La storica denominazione calabrese si è rilanciata attraverso una vera e propria rivoluzione culturale promossa dai piccoli produttori della Cirò Revolution e sostenuta dal Consorzio di Tutela guidato da Raffaele Librandi
Guardare il mare cristallino di Punta Alice dalla piccola altura su cui sono adagiati i Mercati Saraceni è una di quelle esperienze che riconciliano col mondo. La spiaggia appuntita si tuffa nello Jonio quasi ad indicare la direzione da cui arrivarono in più riprese i coloni greci. E tra le tante testimonianze del forte legame esistente tra questa terra e la cultura ellenica possiamo annoverare il tempio di Apollo Aleo, scoperto poco meno di 100 anni fa a Punta Alice dall’archeologo Paolo Orsi. È qui che sono stati rinvenuti i resti di una statua in marmo raffigurante Apollo la cui testa è riprodotta nel logo del Consorzio Tutela Vini di Cirò e Melissa.
Il territorio
Siamo in provincia di Crotone, nella zona della DOC Cirò, uno dei vini più antichi d’Italia tanto che molti studiosi lo identificano con il Krimisa, mitico nettare dato in premio ai vincitori delle Olimpiadi nell’antica Grecia. Su un totale di 2500 ettari vitati sono 500 quelli rivendicati a DOC, di cui il 60% certificato biologico. Si distribuiscono per 25 km lungo la costa jonica e per 10 km verso l’interno, tra le colline che si arrampicano verso la Sila.
Il territorio della DOC abbraccia per intero i comuni di Cirò e Cirò Marina (zona Classica) e in parte quelli di Melissa e Crucoli.
Dal punto di vista geologico offre una conformazione molto varia dei terreni: si va dalle zone prevalentemente sabbiose presenti in prossimità del mare ad aree alluvionali ricche di scheletro lungo il corso delle fiumare Nicà e Lipuda. Man mano che si sale verso i 300 metri delle colline i terreni si fanno più argillosi con importante presenza di calcare e ferro. Questo permette, insieme alle differenti esposizioni e altezze delle vigne, di ottenere vini molto diversi tra loro utilizzando principalmente i vitigni autoctoni Gaglioppo per le tipologie Cirò Rosso e Rosato (insieme formano il 70% della produzione) e Greco bianco per il Cirò Bianco.
Il mercato
Nel 2019 la storica denominazione calabrese ha festeggiato i 50 anni dalla sua istituzione con una grande kermesse organizzata proprio ai Mercati Saraceni di Punta Alice. «È stato in occasione del Cirò Wine Festival, l’ultimo evento programmato prima dell’arrivo della pandemia – racconta Raffaele Librandi, presidente del Consorzio Tutela Vini di Cirò e Melissa e titolare dell’omonima cantina – hanno partecipato più di mille persone tra cui molti buyer e giornalisti come non se ne erano mai visti da queste parti».
Ma cosa ha spinto stampa e selezionatori, anche internazionali, a scomodarsi per visitare questo territorio ricco di storia ma poco conosciuto? La risposta la troviamo in un articolo pubblicato nel 2017 dalla prestigiosa rivista americana Wine Spectator nel quale si definiva il Cirò the next big thing della viticoltura italiana. E a certificare la grande crescita della denominazione sono anche i numeri che hanno segnato un incremento costante della produzione passata in pochi anni da 3 a più di 4 milioni di bottiglie, con un giro d’affari che supera i 15 milioni di euro.
A differenza del passato, però, alla crescita quantitativa è corrisposto un aumento della qualità e del prezzo medio a bottiglia, segno evidente di un recupero di credibilità del marchio. Per troppo tempo, infatti, il vino cirotano è stato relegato sugli scaffali della GDO, quasi che questo fosse il suo unico sbocco commerciale. Praticamente impossibile, fino a poco tempo fa, trovarlo nelle enoteche o nella carta dei vini dei ristoranti al di fuori della Calabria.
«Quando sono tornato a Cirò il vino era in crisi e nella maggior parte dei casi era un prodotto market oriented», conferma Francesco De Franco, architetto che per 25 anni ha vissuto tra Firenze e San Marino e che nel 2008 ha deciso di tornare nella sua terra natia per fondare la cantina 'A Vita. «In quegli anni una parte delle uve restava addirittura invenduta. Io ho intuito che l’unico modo per rilanciare il Cirò fosse quello di produrre vini tipici di fascia medio-alta. Così ho recuperato le vigne di famiglia puntando sul Gaglioppo in purezza e ho cercato di occupare una nicchia di mercato quasi completamente libera».
Il cambio di disciplinare
E qui entra in gioco il portabandiera tra gli oltre 200 vitigni autoctoni calabresi: il Gaglioppo, croce e delizia dei produttori cirotani. Croce per le aziende che per troppo tempo hanno considerato il suo tannino vivo e il colore poco concentrato alla stregua di difetti da correggere attraverso il taglio e l’uso eccessivo del legno. Delizia per le cantine che hanno deciso di valorizzare il suo carattere unico che si esprime dopo lunghi affinamenti. Queste due anime sono arrivate allo scontro nel 2010 quando è stato modificato il disciplinare della DOC introducendo la possibilità di tagliare Gaglioppo e Greco bianco con un 20% di altre uve, tra cui un 10% di vitigni internazionali.
«Per me e per tanti altri produttori questo voleva dire rinunciare alla nostra identità – ricorda Francesco De Franco – non ne facevamo un problema di maggiore o minore qualità, ma una questione culturale e identitaria.
Abbiamo cercato di trovare un compromesso ma non c’è stato nulla da fare». E se questo fosse un film, saremmo arrivati alla scena in cui il protagonista sembra irrimediabilmente sconfitto e solo un evento straordinario potrebbe cambiarne le sorti.
La Cirò Revolution
«Fu una cocente delusione – confessa Francesco – oggi, a distanza di più di 10 anni, posso dire che quella battaglia persa è stata fondamentale per noi piccoli produttori. Ci siamo ritrovati uniti e consapevoli della nostra identità: è stata la scintilla da cui è nata la Cirò Revolution». Parliamo di un gruppo aperto e informale di vignaioli e vignaiole che al momento conta otto cantine ('A Vita, Sergio Arcuri, Cataldo Calabretta, Tenuta del Conte, Dell’Aquila, Fezzigna, Vigneti Vumbaca, Cote di Franze) unite da una visione comune della viticoltura, considerata come fenomeno sociale e culturale oltre che economico. Da qui la scelta del biologico e di tecniche poco invasive sia in vigna che in cantina con l’obiettivo di proporre vini identitari. «La rivoluzione, però, non riguarda lo stile dei nostri vini o le modalità di produzione – chiarisce De Franco – la vera rivoluzione è avvenuta nella nostra testa nel momento in cui abbiamo deciso di credere nel nostro territorio. Per questo non facciamo vino per il mercato ma cerchiamo un mercato per il nostro vino». Una scelta coraggiosa apprezzata anche dalla critica enologica che a partire dal 2012 ha iniziato a premiare la nouvelle vague cirotana sulla scia del successo dei vini artigianali.
Il rilancio del Consorzio
Ma la ribellione di un manipolo di produttori, da sola, non poteva cambiare le sorti della denominazione: serviva l’appoggio delle grandi cantine. «A quel tempo l’azienda della mia famiglia era fuori dal Consorzio proprio perché non ne condividevamo l’approccio – ricorda Raffaele Librandi – poi, molti produttori, tra cui il gruppo della Cirò Revolution, ci chiesero di rientrare. Contestualmente altre grandi cantine hanno visto un ricambio generazionale ai loro vertici così si sono create le condizioni per il nostro rientro e per il rilancio della denominazione».
Questo evento cambia gli equilibri in campo, tanto che nel 2014 Raffaele Librandi viene eletto presidente del Consorzio Tutela Vini Cirò e Melissa inaugurando un nuovo corso basato sulla collaborazione tra le varie anime presenti: piccole cantine, grandi aziende e conferitori.
Tutte sono rappresentate ai vertici del Consorzio, come dimostra la vicepresidenza attualmente affidata a Cataldo Calabretta, precursore della Cirò Revolution.
«Oggi, nonostante il disciplinare permetta il taglio, la maggior parte delle aziende ha compreso che il successo commerciale passa per la valorizzazione dei nostri vitigni autoctoni – conferma Librandi – poi ci potranno essere tecniche agronomiche e produttive differenti, ma questo è un bene perché finalmente riusciamo a occupare tutti i segmenti di mercato».
Il Cirò tra presente e futuro
L’offerta, in effetti, è molto variegata con aziende strutturate affiancate da tanti piccoli produttori artigianali. Cantine nate grazie all’entusiasmo di giovani viticoltori che spesso hanno studiato e avuto esperienze fuori dalla Calabria: un vero e proprio “ritorno dei cervelli” enologico. «Quello che è successo a Cirò dimostra che le regole del mercato globale mal si adattano alla realtà del nostro Paese» fa Francesco De Franco e prosegue: «il vino italiano, in particolare, è caratterizzato da piccole produzioni che nascono da vitigni autoctoni: non possono competere sui mercati se non investendo sulla propria unicità.
Una vigna di Gaglioppo ad alberello, per esempio, ha senso solo se si produce un grande vino altrimenti diventa antieconomica. Tutelando l’ambiente e la nostra identità abbiamo creato un incremento di valore che avvantaggia anche chi non ha il nostro stesso approccio. Ecco perché oggi riusciamo a vendere una bottiglia di Cirò a prezzi inimmaginabili solo pochi anni fa».
Un vino identitario che si vende bene anche all’estero. «Il 45% della produzione viene esportato – conferma Raffaele Librandi – i principali mercati sono Germania, USA, Svizzera, Inghilterra, Olanda, Belgio, Canada e Giappone. La tipologia che è cresciuta maggiormente è il Cirò Rosato, per questo abbiamo aderito all’Istituto Rosautoctono che riunisce sei importanti Consorzi con l’obiettivo di promuovere il vino rosato italiano. In futuro puntiamo a creare un distretto che valorizzi la sostenibilità sociale e ambientale della viticoltura. La tutela del paesaggio è una delle nostre priorità: lo abbiamo dimostrato anche in occasione della netta opposizione espressa verso l’ipotesi di installare un parco eolico nella zona Classica del Cirò.
Per il momento siamo riusciti a bloccare il progetto ma bisogna mantenere viva l’attenzione. Infine ci auguriamo di ottenere in tempi brevi la DOCG per la versione Riserva del Cirò Rosso Classico Superiore».
Un riconoscimento che andrebbe a premiare la storia millenaria di quella che un tempo era chiamata Enotria e a suggellare un percorso virtuoso che in poco più di 10 anni ha rivitalizzato la viticoltura cirotana. Percorso che assume ancora più valore in un territorio complicato come quello calabrese dove con grande difficoltà si cerca di valorizzare le incredibili risorse ambientali, artistiche e culturali.