Interpretare e comunicare il vino. Due verbi che evidenziano la relazione tra un soggetto e il vino e tra individui interessati alla bevanda. Il vino nelle condizioni normali è una bevanda “sociale”, ma, si direbbe, con alcuni problemi. Infatti, Francesco Annibali, autore de Il linguaggio del vino (edizioni Ampelos) fa presente che «A parere di Ferrini 2016, la lingua enologica utilizzata dall’esperto è caratterizzata da una forte componente liturgica, nel senso che questi tende a rifugiarsi in zone del linguaggio altamente tecnico-specialistiche, anche quando la comunicazione è stata pensata per il grande pubblico». Interpretare è un verbo che fa venire subito in mente le diverse lingue parlate. Certo, una lingua sconosciuta rappresenta un aspetto della realtà che deve essere tradotto in una conosciuta per essere compreso. In effetti, è proprio questo il significato di interpretare: spiegare il significato di una realtà, non immediatamente intellegibile, con parole comprensibili. Il vino è una di queste realtà, richiede un interprete che lo conosca e sappia comunicarlo attraverso la traduzione delle percezioni in parole. Non diciamo niente di nuovo quando rileviamo che il vino ha uno specifico lessico e in questo si inserisce un glossario apposito per quanto attiene agli aspetti sensoriali. Forse, sin dai tempi degli antichi egizi, si impose la necessità di distinguere qualitativamente le produzioni pregiate da quelle meno importanti, quelle destinate al sovrano, quelle per le ricorrenze dell’epoca, quelle provenienti da determinate aree del Paese ecc. Lo strumento per classificare e distinguere le diverse categorie del prodotto doveva essere necessariamente la valutazione sensoriale e la percezione delle caratteristiche del vino probabilmente era, e sicuramente è, contrassegnata dalla parola, sia essa espressa o semplicemente elaborata, in grado di esprimere il concetto elementare del piacere: questo vino mi piace. Poi vengono i problemi del confronto con altri vini, del perché mi piace, dell’interpretazione e della comunicazione e il lungo cammino che conduce sino al concetto di qualità dei nostri giorni. Una definizione, quella di qualità, piuttosto complessa, che coinvolge esigenze diverse e molteplici: alcune obiettive e molte soggettive, implicite, che includono bisogni ed esperienze emotive non sempre consapevoli e non sempre scrutabili. In questo guazzabuglio di storia di popoli, di soggetti, poeti, santi e naviganti, di lingue morte e di lingue vive c’è posto anche per il glossario sensoriale del vino. A ricordarcelo è Giancarlo Gonizzi che, in un testo dedicato a una visita di Garibaldi in Emilia, nell’esergo, riporta un aforisma attribuito a Edoardo VII, figlio della Regina Vittoria e a lei succeduto sul trono di Albione: «Il vino non si beve soltanto, si annusa, si osserva, si gusta, si sorseggia e… se ne parla». Parola di Sovrano: del vino, dunque, si parla e forse, in qualche caso, mi permetto di aggiungere, anche a sproposito. A occuparsi del vino in quanto fonte di più o meno ispirate parole sono attualmente due discipline: una è la degustazione, sorta in tempi antichissimi e di fatto “codificata” a cavallo tra ‘700 e ‘800, e l’altra è l’Analisi sensoriale che ha fatto la propria comparsa nell’immediato dopoguerra ed è giunta nel nostro Paese attorno alla metà degli anni Ottanta. Nel 1980 esce, scritto da Émile Peynaud, un testo che tratta in maniera, per i tempi, scientifica ed esaustiva della degustazione. Il titolo è Le goût du vin, dove la parola goût non significa, come si potrebbe credere, gusto, bensì fa riferimento alla totalità delle percezioni che si avvertono in bocca. Peynaud così descrive, in un capitolo che ha titolo Il degustatore alle prese con l’impotenza delle parole, il ruolo e la funzione del degustatore che contrappone al comune bevitore di vino. Ecco come lo definisce: «Per contro il degustatore è tenuto a comunicare ciò che avverte e a formulare il proprio giudizio. Egli degusta per conoscere un vino e per parlarne. Però il valore di un degustatore non dipende solamente dalla sua sensibilità in quanto strumento recettivo, né dalla sua capacità di riconoscere gli odori, i gusti e di coglierne le armonie relative; esso dipende anche dalla sua attitudine a descrivere le proprie impressioni. Non è sufficiente che abbia un palato esercitato, dei sensi desti e pronti, una memoria vigile e attenta e che sappia disporsi nelle migliori condizioni per valutare un vino; bisogna che possa esprimere chiaramente le proprie percezioni sensoriali. In breve, deve possedere un glossario sensoriale sufficientemente vasto e preciso per comunicare le proprie percezioni e motivare le proprie valutazioni.

Ciò che fa la reputazione di un degustatore è, in gran parte, il modo di parlare del vino, la sua chiarezza, la correttezza e le sfumature della propria comunicazione. Ma, diffidate dell’assaggiatore che parla troppo, è probabile che riesca meglio a discorrere che a degustare». Un altro avvertimento prezioso che ci viene ancora da Peynaud: tenere ben a mente che una parola corrente, quindi ben nota, utilizzata a sproposito, suscita ilarità e, di fatto, derisione dell’assaggiatore e danno al vino. Dalle riflessioni, riportate, parrebbe di poter desumere, senza che esistano equivoci, che il degustatore “adulto” deve, oltre che riconoscere odori e sapori, anche saper dare voce al vino, conoscere termini appropriati e conoscerne il significato, così come deve poter utilizzare i sinonimi per poter variare nel corso di una degustazione di più vini la monotonia dell’esposizione. L’obiettivo della degustazione viene ben rappresentato da Rosalia Cavalieri: «Obiettivo finale della degustazione è perciò la trasmissione e la condivisione di questo sapere sensoriale attraverso il racconto che lo svela, lo incarna e lo precisa: la parola detta e quella scritta rappresentano l’inevitabile, quanto naturale, prolungamento di questa complessa esperienza sensoriale. Si passa da una dimensione soggettiva di percezione individuale – un’operazione cognitiva di valutazione, di discernimento e di interpretazione di ciò che si degusta: colori, profumi, aromi, sapori, consistenze – a una dimensione linguistica di verbalizzazione, quindi di condivisione di un’esperienza». Ecco una seconda dimensione della degustazione: condividere un’esperienza (quella di bere un buon bicchiere di vino) attraverso la condivisione della parola. Quanto finora descritto ha presentato la fase sociale della degustazione: la condivisione dell’esperienza, il rapporto degustatore/discente ecc. Nel contempo proprio la comunicazione potrebbe suscitare alcuni interrogativi. Il primo di essi potrebbe riguardare il numero di parole adatto e necessario per descrivere un vino, come avviene, ad esempio, per le schede concorsuali. Un secondo potrebbe riguardare il numero di parole costituenti il glossario o i glossari. Un terzo interrogativo potrebbe essere: per quale motivo si ricorre ai sinonimi? Possiamo in questa sede domandarci, ma quanti sono i termini del glossario? Le opinioni al proposito non coincidono. Per avere un’indicazione sommaria della quantità delle parole costituenti i Glossari della degustazione (e in alcuni casi dell’analisi sensoriale) si è predisposta la Tabella 1.

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La Tabella 1 propone 16 liste di termini (in pratica altrettanti glossari) riguardanti le caratteristiche sensoriali dei vini, alterazioni (difetti e malattie) comprese. Come si può constatare l’omogeneità delle liste è piuttosto scarsa, verosimilmente per la diversa finalità. Infatti le prime di esse, dalla fine del ‘700 a quella di Peynaud esclusa, non presentano degli apparentamenti tra di odori (serie fiorale, fruttata, speziata ecc.) che invece compaiono a partire da quella di Peynaud. Le liste stilate dal 1955 al 1972 sembra facciano a gara nel raccogliere quanto più termini (verosimilmente sinonimi) possibili con l’intento, forse, di agevolare l’assaggiatore. Tre di queste liste si utilizzano prevalentemente in Analisi sensoriale e riguardano solo le caratteristiche olfattive. Esiste fra esse una differenza all’origine: quella di Pfister deriva da fonti bibliografiche, mente le altre due derivano da dati sperimentali ovverossia dagli assaggi e dalle schede fornite dall’Associazione americana di viticoltura ed enologia attiva in California e dalla Associazione enologi di Germania. Da notare la diversa sensibilità alle alterazioni dei vini espressa dai tre glossari. Le altre liste sono state costituite come raccolta di termini della degustazione, ivi compreso l’enorme glossario del Wine Lexicon. Il glossario della degustazione differisce da quello in uso in analisi sensoriale per la presenza di modalità espressive e descrittive con l’impiego diffuso delle metafore. Gli esempi che seguono sono tratti da un interessante articolo di Rosalia Cavalieri, ecco alcune metafore: Vino onesto, Ben vestito, Rugoso, Severo, Scolpito, Naso avvolgente, Bocca rotonda ecc. Altrimenti si può ricorrere alle sinestesie, come Vino vellutato o asciutto o morbido. Altra risorsa sono le metonimie, qualche esempio: “naso intenso”, in luogo di intensità di un odore, “bocca legnosa” per esprimere un eccesso di carattere legnoso ecc. quindi è possibile avvalersi delle similitudini e delle associazioni, come, ad esempio: odore di fiori d’arancio, profumo di miele, di cacao ecc. Frequente è la comparsa, nella descrizione dei vini, di sinonimi come Strutturato, Robusto, che sostituiscono sovente il termine Corpo oppure il contrario come Magro, Sottile, Vuoto ecc. Ebbene tutte queste risorse non hanno posto in analisi sensoriale perché esprimono delle interpretazioni delle caratteristiche di un vino attraverso parole che individuano realtà non standardizzabili. Infatti, quale potrebbe mai essere lo standard di un termine traslato come corpo o come generoso oppure come avvolgente o ancora, ma è un caso a parte, come minerale che si usa frequentemente, ma il cui utilizzo è alquanto discusso? L’analisi sensoriale, che si propone di avvicinarsi quanto più è possibile alla valutazione obiettiva e cioè di esprimere la realtà olfattiva mediante il confronto con il relativo standard, restringe l’ambito di azione agli aspetti olfattivi e stabilisce un codice di riferimento per le parole utilizzate che devono essere: pertinenti, precise, discriminanti, esaustive e indipendenti. Ciò significa che si deve abbandonare nella descrizione di un vino ogni parola dal significato traslato e che non tutte le caratteristiche sensoriali del vino sono sottoponibili ai criteri interpretativi dell’analisi sensoriale. Sostiene Pereira, pardon Peynaud, che «è importante, è evidente, che le parole utilizzate significhino la stessa cosa per tutti… Malgrado tutto, bisogna riconoscere che il linguaggio gustativo (il sapore) è spesso impreciso ed ambiguo, perché le parole possono avere un senso diverso da quello in uso nel parlare corrente». Inoltre è opportuno che l’assaggiatore non cada nell’errore di parlare con lo stesso linguaggio per vini diversi. Morale della favola, parrebbe di capire, secondo quanto sostiene Peynaud, che «Parlare del vino in maniera precisa non è facile. La relazione tra l’espressione e la sensazione, fra la parola e la qualità… non è così evidente. Noi (N.d.R. Assaggiatori) soffriamo di deficienza di parole e di carenza di vocabolario e la difficoltà di esprimerci è un’incitazione all’espressione gratuita e si comprende bene la tentazione di mascherare la propria incapacità dietro la verbosità». In breve, parlare tanto per non dire niente. Per fortuna viene in soccorso al degustatore il linguaggio traslato (metafore, sinestesia ecc.). Esso ci consente di esprimere le sensazioni e le percezioni che il vino determina attingendo a parole riguardanti aspetti della realtà che con il vino hanno nulla a che vedere, ma che il degustatore ritiene, o altri hanno ritenuto per lui, che siano in grado di esprimere, di tradurre le percezioni che il vino suscita. Si tratta, per lo più, di riferimenti comuni a tutti gli esseri umani e, dunque, facilmente comprensibili. È stato detto comprensibili a tutti? Si è esagerato. Anche le parole di uso più comune possono mutare nel significato. Talvolta a prescindere dal volere delle persone interessate. Si propongono di seguito alcuni casi esemplari di parole che sono state introdotte nel lessico enologico con l’intento di definire certi aspetti sensoriali, ma che, nonostante il successo, suscitano qualche perplessità. Le parole in oggetto sono Corpo, Retrogusto e Generoso, appartenenti alla tradizione, mentre Croccante e Minerale sono di conio recente. Il termine Corpo, usatissimo, lo si ritrova già nel glossario sensoriale di André Julien, autore di un trattato sui vitigni, diffuso attorno agli anni Venti del XIX secolo. La definizione di Corpo che leggiamo è la seguente: «vino che ha una certa consistenza, un gusto pronunciato, una forza vinosa, di solida sostanza, che riempie la bocca al contrario di un vino leggero, secco, freddo e acquoso». Siamo nel 1822, Napoleone nel 1813 in un documento ufficiale ha inserito la parola degustazione, e la descrizione del vino mi sembra sensorialmente ineccepibile. Si divide in due parti: ciò che il vino è e ciò che il vino non è. La parte positiva si fonda su parole che delineano una realtà di sostantivi cui si appoggiano aggettivi che ne esaltano il ruolo: il vino riempie la bocca di consistenza, gusto, forza e sostanza e queste caratteristiche identificano il termine Corpo che per contrasto non è leggero, secco, freddo e acquoso. Sfido chiunque a non capire che cosa significa la parola Corpo descritta con termini esclusivamente “sensoriali”: si parla di percezione tattile, di gusto, di odore e di sapore di vino rinforzato (in Francia all’epoca con il termine vinoso si identificavano i vini arricchiti). Tutti aspetti facilmente verificabili con il bicchiere in mano e il vino in bocca. Da notare che, secondo l’interpretazione riportata da Jullien, un vino ha Corpo o non ce l’ha, il termine non è definibile ulteriormente con aggettivi abbinati come debole, robusto o forte ecc. Sul finire del secolo XIX, il nobile Giovanni a Prato ha l’idea di scrivere un interessante trattato sulla mescolanza dei vini detta anche taglio. In esso tocca lo spinoso argomento del retrogusto e accenna a qualcosa sul corpo: «serve in parte a far apprezzare la quantità di estratto cioè il corpo…». Ohibò! Il corpo del vino si identifica con l’estratto? Ma l’estratto è la porzione non volatile del vino ovvero l’artificio di laboratorio ottenuto facendo evaporare gli odori e l’alcol. In un vino amputato della porzione volatile senza forza vinosa non è facile stabilire il ruolo sensoriale dell’estratto ovvero separare sensorialmente il solido e il volatile di un vino. Per quali ragioni si sia identificato il Corpo con l’estratto non mi è dato sapere. L’estratto è valutabile per pesata e si esprime in grammi, è un dato che ha significato analitico prima ancora che, eventualmente, sensoriale. Forse, qualcuno avrà colto delle somiglianze o delle identità. Credo, tuttavia, che quanti non hanno esperienze di laboratorio o non siano tecnici le definizioni comode o utili per queste categorie dicano poco. Credo che sia più facile avvertire la forza vinosa, la bocca con sentore di pienezza, la consistenza che non cogliere l’estratto di un vino. Comunque le due definizioni possono generare equivoci. Ciò non toglie che sia diventata prevalente e ufficiale la versione secondo cui il Corpo di un vino corrisponde all’estratto. Ci sarà pure una ragione e poi, scusate, ma chi era sto Jullien? Quando si parla di corpo probabilmente viene subito in mente la realtà a noi più familiare ovvero il corpo umano, anche se all’Ambasciatore, potrebbe venire in mente il Corpo Diplomatico e al Generale il Corpo d’Armata. Un altro riferimento all’essere umano, questa volta alle sue virtù, lo troviamo nel termine Generoso. La parola in questione ha un significato univoco ed esprime un atteggiamento di chi offre senza nulla chiedere in cambio. Questa “generosità” letta nel vino si traduce essenzialmente come una forma della benevolenza della natura: uve sane e mature. Questi sono, tradizionalmente, i presupposti di un vino buono e di buona gradazione alcolica. Non è molto utilizzato al presente, ma è stato, in passato, impiegato dal Carducci per spiegare l’effetto di una generosa Barbera che infonde coraggio nei naviganti, da Italo Svevo che ha intitolato un racconto breve proprio “Vino generoso” e a questa generosità imputa il litigio con i presenti a un pranzo; ma, soprattutto, molti ricorderanno che nell’opera Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, compare Turiddu, prima di recarsi al duello con compare Alfio, salutando la propria madre, ricorda che il vino che ha bevuto era generoso assai e troppi bicchieri ne ha bevuti. Solo nei versi del Carducci la generosità del vino ha un esito positivo, ma anche in questo caso si osserva un aspetto prevalente rispetto agli altri: il tenore in alcol. L’identificazione fra vino alcolico e vino generoso è palese. Si verifica, nell’attuale fase di criminalizzazione del vino che il termine generoso, che in origine era di segno positivo, cambiato il contesto diventa addirittura negativo. Sia che si usi il termine per definire le caratteristiche di un vino, sia che si partecipi con l’ascolto è opportuno che si sappia che generoso è sinonimo, di fatto e solo, di alta gradazione alcolica. Peynaud suggerisce alcuni sinonimi: energico, vigoroso, potente, confortevole (nel senso che conforta) combattivo, aggressivo ecc. Abbiamo visto due termini che hanno cambiato significato rispetto a quello originario.

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Da non molti anni per descrivere il vino si utilizza anche il termine Croccante e va detto che ci è simpatico anche se suscita alcune perplessità. La prima di esse, è ovvio, consiste nella difficoltà di trovare il posto giusto dove inserirlo nello schema delle probabili percezioni dell’assaggio del vino. Non lo si può sistemare, come a tutta prima sembrerebbe, tra le percezioni tattili perché il croccante è altamente improbabile in un liquido. Croccante è una percezione olfattiva, ma è un paravento dietro cui si nasconde il termine fruttato. Non il generico fruttato, ma il fruttato giovane, sodo, turgido che sotto i denti pone una tenue resistenza che origina, per analogia, la percezione che chiamiamo “croccante”. Non è un termine semplice da collocare perché non tutta la frutta può fornire l’impressione della croccantezza, la sua definizione, per altro, richiede il passaggio ulteriore da croccante a fruttato. Non direi che sia un termine traslato, quanto piuttosto poco pertinente e, forse, elitario. Vediamo insieme un esempio di applicazione trovata su L’Enologo e riguardante una Barbera: «Le note vinose che la contraddistinguono in gioventù si accompagnano ad un ampio bouquet di frutti rossi, dapprima croccanti ed in seguito maturi, quali ciliegia, mora, lampone e prugna». La prossima parola che consideriamo è Minerale. Alcune cronache riferiscono che nell’area di produzione dello Champagne sorse l’esigenza di trovare un termine più o meno specifico che riguardasse in maniera esclusiva quel vino e il terroir di provenienza. Il termine che venne trovato era Minerale. Il concetto di terroir punta sulla specificità delle componenti geografica, climatica, vitigno, saperi, natura del terreno ecc. La componente che riguarda il terreno, la sua ricchezza (o povertà) in minerali, in effetti, è specifica e unica. Il problema è che ogni territorio è dotato di una specifica natura fisico-chimica e… minerale. Sicché, trovato l’elemento qualificante dell’area dello Champagne, non si è risolto nessun problema se questo elemento è così generico e indeterminato da essere applicabile a ogni territorio inserito nel contesto di un’area di produzione protetta. Minerale è parola così generica che si è estesa ben al di fuori dell’area socio-economica che l’ha adottata per prima. Questo fatto, in considerazione anche della equivocità del termine, ha assunto un significato specifico e, infatti, viene ritenuto da molti capace di esprimere una caratteristica del vino. Seppur è vero che per altri assaggiatori non è per niente chiaro che cosa significhi sensorialmente la parola in questione. Riportiamo al proposito due rilievi tratti da Carattere minerale del vino: marketing o realtà sensoriale? lavoro di Antonio Palacios. La prima osservazione è di Jamie Goode, giornalista e critico enologico londinese: «Mineralità è un descrittore usato frequentemente nelle note di degustazione, ma è fonte di molta confusione. Da dove provengono i sapori minerali? Una spiegazione potrebbe essere la presenza di composti solforati ridotti, descritti comunemente dagli assaggiatori come sapori di “riduzione”; possono essere erroneamente scambiati… per carattere di terroir in vini con alti livelli di acidità, definiti come “minerali”». La seconda considerazione, riportata dal medesimo Palacios, è di Benjamin Lewin, editore scientifico: «Che cosa è la mineralità? Personalmente la vedo come una sorta di definizione di pietra focaia affumicata, a volte associata a un chiaro tocco di polvere da sparo sempre con una buona acidità». Per quanto ci riguarda non siamo in grado di esprimere un giudizio motivato su questo termine, sia per la versione che lo vuole descrittore in analisi sensoriale sia per quella che, semplicemente, lo inserirebbe nel glossario delle parole del vino. C’è un aspetto che tuttavia ci pare di dover sottolineare. Esistono dei termini che hanno misteriosamente più successo di altri e non sempre il loro significato è comprensibile immediatamente. È lodevole che molti studiosi, enologi e non, si affaccendino attorno a un termine come Minerale per trovare un significato che possa collegarlo a un aspetto sensoriale del vino. Quel che ci parrebbe utile è che quanti ritengono di avvertire la mineralità nel vino riescano a convincere, con argomenti sensorialmente dimostrabili, che il carattere è percepibile, tanto più che da un’indagine effettuata da ricercatori francesi e neozelandesi, ripresa da Il Corriere vinicolo del maggio 2017, si legge quanto segue: «i dati emersi dallo studio suggeriscono che i giudizi di mineralità paiono essere basati anche su input guidati dai dati (ovvero caratteristiche reali dei vini) e non solo su marketing “smart” (percezione basata sulla conoscenza)». Si intravvede l’esistenza nel Glossario senso - riale di un problema di coesistenza tra l’antico termine retrogusto (Pijassou menziona un arrieré goût) e il termine persistenza pro - posto da Vedel negli anni Sessanta del secolo scorso. Il termine persistenza è stato ufficialmente adottato tanto è vero che l’OIV ne ha fornito la definizione ufficiale. Tra i due termini, tuttavia, Peynaud inserisce un terzo incomodo: sève. Si tratta di parola che nel nostro Glossario si direbbe che stia scomoda. Che cosa significa? Intanto è espressione antica, talmente antica che non si sa se imputarla al gusto (sapore) o all’olfatto. Secondo Jullien (1822): «Si dice Sève il profumo aromatico e la parte spiritosa dei vini che si sviluppano quando, nel corso della degustazione, abbandonano la bocca e continuano a farsi sentire dopo il passaggio del liquido». Di seguito Peynaud ci mette del suo: ricorda, infatti, che la parola Sève altro non rappresenta che ciò che conosciamo come retro-olfatto e la sua persistenza e, dunque, l’espressione “persistenza aromatica intensa” è un’invenzione di quanti hanno ignorato che la parola “sève” (e il suo significato) esistevano già da 150 anni. Noi ravvisiamo in queste conclusioni una leggera polemica con Vedel, ma forse ci sbagliamo o no? Le caratteristiche essenziali della persistenza sono costituite dal perdurare del sapore (percezioni gusto/tattile/retro-olfattive della cavità orale) del vino per un pe - riodo di tempo tra i 2 e i 20 secondi, dopo che il liquido è stato ingerito o espulso. Si ritiene che la persistenza sia un indice di qualità per cui, va da sé, che maggiore è la persistenza stessa e più elevato è il livello qualitativo del vino. Anche il retrogusto si manifesta dopo che il vino ha abbandonato la cavità orale, ma ciò che si avverte sono percezioni sgradevoli tipo amaro o urina di topo del tutto assenti precedentemente. Le differenze fra le due percezioni sono notevoli: l’una conserva l’impronta del vino per una manciata di secondi, mentre l’altra muta il sapore del vino in senso peggiorativo e non è sottoposta a vincoli temporali. Ovviamente l’assaggiatore dovrebbe sa - per distinguere le due percezioni onde non smarrire il povero che assiste alla sua interpretazione del vino. In breve bisognerebbe, come talora si legge, non usare il termine retrogusto in luogo di persistenza. Dopo la sottolineatura delle difficoltà che si trovano e rendono difficile la comunicazione del vino, ci dispiacerebbe se qualche aspirante Assaggiatore si scoraggiasse. La storia ci insegna che gli assaggiatori sono sempre esistiti per la gioia dei sani e discreti bevitori, così come sono sempre esistite le difficoltà di comunicazione non solo a proposito del vino. Storicamente, risaliamo a partire dai tempi di Socrate, Platone e Aristotile, i pensatori, le autorità del pensiero, i filosofi non hanno mai considerato i sensi del “quotidiano” come degni di attenzione. Con sensi del quotidiano intendiamo il gusto, l’olfatto, la percezione tattile, mentre tenevano in grande considerazione la vista e l’udito che consentivano all’erudito di bearsi del bello e della buona musica. Forse questa premessa può sembrare banale, ma banalità per banalità è sufficiente considerare i corsi di cucina che popolano i programmi televisivi per accorgersi che l’aria che tira va in un’altra direzione. Non è una direzione opposta, ci mancherebbe, ma è quella dell’anche. Possiamo dire che l’apripista, blasonato, che ha rotto gli indugi e saltato il fosso ha un nome ben noto: Anthélme Brillat Savarin. Un magistrato di duecento anni or sono che si occupa di ricette è, crediamo, l’equivalente di uno scienziato, magari un neurobiologo, uno psicologo ecc. (citiamo a memoria, Shepherd, Spence, D’Errico, Donà ecc.) che si mette lì a parlare dei sensi del bevitore, e forse anche del vino. Ci si può non credere, ma è vero, i sensi del quotidiano, sono divenuti un argomento di studio e in questi ultimi anni sono usciti articoli e libri rivolti non agli specialisti, ma al lettore in quanto tale. Quest’opera di divulgazione dotta, ma accessibile, coinvolge anche l’assaggiatore e trova spazio in questo articolo sull’interpretazione e la comunicazione del vino, perché le nuove acquisizioni scientifiche possono diventare un problema se l’assaggiatore non ne prende conoscenza e non ne tiene conto. Non credo che sia opportuno (per questioni di spazio) considerare l’argomento in questa sede, ma dall’insieme delle informazioni reperibili ci pare che l’attenzione si debba spostare dall’esaltazione dell’approccio analitico al vino, da cui non si può prescindere, alla modificazione delle gerarchie delle percezioni: più olfatto e meno gusti, più percezioni tattili, ma, soprattutto, più attenzione al fattore umano con un interesse maggiore verso se stessi, in quanto assaggiatori e comunicatori e persone che vivono in contesti sociali pieni di insidie e capaci di suggestionarci e di far deragliare i nostri giudizi seppur espressi in assoluta buona fede. Qual è la via che aprono le neuroscienze? Definiamola in termini brutali: conoscere sé stessi (ovviamente in relazione alla interpretazione e comunicazione del vino) attraverso l’esperienza, anche degli altri, ciascuno con la propria storia, il proprio vissuto, il proprio sapere e le conoscenze acquisite. Per sintetizzare, se vogliamo mettere insieme quanto finora scritto e quanto appena enunciato, i requisiti richiesti all’assaggiatore si potrebbero, anche se un po’ grossolanamente, individuare nel sapere in senso lato del vino, nel possesso di un glossario sensoriale adeguato e, infine, nella conoscenza del funzionamento del proprio cervello; se le cose stessero veramente così alla degustazione spetterebbe un radioso avvenire. Conclusioni Assaggiare un vino non è cosa da poco: definire il colore, riconoscerne i profumi, individuare il ruolo della componente tattile e quello dell’olfatto retronasale, misurarne la persistenza non è facile, ma comunicarlo con parole appropriate crediamo sia ancora più difficile. Le informazioni che ci giungono dalle neuroscienze arricchiscono le nostre nozioni di assaggiatori e uniscono all’interesse per il vino quello per il bevitore, anche se mettono in pericolo convinzioni antiche che non hanno nulla di scientifico. Dunque, bere il vino è relativamente semplice, parlarne con cognizione di causa un po’ di meno. Il saggio ed esperto Peynaud suggeriva di non abusare con l’enfasi e la retorica dozzinale per non cadere nel ridicolo. Però, evitati i pericoli insiti in ogni comunicazione, del vino bisogna parlare sennò che vino è?