Indomito come la terra che abita, Sabino Loffredo è un vignaiolo autodidatta che produce vini unici valorizzando il connubio tra territorio e vitigni autoctoni dell’Irpinia



L’Irpinia è terra aspra e spigolosa, stretta com’è tra i Monti Picentini e il Massiccio del Partenio. È su questo territorio montagnoso che si stabilirono gli Hirpini, tribù sannitica tra le più bellicose. Il loro nome deriva dal termine hirpus, lupo nella lingua osca parlata dai Sanniti. Il lupo era infatti il loro totem e secondo una leggenda fu proprio questo animale a guidare la tribù verso l’appennino campano. Oggi i lupi grigi irpini sono a rischio di estinzione, ma il loro carattere schivo lo si ritrova in tanti abitanti del luogo. Come in Sabino Loffredo, vignaiolo in Montefredane, provincia di Avellino. È qui che, nel 1992, suo padre Giuseppe fonda la cantina Pietracupa ed è qui che oggi Sabino continua a produrre vino per uno scherzo del destino. Per tanti anni, infatti, si disinteressa del piccolo vigneto di famiglia preferendo lavorare sulle navi da crociera. Poi nel 1998 un brutto incidente in motocicletta lo costringe per qualche mese a tornare a casa, dopo anni passati navigando in giro per il mondo. «Non sapendo cosa fare, accompagnavo mio padre in vigna – racconta accarezzando la sua folta barba – giorno dopo giorno mi sono appassionato ed ho capito che volevo fare il vignaiolo».

È così che da autodidatta impara il mestiere, anche grazie alla consulenza dell’enologo Carmine Valentino che lo affianca fino al 2005, quando Sabino prende in mano le redini dell’azienda. «Ero pieno di dubbi – confessa ripensando a quegli anni – ho sbagliato tante volte, ma ogni volta ho imparato qualcosa». Da allora segue personalmente la produzione e la vendita dei suoi vini, cesellando vendemmia dopo vendemmia il suo stile unico che ha fatto conoscere Pietracupa nel mondo.
Le 50 mila bottiglie prodotte ogni anno, infatti, finiscono già prima di arrivare sul mercato, con la metà della produzione esportata all’estero. «Ho sempre pensato all’Irpinia come a un piccolo Alto Adige – confida indicando le montagne – per questo mi ispiro ai grandi vini del nord e vado alla ricerca di freschezza, eleganza, pulizia e longevità».
In effetti il clima tipicamente continentale irpino fa pensare a latitudini più nordiche, soprattutto per le forti escursioni termiche, così importanti per lo sviluppo degli aromi nei vini.

Gli 8 ettari di vigneti aziendali sono impiantati a Fiano, Greco, Falanghina e Aglianico su terreni argilloso-calcarei e ricchi di scheletro. I vitigni a bacca bianca si trovano a Montefredane, nei 6 ettari distribuiti tra contrada Vadiaperti e contrada Toppole, fra i 300 e i 400 metri di altitudine.
«Col tempo ho capito che amo i vini verticali, ma ho anche compreso che l’annata non si può stravolgere – ci spiega passeggiando tra le vasche d’acciaio – l’unica cosa che posso fare è prendere dei piccoli accorgimenti in vigna e in cantina». Da Pietracupa la vendemmia inizia tendenzialmente prima rispetto agli altri produttori della zona.
«Io raccolgo l’uva quando è ancora un po’ verde, voglio vini che non abbiano un contenuto eccessivo di alcol e che possano sfidare il tempo». La fermentazione, innescata da lieviti selezionati, avviene in vasche di acciaio con temperatura controllata. Il vino resta poi sulle fecce fini per un tempo variabile prima di essere filtrato e imbottigliato con una quantità molto bassa di solfiti aggiunti.
L’
affinamento in bottiglia è infine determinante per far distendere questi vini dal grandissimo potenziale evolutivo, tant’è che Fiano e Greco non escono mai prima dei due anni dalla vendemmia, mentre la Falanghina arriva sul mercato dopo un anno.

Nelle annate eccezionali si producono anche le selezioni G (Greco) e il mitico e introvabile Cupo (Fiano). Nascono dalle uve migliori e sostano per un tempo più prolungato sulle fecce fini e in bottiglia, uscendo con la denominazione IGT Campania. La stessa che, dall’annata 2020, ha sostituito le DOCG Fiano di Avellino e Greco di Tufo. Una decisione sofferta che Sabino Loffredo ha potuto prendere ora che il suo brand si è affermato sul mercato, motivata dall’eccesso di burocrazia imposta dalle denominazioni. 

L’Aglianico è invece impiantato a Torre Le Nocelle in una vigna di 2 ettari acquisita nel 2008 e posta a 350 metri di altitudine.
«Prima di comprarla ho fatto decine di prove vinificando le uve di tutti i
cru di Taurasi.
La scelta è ricaduta su Torre Le Nocelle perché a mio avviso permette di fare vini meno concentrati e con tannini più eleganti, in stile borgognone». Da questa vigna nascono due etichette: l’Aglianico DOC e il
Taurasi DOCG. Entrambi fermentano in acciaio e cemento con una macerazione di almeno 30 giorni sulle bucce. Poi una parte della massa resta in acciaio mentre l’altra matura in botti grandi e in tonneau usati. Dopo l’assemblaggio il vino affina in bottiglia fino all’uscita sul mercato che avviene a 3 anni dalla vendemmia per l’Aglianico e a 5 anni per il Taurasi. 

Oggi, a 51 anni e con una figlia piccola, Sabino Loffredo ha cambiato le sue priorità e, dopo tanto tempo passato tra vigna, cantina ed eventi in giro per il mondo, ha deciso di sospendere le visite in cantina, per partecipare solo al Vinitaly o alle rare degustazioni dedicate ai suoi vini. Anche sul web l’azienda spicca per la sua assenza. Sembra quasi che Sabino Loffredo voglia puntare le luci della ribalta unicamente verso i suoi vini: sono loro a raccontare, come in un monologo, la storia di un terroir unico. Lui, da buon irpino, preferisce osservare da dietro le quinte, convinto che il suo compito sia solamente quello di interpretare ogni singola annata.