare, ha ricostruito il costo di produzione di Château Petrus, stabilendo che si arriva, sì e no, a 37 euro. Visto che in giro l’ultima annata costa anche più di 3.500 euro la bottiglia, apriti cielo. Ricordo che più o meno la stessa cosa la feci fare molti anni fa sul Gambero Rosso attraverso un’intervista a Renzo Cotarella, appena nominato Direttore Generale della Antinori, e venne fuori che per produrre una bottiglia di Tignanello il costo era di 5 euro. Sono passati dieci anni, ora sarà di 7, forse 8, mentre si vende tra i 80 e i 100 euro. Uno scandalo? Un’insopportabile speculazione? Un fatto immorale? Molto dipende da come consideriamo il mercato, e non solo quello del vino. Se vi dicessi che Pablo Picasso avrà speso, ai costi attuali, non più di 300 euro di materiali, tela, colori, cornice, per dipingere le Demoiselles d’Avignon o Guernica, opere che oggi valgono decine, forse centinaia di milioni di euro, cosa rispondereste? E che dire di una borsa di Chanel o di Hermes, magari di plastica, che viene venduta a migliaia di euro e ne costerà a produrla una ventina? Sono orribili speculazioni anche quelle? Ci possono essere anche delle ragioni per ritenerlo e ci sono casi nei quali la speculazione fa i suoi giochi. Nel mondo del vino alcuni piccoli produttori di Borgogna, come Coche-Dury, Rousseau, Rouget, producono vini che escono dalla cantina, per esempio, a trecento euro e che poi troviamo in vendita a dieci volte di più quando va bene. Ma in ogni caso, anche se ci fossero, come ci sono, piccoli e limitati casi speculativi, non è certo andando a calcolare i costi di produzione per poi confrontarli con quelli di vendita che si scoprono altarini e malefatte. Esiste, come dicevo, un valore simbolico, immateriale, dovuto al prestigio di un nome, alla fama, alla tradizione intesa come storicità del marchio, che concorrono quanto e più dei costi “industriali”. E che hanno grande impatto sul mercato. I valori esistono, insomma, se ci sono dei “valutanti” a determinarli. In modo concreto, e non teorico o moraleggiante. I “valutanti” siamo tutti noi, tutti coloro che con le loro scelte fanno sì che qualcosa sia più “apprezzata” di un’altra, fosse un dipinto di Picasso o un vino particolarmente ricercato, prodotto in tirature limitate, tali che la domanda mondiale sia molto superiore all’offerta. Una volta mi lamentai con un signore che era il responsabile degli interessi della famiglia Rothschild in Italia. «Il prezzo di Château Lafite “en primeur” è schizzato alle stelle, non si può più comprare» gli dissi. E lui mi rispose: «produciamo 300 mila bottiglie all’anno e abbiamo richieste per cinque milioni. Lei che farebbe?». Non lo so che farei. Però posso capire.