Qualche mese fa, osservando la crescita dei listini di grandi e piccole cantine italiane e studiando l’andamento dei prezzi dei vini DOC e DOCG del Bel Paese, ci siamo convinti dell’opportunità e della bontà, soprattutto per la congiuntura economica che stiamo vivendo, di realizzare un ampio servizio sul concetto di prezzo e le sue variabili nel mondo del vino. Un approfondimento sul valore materiale del nettare di Dioniso, sulla sua capacità di scambio nei mercati ma anche sulle teorie che sottendono, ancora oggi, la creazione del prezzo in sé, con l’analisi di quei modelli matematici che mettono in relazione tale indicatore e le molteplici caratteristiche del prodotto. Il biennio 2020-2022 ha fatto registrare una volatilità (variazione significativa e imprevedibile) dei prezzi del vino mai osservata in precedenza. I significativi aumenti dei listini, indotti dall’incremento dei costi delle materie prime e dell’energia, hanno fatto registrare, in media, un +6,6% negli ultimi nove mesi (fonte Osservatorio UIV-Vinitaly). Un incremento deciso che, tuttavia, ha colmato solo in parte un aumento che avrebbe dovuto essere pari almeno all’11%. Il differenziale tra il “ritocco” reale dei listini e quello auspicabile, pari a 600 milioni di euro di costi, è ricaduto interamente sulle aziende che, per mantenere le posizioni di mercato, non hanno voluto né potuto coprire tale deficit con l’incremento dei ricavi. A subire il colpo un po’ tutta la filiera ma in special modo cooperative, piccole imprese familiari e, a seguire, il settore industriale. Al centro di questa bufera, la determinazione del prezzo dei differenti vini prodotti: articolato indice di un valore capace di trascendere sé stesso, ripercorrendo, nella sua formulazione finale, così come nelle sue oscillazioni, gli aspetti materiali e immateriali che contribuiscono a creare ogni singola bottiglia.
Quantificare il valore
Un punto di partenza per una compiuta determinazione della teoria del prezzo dei beni lo troviamo nel quinto capitolo del primo libro della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith (1776), sotto il titolo Prezzo reale e nominale delle merci, ossia il loro prezzo in termini di lavoro e moneta. Tralasciando la parte, per così dire, più macroeconomica del ragionamento di Smith sulla determinazione dei prezzi, con i concetti di benessere sociale, scambio delle utilità delle merci e identificazione di una unità di misura del valore, quello che a noi interessa è la “frazione” microeconomica del suo pensiero che introduce i concetti di prezzo naturale e prezzo di mercato dei beni. A tal proposito l’economista scozzese scrive: «quando il prezzo di una merce non è più né meno di quanto è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale impiegati nel coltivare, preparare e portare al mercato la merce stessa, secondo i loro saggi naturali, quella merce verrà venduta per quello che si può chiamare il suo prezzo naturale». Il prezzo naturale del vino, secondo la teoria di Smith, sarebbe definito, in prima battuta, dallo specifico prezzo in grado di remunerare i fattori della produzione del bene: lavoro, capitale e terra alle rispettive misure di ponderazione economica (saggi naturali). Questi saggi naturali, che altro non sono se non il “prezzo” che l’imprenditore o il vignaiolo paga per ottenere determinate unità di fattori produttivi, cambiano a seconda delle caratteristiche della società e dell’ambiente in cui si produce il bene (ricchezza, progresso, qualità della forza lavoro, criticità ecc.). Non tutte le zone vinicole, quindi, avranno i medesimi saggi naturali. Il lavoro, in termini di ore e salario, sarà più caro in Valtellina o in Valle d’Aosta rispetto ad aree pianeggianti dell’Emilia o della Puglia. Così come la stessa rendita dei fondi vitati sarà diversa tra Montalcino o Barolo e zone con quotazioni più basse per ettaro. L’applicazione del prezzo naturale di Adam Smith alla determinazione del prezzo del vino ci fa cogliere, già da subito, come sia impossibile determinarne uno omogeneo, poiché tale indicatore (prezzo naturale) evidenzia un legame fra il valore del bene in sé e la distribuzione di questo valore fra le classi sociali in cui è realizzato. Quando, però, il vino o un semplice bene deve esse venduto, secondo Smith, il suo prezzo da naturale diventa quello di mercato, ossia quel «prezzo effettivo al quale la merce si vende […] Il quale può essere al di sopra o al di sotto o esattamente lo stesso del suo prezzo naturale. Il prezzo di mercato di ogni merce è regolato dal rapporto fra la quantità che ne viene effettivamente portata al mercato, e la domanda di coloro che sono disposti a pagare il prezzo naturale della merce, ossia l’intero valore della rendita, del lavoro, e del profitto, che deve essere pagato per portarla al mercato». Il prezzo di mercato è influenzato da fattori contingenti, tra cui la domanda effettiva del bene, ovvero la quantità di compratori disposti a comprare il bene al livello del prezzo naturale, quindi se la quantità di vino in un dato mercato è superiore all’effettiva domanda di questo, il prezzo di mercato è minore del prezzo naturale e in caso contrario maggiore. Nell’idea ancora “primitiva” di Smith non ci sono funzioni di domanda e di offerta o curve di tipo neoclassico, così il prezzo di mercato tenderà sempre a gravitare intorno a quello naturale. Un indice, quest’ultimo, di lungo periodo contrariamente al prezzo di mercato che lo è di breve. Il funzionamento è simile alla meccanica newtoniana e disegna quell’ideale mondo di libera e perfetta concorrenza tra imprese. Se per un bene ci sono prezzi di mercato più alti di quelli naturali, questi, nel lungo periodo, tenderanno a riequilibrarsi grazie all’attrazione che i saggi di profitto di tali mercati avranno nei confronti di altri imprenditori che, entrando con i loro beni colmeranno la domanda effettiva riportando i prezzi di mercato sull’indice di quelli naturali. Traslando il concetto al mondo del vino, salta subito agli occhi come il mercato di questo, se non nella sua versione di bene commodity, non funzioni e non abbia mai funzionato così. Il prezzo di mercato del vino, anche quello sfuso, è il frutto di molte variabili e, spesso, non è quasi per nulla influenzato dalle variazioni dei saggi di profitto ma lo è dalle preferenze dei consumatori, da meccanismi edonici, dalla circolazione delle informazioni ecc., ben lungi, quindi, da una visione deterministica.
Il prezzo tra scarsità e interesse
«I’m freezing my ass for (a bottle of) sass». Recitava pressappoco così, negli anni Novanta, un “adagio” statunitense che raccontava le file, già dalle prime ore della mattina se non addirittura durante la notte, davanti alle enoteche di New York per aggiudicarsi una o due bottiglie di Sassicaia in arrivo dalla Toscana. L’aneddoto sul Sassicaia ci introduce il concetto di scarsità. Il primo a presentare tale variabile nella determinazione del valore fu David Ricardo, vissuto tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX. L’economista inglese distinse due tipologie di beni, quelli riproducibili e quelli non riproducibili. Alla prima categoria appartengono le merci la cui quantità può, senza grandi problemi, essere aumentata. Alla seconda i beni il cui incremento di produzione è difficile oppure impossibile. Per esprimere quest’ultima categoria Ricardo, oltre alle opere d’arte fa proprio l’esempio dei vini pregiati. «Ci sono delle merci – scrive nel primo capitolo del volume Principi di economia politica e dell’imposta (1817) – il cui valore è determinato solo dalla loro scarsità. Nessun lavoro può aumentare la quantità di tali beni, e quindi il loro valore non può essere diminuito da un aumento dell’offerta. Alcune stature e immagini rare, libri e monete preziose, vino di una qualità particolare, che può essere prodotto solo da uve coltivate su uno specifico terreno, di cui esiste una quantità molto limitata, sono tutti ricompresi in questa categoria. Il loro valore è del tutto indipendente dalla quantità di lavoro originariamente necessaria per produrli, e varia al mutare della ricchezza e delle inclinazioni di coloro che sono desiderosi di possederli». Oltre al prezzo naturale, quindi, variabile fondamentale per la determinazione del prezzo dei vini, sebbene non tutti ma solo i più pregiati, è la scarsità/rarità della loro produzione (tipologia, annata, etichetta ecc.). Con il contributo di Ricardo alla teoria dei prezzi, il valore del vino, come accennato nella cover story del numero di marzo del 2021, si esprime in gran parte con l’idea aristotelica di axìa, ossia «ciò che vale per se stesso». Un assioma in grado di includere valore d’uso del bene (valore intrinseco legato al consumo da parte dell’uomo), valore di scambio (valore del prodotto sul mercato dopo l’incontro tra domanda e offerta) e valore di giustizia commutativa (sacrificio del venditore commisurato alla ricompensa in moneta ottenuta dalla vendita). Un forte contributo in tal senso, capace di ribaltare la teoria stessa dei prezzi di Smith, arrivò poi dai Marginalisti, una corrente del pensiero economico sviluppatasi tra il 1870 e 1890 e capitanata da Alfred Marshall, Léon Walras e Carl Menger. Il valore di un bene, e quindi il suo prezzo, definisce quello dei fattori produttivi, tra cui il lavoro che ha contribuito a realizzarlo e non il contrario come credeva Smith o Marx. C’è un valore soggettivo nei beni che si riflette nel prezzo, grazie anche alla scarsità che ne specifica il saggio di utilità. Questo valore soggettivo, secondo Walras è il frutto «dell’importanza che il consumatore attribuisce al prodotto stesso». Insieme alla scarsità/rarità, il valore soggettivo di un bene, legato alle scelte del consumatore, è un pilastro di base nella determinazione del prezzo dei vini. Stiamo perlopiù parlando di vini dall’origine accertata e certificata e soprattutto di quelli di alta qualità capaci di incrementare il proprio prezzo nel tempo. In generale, però, l’assioma può essere esteso, quandanche con risultati incrementali minori, alla quasi totalità dei vini di territorio. Il valore soggettivo di un vino è determinato, oltre dalla qualità tecnico-sanitaria del prodotto, dalla sua storia. La storia diventa reputazione e quest’ultima la arricchisce nutrendo l’idea del mito.
Un esempio di come la storia di un vino e solo l’idea di realizzarlo abbiano saputo creare valore è quello del Tignanello. Nel 1970 apparve un Chianti Classico Riserva di Antinori con la scritta Vino prodotto nella Vigna del Podere “Tignanello” e sotto Vendemmia ritardata. La bottiglia bordolese di colore verde era abbigliata con una lunga etichetta in cui era impressa, in maniera simil minimalista, la facciata di Villa Antinori: eleganza allo stato puro per i canoni di oggi, un po’ anonimo per l’epoca. Nel 1971 il vino venne definitivamente battezzato Tignanello e l’etichetta fu sostituita da una creazione del famoso architetto e designer Silvio Coppola che dieci anni dopo “disegnerà” anche le bottiglie di Ceretto, Blangé in primis. Nel 1975, seconda annata prodotta con il salto delle ’72, ’73 e ’74 venne modificato anche il vino, con l’aggiunta di un 20% di Cabernet sauvignon al Sangiovese e al Canaiolo e l’uso delle barrique per l’invecchiamento. «Era nato il primo vino come progetto – afferma il nostro direttore Daniele Cernilli – non frutto di una tradizione familiare o aziendale. Il primo vero vino moderno in Italia e fu un successo planetario». Il Tignanello era sul mercato ma non era un vino per tutti, non solo per il prezzo. La scelta dei canali distributivi contribuì alla “lievitazione” del mito. La modernità dell’idea del vino di vigna, l’essenzialità dell’etichetta, l’anticonformismo nell’essere al di sopra e al di là delle denominazioni, allora più che mai ingessate da vincoli di politiche locali al ribasso, l’esclusività nel riconoscersi, da consumatore, in una idea geniale e, non da meno, l’incredibile qualità del vino rispetto agli standard di allora lo resero una icona da imitare. E così fu, con il proliferare degli altri Supertuscan, figli di quest’ultimo più che del già iconico e raro Sassicaia. Samuel Bailey, economista e filosofo britannico dell’Ottocento, afferma che il valore di un bene è legato all’effetto che questo produce sul consumatore e il Tignanello, possederlo, conservarlo, presentarlo a tavola e, infine, berlo, di effetti ne produceva una infinità. Il prezzo del vino-progetto Tignanello fu sin dall’inizio legato al valore naturale (Smith), alla sua relativa scarsità (Ricardo) ma soprattutto al valore soggettivo (Walras) e, sempre più in seguito, all’interesse esercitato sugli individui/consumatori (Bailey).
Un mercato imperfetto
«La migliore annata di un vino? È sempre l’ultima, quella che si deve vendere». Questa una delle famose chiose di Angelo Gaja durante le sue lezioni di marketing del vino. Vere e proprie conferenze del fare, frutto di esperienza, prove e anche errori e non, come spesso accade, verbose e autoreferenziali ciarle accademiche. Vendere vino è l’obiettivo dell’azienda vinicola, piccola o grande che sia. Tutto il resto arriva dopo. Il mercato del vino in Italia, così come nel mondo, è una “piazza” non perfettamente concorrenziale perché, banalmente, si produce più di quanto si consumi. I dati Ismea Mercati inerenti al 2020 ci raccontano che le aziende agricole a produrre vino sono 310.428, cui aggiungere 45.631 aziende vinificatrici e 1.807 imprese industriali. Gli ettari vitati, sempre al 2020, erano 671.139, con una superficie media di 2,1 ettari per azienda. La produzione ha segnato 49,06 milioni di ettolitri di cui il 34% DOP e le giacenze (sempre 2020) erano pari a 44,3 milioni di ettolitri. L’export conta il 40,8% dello stock e il consumo interno assorbe 24,42 milioni di ettolitri, con un indice pro-capite in crescita e pari ai 40 litri annui. Un mercato nel suo insieme molto complesso, segnato sia da una marcata differenziazione dei beni proposti sia dall’unione di questi all’interno di categorie tipologiche apparentemente ben definite (vini spumanti, vini fermi, vini liquorosi ecc.) ma, nei fatti, “liquide”. A questo, inoltre, si devono aggiungere delle forti asimmetrie informative tra offerta e domanda, ovvero informazioni non solo non condivise ma spesso addirittura malcelate. Tale quadro colloca il mercato del vino all’interno di uno schema di concorrenza monopolistica (molte imprese che realizzano prodotti simili ma non identici), dove gli attori dell’offerta segmentano a proprio piacimento i beni (ciascun produttore sceglie cosa immettere, anno dopo anno, sul mercato) e questi ultimi (la singola etichetta), a causa delle diverse e tante variabili del processo produttivo, risultano una sorta di unicum rispetto ai prodotti simili della concorrenza. La finalità dell’impresa vinicola, come spiega chiaramente l’economista sommelier Stefano Castriota nel volume Economia del vino (Egea, Milano, 2015) «è intercettare le preferenze di una o più nicchie di mercato diventando monopolista e realizzando extra-profitti». Tuttavia le barriere all’entrata nel mondo del vino, come la limitazione dei diritti d’impianto o in talune aree la mancanza di terra qualitativamente adatta per realizzare prodotti di pregio, non soddisfano i requisiti di uno schema di mercato a concorrenza monopolistica che, nel lungo periodo, grazie proprio all’assenza di barriere all’ingresso dell’offerta, vedrebbe una costante diminuzione dei profitti fino al loro completo annullamento. Questa anomalia del mercato del vino lascerebbe, perciò, una profittabilità all’imprenditore vinicolo, legata essenzialmente alla capacità di distinguersi con vini di qualità superiore, reale o percepita che sia. In quest’ottica le politiche per la determinazione dei prezzi nei vari segmenti dell’offerta diventa vitale per l’impresa stessa. Per spiegare una, seppur sommaria, determinazione dei prezzi dei beni nei mercati non perfettamente concorrenziali come quello della concorrenza monopolistica, seguiamo lo schema dell’economista polacco Michał Kalecki (1899-1970) secondo cui le aziende, al netto della quantità producibile, fissano primariamente il prezzo tenendo conto dei costi medi di produzione e un margine di profitto. Nella determinazione del prezzo del vino il grado di monopolio che l’azienda ha sul mercato è fondamentale. Sostanziale nei vini pregiati. Nel terzo volume de Il Capitale Karl Marx scrive che «una vigna che produce vino di qualità assolutamente straordinario […] prodotto in quantità scarsa frutta un prezzo di monopolio. Il coltivatore della vigna verrebbe a realizzare un plusprofitto considerevole da questo prezzo di monopolio, la cui eccedenza sopra il valore del prodotto sarebbe esclusivamente determinata dalla ricchezza e dalla preferenza dei bevitori altolocati». Al netto della visione marxista, che trasforma il plusprofitto del monopolio in rendita per il proprietario del vigneto di pregio, la variabile qualitativa legata alla singola vigna e alle sue proprietà è, già nella seconda metà dell’Ottocento, un elemento distintivo nel calcolo del valore di alcuni vini. Il contenimento della fillossera aveva prodotto un istantaneo rilancio della viticoltura che, depurata delle limitazioni pratico-logistiche del XVII secolo (tappi ancora in legno, bottiglie in vetro molto costo se, instabilità dei vini, lentezza dei trasporti ecc.) e rinvigorita da quella scienza nuova rappresentata dall’enologia (sanitizzazione del vino, riduzione dei difetti, lotta alle malattie e ai virus ecc.), si poggiò su un riassetto segnato da una parte dalla scomparsa di antiche e meno produttive o resistenti varietà di uva e dall’altra da cospicui afflussi di capitali anche da settori extra agricoli. L’attenzione poi alla regolamentazione e all’origine dei vini, con la delimitazione delle zone e la protezione dei nomi, frutto di una pesante azione di lobbying nei confronti del potere da parte della classe manageriale, ancora in erba ma già molto agguerrita, degli Château a Bordeaux e delle Maison in Borgogna, portò alla creazione dei monopoli e la possibilità, fissando il prezzo a prescindere dalla quantità prodotta (Kalecki), non solo di maggiori profitti ma della realizzazione di quei vini mitici e iconici la cui curva di offerta è economicamente rigida nei confronti di quella di domanda. Oggi, una cantina nel determinare il prezzo di un vino deve perlomeno considerare quattro fattori: costo di produzione, costo di distribuzione, valore percepito e confronto con i prezzi dei vini concorrenti. I primi due fattori sono gli unici che l’azienda può, effettivamente, padroneggiare. Viceversa, le altre due variabili dipendono dal posizionamento strategico di ogni singolo vino e dell’intera azienda, nonché dalla reputazione di questa. Il posizionamento strategico, ossia il modo in cui in un medesimo settore produttivo ci si distingue dalla concorrenza, è in Italia cruciale nella creazione del prezzo del singolo vino. In un mercato come quello nazionale dove lo 0,34% delle aziende vinicole generano il 75% del fatturato e il 99,6% devono dividersi il resto della torta, un posizionamento strategico in grado di conoscere l’attuale status del prodotto e le potenziali future collocazioni di questo rispetto ai competitor rappresenta un vantaggio tangibile nell’approntare una valida strategia di marketing. Allo stesso modo la reputazione, intesa come rapporto tra grado di fiducia del cliente nei confronti del marchio e il livello di informazione che il cliente desidera avere prima della scelta (ad esempio: mi fido di un grande produttore di Barolo e quindi reputo il suo Langhe Nebbiolo sicuramente di alta qualità), è una leva significativa nella generazione del prezzo di ogni singola etichetta.
Calcoli, variabili e modelli
Il valore del vino è, in definitiva, una sommatoria di elementi materiali, immateriali e anche esogeni al mero processo di produzione o distribuzione, la cui influenza è, talvolta, difficilmente quantificabile. Un bene complesso il cui prezzo non riflette solamente la sua qualità intrinseca che, sinteticamente, può riassumersi con le variabili territorio, enologia e caratteristiche del produttore. Se dovessimo dare per acquisita la qualità dei vini, al netto delle differenze tra tipologie, territori e correlazione di questa nella realizzazione dei listini di vendita, l’aspetto fondamentale nella determinazione del prezzo risiederebbe nella conoscenza e nella verifica di tutte quelle variabili che partecipano al suo incremento o alla sua riduzione. Per individuare il peso e l’influenza di tali variabili che, a breve, andremo a dettagliare, vengono oggi utilizzati dei modelli edonici (Hedonic Price Method, HPM): tecniche di valutazione indiretta del valore di un bene realizzate per mezzo del rilevamento dei prezzi dei beni che lo assorbono e il contributo misurato che ciascuno di questi dà al prezzo del bene in esame. Utilizzato per la prima volta nel 1928 dall’economista agrario statunitense Frederick Vail Waugh per l’individuazione dei fattori qualitativi nei prezzi degli ortaggi, nella fattispecie gli asparagi sul mercato di Boston, ma in seguito anche nel campo immobiliare e delle autovetture, il modello edonico di determinazione del prezzo considera quest’ultimo una variabile dipendente dalle sue caratteristiche e dall’importanza (traslazione del concetto di piacere e quindi per questo edonico) che i consumatori, nel mercato di riferimento del bene, riservano a ciascuna di queste caratteristiche. In poche parole, tali modelli dimostrano che i beni, non tutti in realtà, sono caratterizzati dalle loro proprietà costitutive e il valore di tali beni può essere calcolato sommando i differenti valori stimati delle singole proprietà. Senza addentrarci all’interno degli aspetti econometrici di questi modelli né nella forma funzionale dell’equazione o sulle possibili distorsioni delle stime, cercheremo di indicare quelle variabili o quei fattori da cui, in tale contesto metodologico, dipenderebbe il prezzo del vino. Il primo elemento da considerare è la qualità, intesa come positivo attributo sanitario e organolettico. A seguire, la tipologia del vino, ovvero la categoria merceologica di questo: spumante, vino fermo, bianco, rosso, rosato ecc. Quindi il territorio, la denominazione e il più lasco e complesso concetto di area storico-antropologica di provenienza. Solo per chiarire questo aspetto, è evidente in tutto il mondo che zone storiche o rinomate assicurino una discreta porzione di markup sul prezzo finale. Viceversa, vini prodotti in aree emergenti o, ancor peggio, in calo di immagine e/o qualità media dei prodotti, a parità di condizioni, facciano fatica a imporre nei prezzi dei vini il proprio valore. Altre variabili sono la dimensione aziendale, la reputazione del brand, i riconoscimenti sulle guide di settore, l’eventuale produzione biologica o biodinamica, la quantità-scarsità del prodotto, il millesimo, il vitigno, la tecnologia enologica utilizzata nelle fasi di produzione, l’eventuale invecchiamento e il potenziale di tenuta nel tempo con riferimento al valore atteso della singola etichetta. Il peso di tutte queste variabili contribuisce alla determinazione di un prezzo che tiene in debito conto la giusta valorizzazione della qualità intrinseca del prodotto, aspetto caro alla parte tecnica della compagine aziendale, così come del posizionamento e dell’apprezzamento da parte del mercato, fattore quest’ultimo caro alla parte manageriale della cantina. Il metodo del prezzo edonico, in conclusione, riesce a stimare il valore d’uso e di scambio del vino, considerando e ponderando le variabili endogene di prodotto e processo, così come quelle esogene, ma non permette di stimare il suo valore di non uso, ossia il valore della semplice esistenza di un vino: la sua forza di archetipo per un territorio o di fonte di benefici al di là della sua dimensione economica o edonistica. Altre prospettive si svelano dietro il concetto di valore del vino, non solo economico-materiale, estetico-erotico o spirituale come abbiamo raccontato in altri approfondimenti sulla nostra rivista, ma anche ontologico e maieutico di una dimensione storico-filosofica capace di trascendere le sue molteplici e materiali forme di manifestazione.